L'amore crea la realtà:
ma esiste una persona che ci ama veramente?
IL circo brucia. Il pubblico è fuggito a rotta di collo. Le tribune sono vuote, il tendone è pieno di fumo e di fiamme. Il clown è solo sulla pista, il suo costume di lustrini riluce nel bagliore dell'incendio. Il suo viso è bianco come la calce, sotto l'occhio sinistro brilla la lacrima d'obbligo, il berrettino a cono sghembo sulla testa. Con una tromba lampeggiante suona la grande melodia dell'addio, sublime e ridicola.
Tutto è sogno. Lo so che tutto non è altro che sogno. L'ho sempre saputo, da quando ho iniziato a sognare di esistere: questo mondo non è reale.
Ha terminato la sua melodia, senza fretta e senza pecche. Esce, e dietro di lui crollano le travi e gli alberi in fiamme, il tendone si gonfia di fuoco e si affloscia, il vento della notte sa di cenere e di calore.
Fuori ci sono gli altri e stanno a guardare l'incendio con le braccia penzoloni. Tutti sapevano che sarebbe finita così. Nessuno ha cercato di porre in salvo qualcosa. Nessuno ha chiamato il clown, quando si trovava in mezzo al turbinio di scintille, nessuno era in pena per lui, neppure lui stesso. Nel riflesso i loro visi paiono quelli di dormienti. Ha preso a piovere un poco, ma troppo tardi e non a sufficienza, solo quel tanto che basta perché a tutti ricadano i capelli bagnati sopra la fronte.
Quando in sogno uno sa di sognare, allora è quasi sul punto di svegliarsi. Mi sveglierò presto. Forse questo fuoco altro non è che il primo raggio di sole dell'alba di un' altra realtà, che si infila sotto le mie palpebre chiuse.
Pian piano si fa buio. L'incendio ricade a poco a poco su se stesso. Nelle case intorno non c'è una finestra illuminata. Se ne stanno lì, nere e con gli occhi infossati, nel crepuscolo. Da lontano giungono grida, poi alcuni spari e il crudele latrare di un mitra. Sono i soliti rumori che annunciano la notte, la notte piena di assassini, tormenti, interrogatori, la notte in cui nessuno si fida di nessuno.
È proibito svegliarsi. Già il desiderio di svegliarsi è ritenuto un tentativo di fuga, alto tradimento. Bisogna tenerlo nascosto.
« Se mi chiedete », dice il direttore nell'oscurità, « se sono stati loro ad appiccare il fuoco per rappresaglia o come avvertimento... »
Fruga nella cenere. Tutti sanno di che cosa parla. Due giorni prima un uomo è stato ucciso in mezzo al pubblico. Era uno della milizia della morte, uno dei supervisori che si trovano ovunque. Quando tutti se ne furono andati, lui stava ancora lì, seduto, con la sua uniforme di pelle nera lucida, ma morto, strangolato. Nessuno aveva notato qualcosa, nessuno aveva voluto notarlo.
« Non è stato nessuno di noi », dice qualcuno.
« No », risponde il direttore, « ma questo non conta, come vedete. »
Dopo un lungo silenzio una voce di donna mormora: « Non può continuare così in eterno ».
« Continuerà così », dice il direttore, « finché non faremo niente per impedirlo. Si tratta di questo a partire da ora. »
Si tratta di svegliarsi.
« Se non facciamo niente », prosegue il direttore, « andrà avanti sempre così. Dobbiamo deciderci. Dobbiamo lottare. Dobbiamo unirci a quelli che lottano. »
Il clown si allontana e, strascicando i piedi in mezzo alle pozzanghere, si dirige alla sua roulotte. Di colpo si sente stanco morto. Rimane a lungo seduto davanti allo specchio e osserva il suo viso bianco come farina con la lacrima sotto l'occhio sinistro. Poi comincia a struccarsi. Un altro viso viene alla luce. È ancora più irreale, un viso di nessuno, un viso qualunque, gli è del tutto estraneo, gli è sempre stato estraneo, quel viso. Cerca di darsi per un attimo un'aria intelligente o almeno seria, ma subito i suoi tratti ritornano al loro stato di riposo, all'espressione di abituale stupore. È il viso di un vecchio poppante.
Che io ci sia, è già di per sé sorprendente, ma che sia potuto diventare così vecchio, lo è molto di più. Mi sono sforzato, signore e signori, ho fatto quanto potevo. Mi sono detto: Se a sopportare questo mondo ce la fanno tutti gli altri, per i quali non sarà certo più facile che per me... Ho aspettato per tutta la vita e sono invecchiato nell'attesa di svegliarmi, e guardate a che punto mi ritrovo. Li invidio tutti per la loro spensieratezza. Invece io sono oberato di pensieri.
Mentre si sta cambiando d'abito, entra il direttore con impermeabile e cappello e l'immancabile mozzicone di sigaro spento fra le labbra. La lunga frusta da pista col manico corto se l'è infilata sotto il braccio, la corda è arrotolata intorno all'impugnatura. Scuote il cappello, lo posa sul tavolino per il trucco, la frusta accanto. Poi si siede a cavalcioni della sedia, lo schienale in mezzo alle ginocchia. Questo significa che ha qualcosa d'importante da dire. Il clown se ne sta lì e cerca di assumere un'espressione attenta.
« Dunque », dice il direttore, « sai di che cosa si tratta. »
Si guarda intorno, come nel timore che qualcuno possa ascoltare.
Il clown annuisce.
Si tratta di svegliarsi.
« Noi siamo pronti a collaborare », prosegue il direttore con voce soffocata. « Ormai non ci resta altro da fare. Gli altri sono tutti d'accordo. E tu? »
Il clown annuisce di nuovo.
Il direttore lo afferra alla spalla e lo scuote un poco. « Sta' a sentire, ora non si tratta più del tuo numero. Non si tratta più del circo. È tutto finito da stasera; sono cose per tempi normali. »
Cose per un altro sogno.
« Devi decidere », dice la bocca col mozzicone di sigaro. « Con noi o contro di noi, bianco o nero. Chi cerca di tenersene fuori è un traditore e verrà trattato come tale, da tutti. »
È proibito svegliarsi.
Il clown annuisce per la terza volta.
« Bene », ode la voce arrochita del direttore, « contiamo su di te, vecchio mio. Ti aspettiamo a mezzanotte alla seduta del comitato. Ma sii puntuale, capito? Là saprai tutto il resto. Ecco l'indirizzo. »
Il direttore gli dà in mano un foglietto.
« Leggilo, imparalo a memoria, e poi brucialo! in nessun caso qualcun altro deve venirne a conoscenza, chiunque sia. Capito? »
Il clown annuisce ripetutamente.
Il direttore gli dà un leggero, amichevole buffetto sulla guancia, prende il cappello e se ne va. Ha dimenticato la frusta. Il clown la osserva, è ancora lì, sul tavolino per il trucco, l'afferra cauto e si sdraia con essa sul letto. La srotola, la riavvolge, la srotola di nuovo.
In fin dei conti non posso essere l'unico ad aver notato qualcosa. Mica sono poi così furbo. Si sono semplicemente messi d'accordo per non parlarne. O magari a loro sta bene così? Che a loro piaccia questo sogno?
Il clown si alza, indossa il suo vecchio cappotto, si avvolge una lunga sciarpa attorno al collo e si mette il cappello. Legge ancora una volta l'indirizzo, poi brucia il biglietto dentro il posacenere. Le fiammelle guizzano e si spengono.
Fuori, oltre la piazza dove stanno le roulotte, comincia un piccolo prato calpestato. Lì incontra un gruppo di suoi colleghi che, in silenzio, guardano tutti in una direzione. Egli si avvicina per vedere cosa c'è.
A una certa distanza, là dove inizia la strada illuminata che porta al centro della città, alcuni soldati della milizia in uniforme nera spingono innanzi una ventina di persone, uomini e donne, che hanno le mani incatenate dietro la schiena. Sebbene nessuno degli arrestati opponga resistenza, quelli in uniforme li colpiscono continuamente con manganelli.
Già il desiderio di svegliarsi è ritenuto un reato.
« Non posso vedere una cosa del genere », esclama fra i denti un'acrobata davanti al clown, « non posso proprio stare a guardare. » Il partner, che le sta accanto, cerca di trattenerla, ma lei si divincola e corre verso il gruppo degli arrestati. Porta ancora la sua calzamaglia, si è gettata soltanto un mantello sulle spalle. Gira intorno ai soldati un paio di volte, li provoca in tutti i modi possibili, grida loro in faccia degli insulti, perde il mantello. I soldati della milizia non la guardano nemmeno. Invece uno degli arrestati stramazza di colpo a terra come morto. Uno dei soldati gli pianta lo stivale in un fianco. Visto che non serve, colpisce l'uomo col manganello. Gli altri arrestati si sono fermati e stanno a guardare con facce pallide, mezzo addormentate.
L'acrobata ritorna, senza mantello, al gruppo degli artisti del circo.
« Fate qualcosa! » balbetta. « Non state lì come idioti! Fate qualcosa! »
Mi sono sempre sforzato, signore e signori, ho fatto quanto potevo.
Il clown si fa avanti. Carezza la guancia dell'acrobata e mormora: « Lasciate che me ne occupi io ».
Sguardi pieni di stupore si appuntano su di lui. L'acrobata sussurra: « Avete sentito? »
Come si può aver paura, sapendo che fra poco ci si sveglierà? Anch'io non sono altro che un sogno. La mia esistenza è ridicola e incomprensibile.
Nel frattempo altri due soldati con l'uniforme nera e il mitra sotto il braccio sono sbucati tra le roulotte e si dirigono verso il gruppo degli artisti. Il clown va loro incontro. Essi si fermano, le armi spianate. I loro visi sono giovani, infantili e un poco gonfi. Hanno l'aspetto di chi dorme a occhi aperti.
Il clown estrae dalla tasca del cappotto la frusta arrotolata del direttore e si dà con essa un colpetto alla tesa del cappello in gesto di saluto. I due in uniforme guardano incerti la frusta, si scambiano una rapida occhiata e si mettono sull'attenti.
« Mi conoscete? » chiede il clown in tono aspro, di comando.
Di nuovo i due si scambiano un'occhiata incerta, poi uno di loro dice: « Agli ordini. No ».
« Imparerete a conoscermi », prosegue il clown, « e vi assicuro che vi rincrescerà di avermi incontrato! Avete visto che cosa è successo là? »
« Agli ordini. No », risponde stavolta l'altro soldato. « Che razza di cretino è quello che tiene qui il comando? » li investe il clown. « Nessuno sa niente dell'altro, nessuno sa che cosa accade, ognuno pasticcia per conto proprio, come più gli piace. La parola disciplina pare sconosciuta da queste parti. Laggiù stanno portando via delle persone il cui arresto era riservato a me, soltanto a me! Quegli idioti troppo zelanti hanno così mandato all'aria uno dei nostri piani di capitale importanza! Maledizione, qui non si gioca a guardie e ladri, capito? Farete meglio ad affrettarvi, buffoni che non siete altro, a dire ai vostri compagni laggiù di liberare immediatamente i prigionieri. Immediatamente! avete capito? »
« Sissignore », dice il primo soldato. « Ma che cosa devo riferire, da chi viene l'ordine? »
« Da me! » gli grida il clown. « Dite a quei dannati pazzi che l'ordine viene dall'uomo con la frusta! Spero che loro siano più informati di voi, altrimenti che Dio li protegga! Che aspettate ancora? Alla svelta, forza! »
I due in uniforme corrono via, non molto in fretta, sono visibilmente confusi. Il gruppo degli arrestati e le loro guardie sono scomparsi da qualche parte nell'oscurità. Il clown si volta verso i colleghi, ma anch'essi sono spariti. È solo nella piazza.
Lentamente si avvia in direzione del centro. C'è ancora tempo alla mezzanotte, ma dovrà cercare l'indirizzo che gli ha dato il direttore e il suo senso dell'orientamento è davvero penoso. Egli cammina e cammina, un piede davanti all'altro, alla cieca, come ha fatto per tutta la vita.
Così come ognuno procede durante la sua vita, senza sapere che cosa gli riserba il momento successivo, se al prossimo passo poserà ancora il piede sul terreno solido o se invece incespicherà già nel Nulla. Questo mondo è così logoro che ogni passo costituisce una decisione.
È proprio questo suo modo di camminare a suscitare fin dall'inizio del numero l'ilarità degli spettatori. Basta che lui arrivi sulla pista, sempre un po' barcollante, come se fosse incerto e a ogni passo vincesse l'incertezza, entrando in scena, si potrebbe dire, per puntiglio, cosi, tanto per provare. Come un bambino testardo.
Nelle strade che percorre ci sono auto ribaltate, alcune bruciano ancora. Molte finestre sono in frantumi, i vetri scricchiolano sotto le sue scarpe. Scavalca un cane morto e più oltre vede in una pozza d'olio un uccello steso sul dorso con le ali aperte. Probabilmente lo ha ucciso il fumo.
La mia esistenza è incomprensibile e ridicola. Ma non ho mai potuto decidere liberamente di scegliermene un' altra. Uno resta quello che è. La libertà esiste solo nel futuro, nel passato non più. Nessuno può darsi un passato diverso. Tutto ciò che accade doveva avvenire così come è avvenuto. Dopo, tutto è ineluttabile, prima niente lo è. Si tratta soltanto di svegliarsi dal sogno. Ciò nonostante rincorriamo la libertà, non possiamo fare altrimenti, ma la libertà ci precede sempre di un passo come un miraggio, è sempre nell'attimo seguente, sempre nel futuro. E il futuro è oscuro, una parete nera e impenetrabile davanti ai nostri occhi. No, ci attraversa gli occhi, ci attraversa la testa. Siamo ciechi. Accecati dal futuro. Non vediamo mai quello che ci sta davanti, mai l'attimo seguente, finché non ci sbattiamo il naso. Vediamo soltanto quello che già abbiamo visto, cioè: niente.
Il clown entra in una delle case. È illuminata da una luce fosca. Le porte sono fracassate, negli appartamenti trova sedie capovolte, mobili sfasciati, tracce di incendi, tendaggi strappati. Attorno a un tavolo sono sedute delle persone, sembra che siano sedute lì da chissà quanto tempo, perché fra l'una e l'altra i ragni hanno tessuto le loro tele. I visi, disseccati come quelli di mummie, mostrano i denti o hanno le bocche spalancate come in silenziose risa. Tra loro il clown scorge un giovanotto smilzo che dorme col capo appoggiato sulle braccia. Nella polvere sul tavolo sono scritti dei numeri, molti numeri. Il giovanotto dorme come un bambino, e il clown esce senza far rumore, per non svegliarlo.
Arriva in cortili interni e sale sopra muri che si sgretolano e alla fine, come poteva ben prevedere, si è irrimediabilmente perduto. Ma non se ne preoccupa molto.
Poi, d'un tratto, si ritrova in una vasta piazza fin troppo illuminata. Le molte vetrine di un grande magazzino diffondono luce tut'intorno.
Il clown passa dall'una all'altra, sono tutte vuote. Solo quando svolta a un angolo, vede un assembramento di persone ferme a guardare una vetrina, ci sono anche parecchi soldati in uniforme tra loro. Non è completamente sicuro, però gli sembra di scorgere anche i due con cui ha parlato... e gli altri, quelli che conducevano via gli arrestati, e anche questi ultimi sono là. Non mostrano più alcun interesse gli uni per gli altri, sono del tutto presi da quello che vedono nella vetrina.
Il clown si alza in punta di piedi e guarda oltre le loro teste. Dietro lo spesso vetro è tutto un frullare di insetti giganteschi, vermi corazzati, lunghi quanto un braccio, che si rizzano su mille zampette tremolanti, onischi grandi come il palmo di una mano e coleotteri neri e grossi come stivali. In alto, sopra quel brulichio, è sospesa una grossa sfera liscia e metallica. A quanto pare, si libra nell'aria, senza un gancio o dei fili, e ruota in tutte le direzioni, ora lentamente ora vorticosamente. Sulla sfera c'è un ratto, un ratto enorme, grande quasi come un cane. Con molta abilità, si porta di volta in volta sempre nella direzione opposta, in modo da non cadere dalla sfera. Chissà da quanto tempo già si trova in quella tremenda situazione. Sembra allo stremo delle forze, il suo pelo è fradicio e arruffato per il sudore, la bocca semiaperta, così che si scorgono gli incisivi lunghi e gialli, il suo respiro è accelerato in modo pazzesco. Non ce la farà ancora per molto, presto scivolerà, piombando in quell'orrendo brulichio che già ora, avido, allunga mille antenne e chele verso di lui. Questo è dunque lo spettacolo che raccoglie quelle persone davanti alla vetrina.
L'inferno è un brutto sogno che non finisce mai. Ma come ci sono capitato? Cosa devo fare per svegliarmi finalmente?
Il clown getta uno sguardo ai volti di quelli che lo attorniano. I loro occhi sono aperti, ma vitrei come gli occhi di chi dorme. Alcuni di loro hanno la bocca spalancata. Nessuno fa caso a colui che li osserva così da vicino. Si sono anche scordati gli uni degli altri. Ed egli sa che nessuno di quei pupazzi viventi risponderebbe se chiedesse loro della strada. Inoltre non può, non può nominare l'indirizzo, a nessun costo.
Mi rivolgo a te, a colui che mi sta sognando, chiunque tu sia. So di essere impotente contro di te, sei il più forte. Conducimi dunque dove vuoi tu, ma ricorda: non mi dai a intendere più niente.
Senza sapere come, il clown si ritrova poco dopo nelle vicinanze dell'edificio indicatogli dal direttore: si tratta di una pensioncina per artisti che conosceva già da prima. Per strada giacciono cadaveri, rigidi e incredibilmente disarticolati come manichini. In mezzo a loro sono sparse singole membra, persino teste con cappello e cravatta al collo.
Quando il clown svolta nella strada dove si trova la pensione, già da lontano vede che è gremita di persone che fluttuano avanti e indietro, come onde del mare. Davanti alla porta della pensione s'ingorgano, s'infrangono e rifluiscono di nuovo. Ma tutto si svolge senza un solo rumore e con esagerata lentezza. Ci sono anche molti uomini in uniforme nera fra loro e altri con lunghi cappotti di pelle. Sembra che si stiano picchiando con estrema violenza ma, a causa della lentezza dei gesti, l'insieme dà solo l'impressione di un tetro cerimoniale. Alzando il braccio con un ampio movimento come di danza, ognuno colpisce in faccia col pugno o con ciò che stringe in esso quello che gli è più vicino. Niente si ode, se non un sordo ansimare e il botto e lo schiocco dei colpi.
Il clown si allontana velocemente e alza il bavero del cappotto per nascondere il viso, perché già uno dei tipi rissosi si è accorto di lui e lo addita agli altri. Alcuni volgono i loro visi impassibili e tumefatti, e ora una dozzina di persone avanza a lunghi passi fluttuanti verso di lui. Altri si uniscono. Il clown svolta rapido in un vicolo buio, poi nel seguente e in un altro ancora. Mentre corre, si gira a guardarsi alle spalle e non vede più i suoi inseguitori. Forse se ne è liberato.
Non ha senso fuggire. Non c'è via d'uscita. Ciò che avviene qui avviene anche altrove. Avviene sempre. A maggior ragione chi fugge cade in trappola.
Dopo aver percorso qualche altra viuzza oscura, scopre l'ingresso debolmente illuminato di un locale, una birreria, a quanto pare. L'ingresso consiste in una porta girevole di spropositate dimensioni, davanti e dentro la quale barcollano alcuni ubriachi. Solo man mano che si avvicina gli sorge il dubbio che non si tratti di ubriachi, perché tutti tengono gli occhi chiusi e le braccia protese, come se volessero imitare dei ciechi. Forse sono sonnambuli, perché quando il clown rivolge la parola a uno di loro, questi non risponde, ma continua a gironzolare intorno a braccia innanzi. Forse fingono, forse no. Il clown decide di entrare e di attendere nel locale il momento di poter fare ritorno alla pensione. Si spinge avanti attraverso la porta.
Il locale si trova in un seminterrato ed egli rischia di ruzzolare da alcuni gradini che non aveva visto. Davanti a lui si apre una stanza assai lunga, a forma di tubo, che verso il fondo si perde nella penombra e in nuvole di fumo. Soltanto poche, nude lampade a incandescenza pendono dal soffitto e diffondono una luce fosca. Nell'angolo più lontano sulla sinistra si innalza una sorta di matroneo cinto da una balaustrata di legno intagliato. Tutti i tavoli del locale, tranne quello sul matroneo, sono pieni zeppi e ricoperti di bicchieri di birra semivuoti, posacenere rovesciati e avanzi di cibo. Gli avventori sono seduti pigiati l'uno contro l'altro, molti hanno appoggiato il viso alle braccia, alcuni hanno la guancia in una pozza di birra, mentre le loro braccia penzolano sotto il tavolo, tutti dormono a bocca aperta. Respiri, schiocchi di labbra e un rumoroso russare riempiono l'aria pesante. Di tanto in tanto uno dei dormienti si muove, gira il capo da una parte all'altra e sospira, come se non riuscisse a trovare la giusta posizione.
Scavalcando molte gambe allungate, il clown cerca di farsi strada in mezzo ai tavoli, fino al matroneo sul fondo, per raggiungere l'unico posto libero. Arriva davanti alla ringhiera di legno e si accorge che è del tutto priva di aperture, non ci sono neppure gradini per accedervi. Allora con gran cautela, in modo da non disturbare nessuno dei dormienti, si arrampica sul tavolo più vicino e da lì sopra alla ringhiera. Con un sospiro si lascia cadere su una delle sedie, appoggia il mento sulla mano e attende.
Sognano di sognare. Sono in un altro sogno. Non bisogna svegliarli. Vorrei poter dormire come loro.
« Ma mi stai a sentire? » domanda piano una voce irritata.
Il clown trasalisce. Soltanto adesso si rende conto che già da un bel po' qualcuno gli sta parlando sommessamente. È il direttore.
« Ma certo », mormora il clown, « sono attento. » Fruga nella memoria annebbiata alla ricerca di qualche parola che ha udito. Il discorso verteva, ora gli sovviene, sul fatto che la riunione del comitato era stata spostata lì all'ultimo momento, perché la milizia, forse a causa di una spiata, aveva avuto sentore della cosa e la pensione era stata bloccata.
« La notizia non sembra colpirti particolarmente », dice il direttore, guardando il clown di sottecchi, con diffidenza. « Hai idea di chi possa essere stato a fare la spia? »
Il clown scuote la testa.
« Come facevi a sapere che eravamo qui? » indaga il direttore, mentre mastica il mozzicone di sigaro spento. « O è stato il caso a condurtici? »
Il clown annuisce.
« Quante coincidenze, non trovi? » chiede il direttore.
Il clown annuisce pensieroso, poi si rigira sulla sedia e grida: « Ma il servizio qui è catastrofico! Quanto bisogna aspettare prima di poter ordinare qualcosa? »
« Zitto! » esclama il direttore con voce soffocata, tappandogli la bocca. Quando lo lascia di nuovo libero, il clown domanda: « Perché? » Il direttore si appoggia allo schienale.
« Sta' a sentire, io mi sono assunto la responsabilità per te. Garantisco per te. Ma ci sono alcuni tra noi convinti che potresti essere tu il traditore. Io ho detto che ti ritengo incapace di una simile porcheria. Tu che cosa ne pensi? »
Il clown estrae dalla tasca del cappotto la frusta del direttore e gliela mette davanti. « To'! » dice. « L'hai dimenticata. »
Il direttore gira qua e là fra le labbra il mozzicone di sigaro. « Grazie, vecchio mio. Non ne ho più bisogno. »
Di nuovo scruta il clown a occhi socchiusi.
« Nessuno ha sentito quello che hai detto alle uniformi nere. Alcuni di noi ci terrebbero a saperlo. Che cosa gli hai detto? »
« Gli ho ordinato di dire agli altri che dovevano liberare i prigionieri. »
« Cosa? E che ti hanno risposto? »
« Hanno obbedito vedendo la frusta. »
Il direttore si accende il mozzicone e dà due, tre tirate, chiudendo gli occhi. Poi si scuote, batte in segno di approvazione sul ginocchio del clown e sghignazza.
« Ti credo. Ormai ti conosco e ti credo. Sistemeremo la faccenda. Lascia fare a me, vecchio mio. »
Si piega in avanti e guarda con insistenza il clown negli occhi. « Che cosa pensi, devo tenere subito il mio discorso? »
Il clown volge lo sguardo verso quelli che dormono e annuisce.
Non bisognerebbe svegliarli. Sono in un altro sogno. Forse sono proprio loro a sognare questo mondo. « Senza dubbio », dice, « è il momento adatto. »
Il direttore si alza e va alla ringhiera. Ma di nuovo pare colto dal dubbio e si volta verso il clown.
« Forse sarà meglio chiedere prima al padrone. Sì, è uno dei nostri, ma forse è meglio domandargli se è d'accordo. In fondo il locale è suo. »
« Sì, sarebbe opportuno », riconosce il clown.
Il direttore sta per scavalcare la ringhiera. Vi è già seduto a cavalcioni, quando di nuovo si ferma e sussurra al clown: « Ascolta, tu potresti anche dire due paroline d'introduzione. Capisci: riscaldare un po' il pubblico e così via. Poi io ritorno e comincio il mio discorso ».
Il clown annuisce stancamente. « Lo sai che non mi riesce. Faccio subito una gran confusione. »
« E sforzati per una volta! » sibila il direttore, infuriato. « Ma non capisci? Ti sto dando una chance. Forse è l'ultima per te. »
« Di che cosa devo parlare? » « Di quello che vuoi. »
Il direttore salta a terra, si affaccia tra due colonnine della ringhiera e dice al clown: « L'importante è che tu li metta di buon umore. Di questo si tratta ».
Si tratta di svegliarsi. Solo di questo si tratta.
Il clown segue con gli occhi il direttore che si fa strada in mezzo ai tavoli fino a una porta sulla parete laterale del lungo stanzone. Là si gira ancora una volta e gli fa con la mano un cenno di esortazione. Quando apre la porta, si ode per un attimo un brusio di voci, voci anche di donna che risuonano eccitate, come se fosse in corso una lite. Probabilmente quello è l'ingresso della cucina.
Non voglio parlare. Non voglio dover parlare mai più. Non ho più nulla da dire.
Il clown scavalca rapido la ringhiera, si cala su uno dei lunghi tavoli sottostanti e, attento a non urtare nessuno, corre fra le teste dei dormienti e i boccali di birra verso l'estremità del tavolo. Vuole tagliare la corda.
Non serve a niente fuggire. Non c'è via d'uscita.
Proprio mentre è sul punto di scendere a terra, si spalanca di nuovo la porta della cucina e il direttore fa capolino.
« Hai già cominciato? »
« Non ancora », risponde il clown, avvilito. « Stavo giusto per farlo. »
« Sbrigati! » esclama il direttore. « Conto su di te. » La sua testa sparisce.
Il clown si raddrizza. In piedi sopra il tavolo, si volta in tutte le direzioni, poi incrocia le braccia dietro la schiena come uno scolaretto che deve recitare una poesia.
Stimatissimo pubblico, miei cari sognatori.
Il numero che segue è unico al mondo e richiede la massima concentrazione. Perciò vi chiediamo assoluto silenzio e un rullo di tamburo. Questo è il momento della verità, ma, per essere sincero, io non so che cosa sia un momento, non so niente della verità, e tanto meno so a chi alludo, quando dico « io ».
Quando capitai in questo sogno, che voi chiamate mondo, esso era brutto, ed è rimasto brutto o diventato ancora più brutto. Io non ho memoria. Non posso raccontarvi particolari o circostanze. Dimentico sempre ogni cosa. Pensai di essere capitato nel sogno sbagliato o nel mondo sbagliato. O forse ero io a essere sbagliato per questo mondo, per questo sogno. Mi hanno picchiato e messo in galera, a volte mi hanno anche elogiato e dato molto denaro, sebbene fossi sempre lo stesso e facessi le stesse cose. Per questo mi sono dedicato a cercare di farvi ridere e piangere. Era quello che meglio mi riusciva.
Il clown è un po' seccato, perché è stato colpito da un sottobicchiere volante. Evidentemente qualcuno ha voluto sceglierlo come bersaglio di uno scherzo. Si volta verso il tipo burlone e vede sul matroneo, dove fino a un momento prima è stato seduto assieme al direttore, un uomo alto, calvo, dal fisico atletico che, guardandolo, ride balordamente e continua a lanciargli i tondini di feltro. È chiaro che si tratta di uno addetto al banco di mescita, perché porta un grembiule verde. Il clown, pensando che il tipo muscoloso agisca così senza cattive intenzioni, gli fa capire con un gesto della mano che per il momento non può partecipare al suo gioco, perché occupato in questioni ben più importanti. E sorride accattivante, per non irritare l'uomo un po' corto di cervello. Ma visto che questi, sghignazzando, continua a dargli fastidio, il clown sale su un tavolo più distante.
Io aspetto e aspetto di svegliarmi, finalmente, ma non ci riesco. Come un nuotatore capitato sotto un banco di ghiaccio, cerco il punto in cui riemergere. Ma non c' è. Per tutta la vita nuoto trattenendo il respiro. Non so come possiate farcela voi.
Il clown deve chinarsi per scansare nuovi sottobicchieri lanciati con infallibile mira. Ma poiché viene nuovamente colpito da alcuni proiettili, prende a propria volta uno dei dischetti di cartone zuppi di birra che sono sparsi sul tavolo e lo lancia verso il banconiere, naturalmente sempre sorridendo, nella speranza di accontentare così il tipo un po' sciocco e convincerlo a farla finita col suo stupido gioco. E in effetti, sorpreso, l'altro la smette. Il clown si guarda intorno in tutte le direzioni, sperando che il direttore sia finalmente tornato perché prenda in mano lui la situazione. Ma non lo vede da nessuna parte.
Oppure colui che ci sogna non si rende affatto conto di starci solo sognando? Posso io, il suo sogno, farglielo capire, in modo che finalmente si svegli? E spiegatemi una cosa, signore e signori: che cosa accade di un sogno, quando colui che lo sogna si desta? Finisce nel nulla? Non esiste più? Ma io voglio uscire di qua... sul serio! Non voglio più sognare di esserci. Non voglio neppure farmi sognare chissà da chi. O forse non facciamo altro che sognarci tutti a vicenda? Un intreccio di sogni, un groviglio senza confini, senza fondo? Siamo tutti un unico sogno che nessuno sta sognando?
In quell'istante un bicchiere di birra vola a un pelo dalla testa del clown e va a infrangersi con uno schianto contro la parete, alle sue spalle. Non può essere stato il banconiere a lanciarlo, perché è venuto da tutt'altra direzione. Ma il clown non ha visto muoversi nemmeno uno dei dormienti. Mentre ancora, con la mano a visiera sugli occhi, sta scrutando in giro, da un' altra parte arriva in volo una bottiglia che riesce giusto in tempo a schivare. Nuove bottiglie, bicchieri di birra, posacenere di terraglia e altri oggetti seguono a destra e a sinistra da tutte le bande, finché una vera e propria gragnuola di simili proiettili si scatena intorno a lui. Si ripara il capo fra le braccia e si china, ma in questo modo, non vedendo quasi più nulla, non può continuare a scansarsi con bastante destrezza e viene colpito più volte assai dolorosamente alla schiena, alle spalle e alle braccia.
Dato che l'impeto dei proiettili aumenta sempre, tanto che essi tagliano l'aria con l'acuto stridio dei colpi di sbieco, il clown ritiene opportuno saltare giù dal tavolo. A quattro zampe e sempre alla ricerca di un riparo, striscia fra le gambe di quelli che dormono immobili fino alla porta della cucina. Finalmente la raggiunge, ma non riesce ad aprirla. Non che sia chiusa a chiave, piuttosto è come se qualcuno, al di là, l'avesse barricata con dei mobili pesanti. Egli scuote la maniglia, martella coi pugni la porta, ciò che però in mezzo allo strepito dei proiettili si ode appena, e la spinge con le poche forze che gli sono rimaste. Ma è inutile. Si alza e guarda indietro nella sala. Ora anche il banconiere è sparito, forse anche lui ha cercato di mettersi in salvo dal bombardamento. Il clown è solo con l'esercito dei dormienti e la loro battaglia.
Se è vero che io sono soltanto il vostro sogno comune e che fin dall'inizio voi tutti insieme mi avete sognato e io non sono mai stato altro che il sogno del mio stimatissimo pubblico... allora vi prego, miei cari sognatori, vi prego con tutto il cuore: lasciatemi andare, adesso! D'ora in poi sognate di qualcos'altro, ma non di me! Non ce la faccio più. Non pretendo che vi svegliate. Continuate pure a dormire quanto volete e in pace, ma smettetela di sognarvi di me! Vi ho già fatto divertire abbastanza, ora, per favore, lasciatemi andare!
In quello stesso istante un boccale di pietra lo colpisce alla fronte con la violenza di una granata e va in pezzi. Il pallido, vecchio viso di poppante del clown si fa d'un tratto rosso di sangue e mostra un'espressione di profonda sorpresa e di piena comprensione. Sorride, come se finalmente avesse capito tutto. Le sue braccia eseguono il cerimonioso gesto con cui ha sempre ringraziato il pubblico per i suoi applausi, poi, rigido come una bambola di cera, crolla in avanti sopra il tavolato coperto di cocci.
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Lo specchio nello specchio ^, Michael Ende