alla ragazza più intelligente e carina che abbia conosciuto






And I swear it's true,
I was just about to say I love you
"Bat out of hell", Meat Loaf

We're like crystal,
we break easy
"Get ready", New order

Gliel'ho detto fin dall'inizio, ma lei non ha voluto credermi. Ogni via traversa sarebbe stata più breve.
Lei non è stato nemmeno ad ascoltarmi. Ed ora è troppo tardi. Ci siamo già spinti troppo oltre.
"È una stanza e contemporaneamente un deserto", cap.13



Lo specchio nello specchio

Michael Ende

"O forse non facciamo altro che sognarci tutti a vicenda? Un intreccio di sogni, un groviglio senza confini, senza fondo? Siamo tutti un unico sogno che nessuno sta sognando?"
"Il circo brucia", cap.29

What's called now the children literature goes back to the beginning of the 19th century. Before then fable had already existed, but it was not only for children: Fables were more significant than today and both children and adults lived in the fables' world.
"Civilization Desert", Michael Ende

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opere




SCUSA, non posso parlare più forte.
Non so quando riuscirai a sentirmi, me che ti parlo.
Ma riuscirai mai a sentirmi?
Il mio nome è Hor.
Ti prego, accosta l'orecchio alla mia bocca, per quanto tu possa essere lontano, ancora adesso o sempre. Altrimenti non posso farmi capire da te. E, anche se ti degnerai di esaudire la mia preghiera, resteranno tanti silenzi che dovrai riempire da solo. Ho bisogno della tua voce, quando la mia viene meno.
Questa debolezza è dovuta forse al modo in cui Hor vive. Per quanto possa ricordare, egli ha sempre vissuto in un edificio gigantesco, completamente vuoto, in cui ogni parola pronunciata ad alta voce provoca un'eco destinata a non spegnersi.
Per quanto possa ricordare. Che cosa significa?
Nei suoi giri quotidiani attraverso le sale e i corridoi, Hor s'imbatte a volte nell'eco errabonda di un qualche grido che lui stesso ha un tempo sbadatamente lanciato. Siffatto incontro col proprio passato gli procura gran pena, tanto più che la parola allora sfuggitagli ha nel frattempo perso forma e sostanza fino a diventare irriconoscibile. A quello stupido balbettio, adesso Hor non ha più intenzione di esporsi.
Si è abituato a usare la voce - quando la usa - solo al di sotto di quel limite oscillante oltre il quale essa
produce un'eco. Tale limite supera di poco il silenzio assoluto, dal momento che la casa ha un udito crudelmente fine.
Lo so che pretendo molto, ma dovrai addirittura trattenere il respiro se vorrai udire le parole di Hor. Gli organi della lingua gli si sono atrofizzati per il troppo tacere... si sono modificati.
Hor non potrà parlarti con chiarezza maggiore di quella che hanno le voci che odi poco prima di addormentarti. E tu dovrai mantenerti in equilibrio sul filo sottile che separa il sonno dalla veglia, oppure galleggiare come coloro per i quali il sotto e il sopra sono la stessa cosa.
Il mio nome è Hor.
Meglio sarebbe dire: io mi chiamo Hor. Perché chi, a parte me, mi chiama per nome?
Ho già spiegato che la casa è vuota? Voglio dire, completamente vuota. Per dormire Hor si raggomitola in un angolo o si sdraia per terra là dove già si trova, anche al centro di una sala, nel caso che le pareti siano troppo distanti.
Hor non ha problemi di alimentazione. La sostanza che compone le pareti e le colonne è commestibile.. almeno per lui. È una materia giallastra, un po' trasparente, la cui ingestione placa subito fame e Peraltro, a questo riguardo, le esigenze di Hor sono davvero minime.
Egli non si cura dello scorrere del tempo. Non ha modo di misurarlo, se non attraverso il battito del proprio cuore, che però è mutevolole. Non conosce il giorno e la notte, lo circonda una perpetua luce crepuscolare. Quando non dorme, gira di qua e di là, senza meta. Lo fa semplicemente per un impulso, un bisogno la cui soddisfazione gli procura piacere. Solo di rado gli accade di entrare in una stanza che crede di riconoscere, che gli sembra familiare, come se un tempo vi fosse già stato. D'altro canto, spesso, sicuri indizi gli fanno capire di passare da un posto in cui è già stato una volta: lo spigolo mangiucchiato di una parete, per esempio, o un mucchietto di escrementi secchi. La stanza gli è comunque estranea al pari delle altre. Forse in sua assenza le stanze cambiano, crescono, si allargano o si restringono. Forse è proprio il suo passaggio a provocare tali mutamenti, però non ama questo pensiero.
Che, a parte Hor, qualcun altro abiti in questa casa lo escludo. Certo, vista l'incredibile ampiezza dell'edificio, non è dato provarlo. È tanto poco probabile quanto impossibile.
Molte stanze hanno delle finestre, ma a loro volta queste danno soltanto su altri locali, in genere più vasti. Sebbene l'esperienza finora non gli abbia insegnato altro, di quando in quando Hor si trova a immaginare di giungere un giorno a un'ultima, estrema parete, le cui finestre offrano la vista di qualcosa di completamente diverso. Hor non sa dire di che cosa potrebbe trattarsi, ma talora si lascia andare a lunghe meditazioni sull'argomento. Sarebbe falso affermare che egli addirittura brami una tale vista: è soltanto una specie di gioco, l'invenzione fine a se stessa delle più svariate possibilità. Nei suoi sogni, comunque, ha goduto a volte di tali vedute, senza però averne conservato, al risveglio, qualcosa da poter comunicare. Sa solo che si è trattato appunto di questo e che quasi sempre si è
destato col viso inondato di lacrime. Ma Hor attribuisce poca importanza alla cosa, la ricorda soltanto per la sua singolarità...
Mi sono espresso male. Hor non sogna e non ha neppure ricordi propri. E tuttavia la sua intera esistenza è piena dei terrori e delle estasi legati a esperienze che assalgono la sua anima a mo' d'improvvisi ricordi.
Certo non sempre. Talvolta, per lungo tempo, la sua anima resta quieta come un immobile specchio d'acqua, mentre in altri momenti queste esperienze lo aggrediscono da ogni lato, angustiandolo, abbattendosi su di lui come lampi, ed egli fugge per i corridoi deserti, barcolla finché, stremato, cade a terra e lì resta, vinto. Perché contro di esse è privo di difese.
A mo' d'improvvisi ricordi. Ho detto così? Mi chiamo Hor.
Ma chi è questo: io - Hor? Sono soltanto una persona? Oppure sono due persone contemporaneamente e possiedo le esperienze della seconda? Sono molte persone contemporaneamente? E tutte le altre persone che io sono vivono là fuori, oltre quell'ultima, estrema parete? E non sanno nulla delle loro esperienze, nulla dei loro ricordi, dato che essi non trovano dimora presso di loro, là fuori? Ah, ma da Hor restano, vivono con la sua vita, lo assalgono senza pietà. Si uniscono a lui, che se li tira dietro come uno strascico, già ora interminabile, che scivola attraverso le sale e le stanze e sempre più cresce, cresce.
Oppure qualcosa di mio arriva fino a voi là fuori, a quell'uno o a quei molti che siete tutt'uno con me come le api e la loro regina? Mi sentite, membra del mio corpo sparso? Sentite le mie impercettibili parole, ora o fuori del tempo?
Per caso cerchi me, oh mio altro io? Cerchi Hor, che sei tu stesso? Cerchi il tuo ricordo che è presso di me? Forse che, come stelle, ci avviciniamo l'uno all'altro attraverso spazi infiniti, passo dopo passo, immagine dopo immagine?
E arriveremo mai a incontrarci, un giorno o fuori del tempo?
E cosa saremo allora? O non saremo più? Ci annulleremo a vicenda come il sì e il no?
Ma di una cosa puoi essere certo: io avrò serbato tutto con cura.
Il mio nome è Hor.




SOTTO l'esperta guida del padre e maestro, il figlio aveva desiderato ardentemente di possedere le ali. Per molti anni, in lunghe ore di lavoro nei suoi sogni, era andato fabbricandosele, penna dopo penna, muscolo dopo muscolo, ossicino dopo ossicino, finché esse avevano pian piano assunto forma. Le aveva fatte crescere nella giusta posizione dalle scapole (era particolarmente difficile percepire con esattezza la propria schiena in sogno), e a poco a poco aveva imparato a muoverle nella maniera adeguata. Aveva messo a dura prova la propria pazienza continuando a esercitarsi finché, dopo innumerevoli tentativi falliti, era riuscito per la prima volta a sollevarsi per un breve istante da terra. Ma poi aveva acquistato fiducia nella propria opera, grazie all'incrollabile benevolenza e severità con cui il padre lo guidava. Col passare del tempo si era talmente abituato alle ali che le considerava in tutto e per tutto una parte del suo corpo, al punto da avvertire in esse sensazioni di dolore o di benessere. Infine aveva cancellato dalla memoria gli anni trascorsi senza possederle. Le aveva avute fin dalla nascita, al pari degli occhi o delle mani. Era pronto.
Non era affatto proibito lasciare la città-labirinto. Al contrario, chi vi riusciva veniva considerato un eroe, un uomo di grande talento, e della sua leggenda si continuava a parlare a lungo. Ma ciò era consentito solo
alle persone felici. Le leggi cui sottostavano gli abitanti del labirinto erano paradossali, ma immutabili. Una delle più importanti diceva: Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne.
Però le persone felici erano rare nei millenni.
Chi era disposto a tentare doveva prima sottoporsi un esame. Se non riusciva a superarlo, la punizione cadeva su di lui, ma sul suo maestro, ed essa era dura e crudele.
Il viso del padre si era fatto estremamente serio, allorché gli aveva detto: « Ali di questo tipo portano soltanto chi è leggero. Ma è solo la felicità a rendere leggeri». Poi aveva fissato a lungo il figlio con sguardo indagatore e infine gli aveva chiesto: « Sei felice? » Oh, se si trattava di quello non c'era alcun pericolo.
Era tanto felice che pensava di potersi librare in aria anche senza ali, dal momento che amava. Amava con tutto l'ardore del suo giovane cuore, amava senza riserve e senza ombra di dubbio. E sapeva che il suo amore era corrisposto altrettanto incondizionatamente.
Sapeva che la sua amata lo stava aspettando e che al termine del giorno, dopo aver superato l'esame, sarebbe andato da lei nella sua stanza celeste. Allora, leggera come un raggio di luna, si sarebbe adagiata fra le sue braccia e, uniti in quell'interminabile amplesso, si sarebbero librati sopra la città lasciandosene alle spalle mura come un giocattolo per il quale erano diventati ormai troppo grandi; avrebbero volato sopra altre città, sopra foreste e deserti, mari e montagne, avanti, sempre più avanti, fino ai confini del mondo.
Sul corpo nudo egli non portava altro che una rete
da pesca che lo seguiva, come un lungo strascico, per le strade e i vicoli, i corridoi e le stanze, secondo il cerimoniale prescritto per quell'ultimo, decisivo esame. Era certo di riuscire ad assolvere il compito che gli era stato assegnato, sebbene non lo conoscesse. Sapeva solo che esso si confaceva sempre alla natura dell'esaminando. Perciò non era mai uguale a quello di un altro. Si poteva dire che il compito consisteva proprio in questo, nell'indovinare, in base a un'effettiva conoscenza di sé, in che cosa consistesse. L'unica rigida norma alla quale doveva attenersi era quella di non entrare, per nessun motivo, per la durata dell'esame, cioè fino al tramonto, nella stanza celeste della sua amata. Altrimenti sarebbe stato subito escluso da tutto il resto.
Sorrise, ripensando all'espressione grave, quasi furente, con cui il suo adorato, benevolo padre gli aveva comunicato il divieto. Non provava in sé la benché minima tentazione di trasgredirlo. A questo riguardo non c'era alcun pericolo, poteva stare tranquillo. In fondo non era mai riuscito a capire bene tutte quelle storie in cui qualcuno, proprio a causa di un tale divieto, si era sentito irresistibilmente spinto a violarlo. Camminando per le strade e gli edifici ingannevoli della città-labirinto, era già passato più volte davanti al fabbricato a forma di torre al cui ultimo piano, quasi sotto il tetto, abitava la sua amata, e due volte persino davanti alla sua porta, al numero 401. E aveva proseguito, senza neppure fermarsi. Ma il vero esame non poteva consistere in questo. Sarebbe stato troppo, troppo semplice.
Ovunque gli capitasse di andare, si imbatteva in infelici che lo seguivano con occhi pieni di ammirazione,
di rimpianto o anche d'invidia. Molti li conosceva già, sebbene gli incontri fra le persone non potessero mai essere provocati intenzionalmente. Nella città-labirinto la posizione e la disposizione delle case mutavano di continuo, cosicché era impossibile darsi appuntamenti. Ogni incontro era casuale o voluto dal destino, a seconda di come lo si volesse intendere.
D'un tratto il figlio avvertì che qualcosa tratteneva la rete dietro di lui e si voltò. Seduto sotto l'arco di un portone, vide un mendicante con una gamba sola, che aveva infilato una delle stampelle nelle maglie della rete.
« Che fai? » gli chiese.
« Abbi pietà! » rispose il mendicante con voce roca. « Per te non sarà un gran peso, mentre a me darà molto sollievo. Tu sei un uomo felice e potrai sfuggire al labirinto. Ma io resterò qui per sempre, perché non sarò mai felice. Perciò ti prego, porta via con te almeno un po' della mia infelicità. Così prenderò anch'io un minimo di parte alla tua salvezza. Sarebbe una consolazione per me. »
Raramente le persone felici sono dure d'animo: propendono alla compassione e desiderano far partecipi anche gli altri della propria ricchezza.
« Bene », disse il figlio, « sono contento di poterti rendere un favore per così poco. »
Già al successivo angolo di strada incontrò una donna dal volto emaciato, vestita di stracci, assieme a tre bambini mezzo morti di fame.
« Non vorrai certo negarci quanto hai concesso a quello là », gli disse, piena d'odio.
E attaccò alla rete una piccola croce da sepolcro.
Da quel momento la rete si fece più pesante, sempre più pesante. Di infelici ce n'erano in gran quantità nella città-labirinto e ognuno di loro, imbattendosi nel figlio, attaccava qualcosa alla rete, una scarpa o un gioiello prezioso, un secchio di latta o un sacco colmo di denaro, un capo di vestiario o una stufetta di ferro, una ghirlanda di rose o un animale morto, un utensile o addirittura, in ultimo, il battente di una porta.
Si avvicinava la sera e con essa la fine dell'esame. Il figlio, piegato in avanti, procedeva a fatica, passo dopo passo, quasi dovesse lottare contro una bufera violenta e silenziosa. Il suo viso grondava sudore ma egli era ancora pieno di speranza, perché credeva di aver capito in che cosa consisteva il suo compito e, nonostante tutto, si sentiva abbastanza forte per portarlo a termine.
Poi venne il crepuscolo e ancora nessuno era comparso per dirgli che quanto aveva fatto bastava. Senza sapere come, era arrivato, con l'infinito carico che si trascinava dietro, alla terrazza sul tetto dell'edificio a torre in cui si trovava la stanza celeste della sua amata. Non aveva mai notato che da lì si scorgeva in basso una spiaggia, ma forse fino a quel momento non era mai stata in quel luogo. Il figlio divenne profondamente inquieto nel rendersi conto che il sole si stava già immergendo dietro l'orizzonte caliginoso.
Sulla spiaggia c'erano quattro persone che, come lui, avevano le ali, e, sebbene non potesse vedere colui che parlava, udì chiaramente che venivano dichiarate libere. Gridò verso il basso chiedendo se lo avessero dimenticato ma nessuno gli prestò attenzione. Con mani tremanti armeggiò attorno alla rete, ma non riuscì a togliersela di dosso. Gridò ancora a lungo, chiamando ora il padre perché venisse ad aiutarlo, mentre si sporgeva il più possibile dal parapetto.
All'ultima, morente luce del giorno, vide laggiù la sua amata completamente avvolta in veli neri venire fuori della porta. Apparve quindi, tirata da due morelli, una carrozza nera il cui tetto era costituito da un unico grande ritratto, il viso colmo di dolore e di disperazione del padre. L'amata salì nella carrozza e il veicolo si allontanò fino a sparire nell'oscurità.
In quel momento il figlio comprese che il suo compito era stato quello di disubbidire e che non aveva superato l'esame. Sentì le sue ali create in sogno avvizzirsi e cadere a terra come foglie d'autunno, e capì che non avrebbe più potuto volare nè essere felice e che per il resto della sua vita sarebbe rimasto nel labirinto.
Perché adesso vi apparteneva.




LA cameretta nella mansarda è celeste, celesti sono le pareti, il soffitto, il pavimento e i pochi mobili che vi si trovano. Lo studente sta seduto al tavolo e si tiene la testa fra le mani. Ha i capelli arruffati, le orecchie in fiamme, le mani fredde e umide. Freddo e umido è l'intero stanzino. E ora è andata via anche la corrente elettrica.
Egli avvicina il libro e ricomincia da capo. Deve, deve risolvere a ogni costo quel problema. Fra una settimana ha l'esame.
« ...La teoria della relatività ristretta si basa sulla costanza della velocità della luce... P è un punto nel vuoto... P' un punto infinitamente vicino, la cui distanza da P è uguale a d sigma... un punto infinitamente vicino... da P parte al tempo t un impulso luminoso che raggiunge P' nel tempo t+dt... »
Lo studente si sente gli occhi duri e secchi come bottoni di corno. Se li stropiccia con le dita finché iniziano a lacrimare. Appoggiandosi allo schienale della sedia, dà uno sguardo in giro alla mansarda, un tramezzo di truciolato che lui stesso ha costruito due anni prima in un angolo dell'ampio solaio. Allora gli piaceva il celeste, adesso non più. Ma non ha tempo di cambiare alcunché. Ne ha perso anche troppo, di tempo.
Gli permetteranno di continuare ad abitare lì? Paga l'affitto, certo, ma ben poco. Proprio per questo si è
stabilito lì. Chi è senza soldi non può avere molte pretese. Ma ora che è morto il vecchio proprietario forse gli aumenteranno l'affitto. E allora dove andrà? E proprio in quel momento, prima dell'esame. Come fa uno a concentrarsi se non sa neppure dove sarà l'indomani? Se soltanto gli eredi si mettessero una buona volta d'accordo! Almeno saprebbe che pesci pigliare!
Allontana il libro e si alza. È pallido e alto, anche troppo alto. Per non urtare il soffitto deve incassare la testa fra le spalle. Vuole sapere come stanno precisamente le cose, ora, subito, in modo da poter continuare a lavorare senza preoccupazioni.
L'immenso solaio che attraversa è stipato degli oggetti più impensabili, mobilia, vasi giganteschi, animali impagliati, bambole a grandezza naturale, macchine e ingranaggi misteriosi. Scende le ampie scale e percorre la lunga galleria dove sono appesi migliaia di specchi ciechi, specchi grandi e piccoli, piani e curvi che riflettono mille volte, ma sfocata, la sua immagine.
Finalmente arriva in una delle grandi sale. Ha l'aspetto di un museo etnologico dopo un saccheggio. Le vetrine sono per lo più infrante, i gioielli e gli oggetti di valore che vi erano esposti sono stati scaraventati fuori. Sarcofaghi da mummie sono stati forzati, sul pavimento giacciono ammucchiati cocci di vasellame, le armature sono messe tutte sbilenche e vestiti da festa aztechi composti di piume di colibrì cadono in pezzi, rosi dalle tarme.
Lo studente si ferma guardandosi attorno stupito.
Come può essere andato tutto così in rovina dall'ultima volta che è stato lì?
Ma quando è stato lì per l'ultima volta? Era ancora
vivo il vecchio proprietario? Probabilmente si. In realtà lui non ha mai avuto modo di vederlo in viso. Solo il suo vecchio domestico, un uomo dal volto severo e un contegno dignitoso e solenne.
Proprio mentre lo studente sta ancora pensando, il domestico fa il suo ingresso nella sala. Tiene un grosso piumino da spolvero sotto il braccio, ha la livrea sudicia e lacera e i capelli bianchi in disordine, e - sì, davvero! - vacilla un po' nel camminare, fa gesti scomposti con le mani e borbotta fra sé.
« Buon giorno! » dice lo studente, cortese. « Per favore potrebbe dirmi... »
Ma il vecchio domestico gli passa accanto gesticolando e non sembra accorgersi di lui. Lo studente lo segue.
« Assurdo! » mormora il domestico con un gesto risolùto. « Iniziare è del tutto assurdo. Buon di, mio caro giovane. »
Lo studente è alquanto confuso. « Che cosa intende dire? »
« Non ha importanza che cosa! » grida il domestico. « Un inizio è sempre un'assurdità mostruosa. Perché? Perché non esiste! Forse che la natura conosce un inizio? No! Dunque iniziare è contro natura. E nel mio caso? È altrettanto assurdo. Una prova? Gliela do subito. »
Sfila una bottiglia di tasca, si rovescia un sorso in gola, si scuote, rutta e rimette via la bottiglia con cura. Lo studente sta per porgli la sua domanda, ma già il vecchio riprende a parlare:
« Bisogna pensare » - si batte più volte la fronte - « bisogna pensare con obiettività! È chiaro, giovanotto? E se io penso con obiettività, allora devo dire a me
stesso che non esiste la benché minima possibilità che
io, un uomo solo e debole, possa fare qualcosa per cambiare la situazione. Chi sono io per avere il coraggio di farlo? Un vecchio snervato dallo sforzo incessante di pensare, ecco chi sono. Non mi contraddica! »
Ritira fuori la bottiglia, beve e si asciuga la bocca con la manica. « Bisogna vivere basandosi sull'intelletto, capito, giovanotto? Basandosi sulla conoscenza! Ma non è affatto semplice. Meno che mai nella vita di tutti i giorni. Anche supposto che io mi getti nella lotta inutile contro il predominio di tutta questa massa sonnecchiante di polvere... cosa otterrò? Nulla, assolutamente nulla, questo mi dice la logica. A parte forse un peggioramento della situazione già di per sé disperata. Un esempio: ora aprirò quella tenda e vedrà che si strapperà subito. »
Tira la pesante tenda alla finestra ed essa subito si strappa, cadendo a terra in una nube di polvere.
« Un altro esempio », continua il vecchio, imperterrito. « Proverò ad aprire la finestra e mi cadrà subito addosso. »
Prova ad aprire la finestra e subito gli cade addosso. I vetri s'infrangono con un gran tintinnio al suolo.
Il domestico guarda lo studente con aria trionfante. « Come le avevo detto, questo dimostra tutto. Il caos cresce a ogni nostro tentativo di dominarlo. La cosa migliore sarebbe starsene quieti e non fare più nulla. »
Beve ancora un sorso.
« Ah », esclama lo studente, guardandosi attorno distrattamente, « lei vuole mettere ordine qui dentro? »
« Spolverare! » lo corregge il vecchio domestico.
« Spolverare, come ho fatto per tutta la vita. Ma lei stesso può vedere quello che resta di tutta la nostra fatica e della pena che ci siamo dati: polvere. O meglio: cenere. Polvere all'inizio e cenere alla fine. Non cambia niente. In ogni caso è come se uno non fosse mai esistito. Uno se ne va senza lasciare alcuna traccia di sé, questa è la cosa peggiore. »
« Comunque », fa lo studente, gentile, tanto per dire qualcosa di incoraggiante, « un po' d'aria fresca entra anche qui dentro. Dalla palude giunge il fischio dei beccaccini che vi si vanno a posare. È già qualcosa. »
Il vecchio ridacchia e tossisce. « Sì, sì, la cara natura. Non fa che seguire il suo corso, se ne frega dei nostri problemi. Non ha neppure bisogno di prendere delle decisioni, come invece devo fare io. Ma no, l'uomo non è un uccello, non ha ali. L'uomo deve vivere basandosi sulla conoscenza obiettiva delle cose, per questo ha il cervello, mio caro giovane! Questa è la morale. Morale significa: le cose non sono così semplici. Se ne ricordi, giovanotto! lo devo ricominciare da capo a riflettere sul problema. »
« Vedo che lei non si lascia scoraggiare con tanta facilità », dice lo studente. « Ma prima non potrebbe darmi una piccola, rapida informazione? »
Il domestico non lo ascolta. Corre nella sala successiva parlando fra sé e sé. « Il problema è questo: se davvero iniziare è assurdo, allora ha senso non iniziare affatto. Ergo: lascio le cose così come stanno. »
« Giusto! » esclama lo studente correndogli dietro. « Lasci stare. »
« Una soluzione plausibile! » Il vecchio domestico
ride con aria furbesca. « Ma ora rifletta un po', giovanotto: cos'è la vita umana? »
Lo studente lo guarda e sorride perplesso. « Be', a dire il vero, non vorrei prendere a questo riguardo una posizione troppo precisa... »
Il vecchio gli picchietta col dito sul petto, alitandogli in faccia. « Combattere una battaglia perduta, questa è la vita! » dice scandendo ogni parola. « E in che cosa consistono la grandezza, l'appello di natura morale, l'imperativo etico? Glielo dico io, giovanotto: anche se tutto è privo di senso, bisogna comunque intraprendere qualcosa! Perché? Perché l'uomo deve fare quello che è in suo potere di fare! »
« Bravo! » esclama lo studente, mentre cerca di evitare il suo alito.
« Lo riconosco apertamente », continua il domestico, « or ora sono riuscito a mettermi io stesso con le spalle al muro. Non c'è scampo! E ti pare poco? »
« Lei è davvero un pensatore rigoroso », osserva pronto lo studente.
Il vecchio tira un profondo sospiro e allarga le braccia. « Sono qui in qualità di custode e di uomo », grida attraverso la fuga di stanze, « ho contro di me tutta la supremazia senza speranza del caos e ho preso una decisione irrevocabile. »
A un tratto crolla, afferra il braccio dello studente evi si aggrappa. « Se qualcuno non mi strappa all'ultimo momento dall'abisso », sussurra spaventato, « comincerò immancabilmente a togliere polvere, con conseguenze, caro giovane, incalcolabili! »
Ma lo studente non è stato ad ascoltare e si divincola dal vecchio. Qualcosa ha catturato completamente la
sua attenzione. Al centro della seconda sala, visibili attraverso la porta aperta, delle persone stanno sedute attorno a un grande tavolo rotondo. Non si possono distinguere bene, perché la sala è immersa nella penombra, ma lo studente non dubita che siano gli eredi che stanno trattando.
« Per favore, mi dica », bisbiglia al vecchio, indicando in direzione del tavolo, « si sa già qualcosa di preciso? »
« Grazie », risponde il domestico, anche lui a bassa voce, « grazie per avermi distratto. Purtroppo non posso dirle altro che no, non si sa ancora niente. »
« Oh, comincio a essere stufo! » esclama lo studente, avviandosi deciso verso il tavolo. « Devo soltanto chiedere... »
Ma il vecchio lo afferra per la manica e tenta di trattenerlo. « Per amor del cielo, non disturbi i signori. Non adesso! Non è assolutamente possibile! »
Lo studente si arresta e, senza perdere d'occhio gli eredi, spiega a mezza voce: « Devo soltanto sapere se posso restare o se invece devo cercarmi un'altra sistemazione, cerchi di capire! Una cosa del genere richiede il suo tempo e in questo momento io non ho proprio tempo da perdere. Fra una settimana ho l'esame e, se domani o dopodomani decidono di buttarmi fuori di qua, sono davvero nei guai ».
« La capisco bene », dice il vecchio, carezzandogli una guancia. « Solo, abbia un po' di pazienza. Voi giovani siete sempre così impazienti. Se lei insiste, guarderò di informarmi io stesso per suo conto alla prossima occasione. »
« Questo me lo ha già promesso due settimane fa! »
« È vero; purtroppo i signori non si sono ancora accordati su chi fra loro diventerà il nuovo proprietario. »
« Va un po' per le lunghe, non le pare? »
« Dipende dai punti di vista. Per queste cose c'è bisogno di tempo. Ma di ora in ora si avvicinano sempre più all'accordo, mi creda! Stanno compiendo ogni sforzo. Ma è molto, molto difficile arrivare a una soluzione in queste particolari circostanze. »
« Mi pare comunque che se ne stiano abbastanza tranquilli. Non parlano neppure fra di loro! »
« Si, purtroppo sono giunti ancora una volta a un punto morto. Riflettono per vedere di trovare una nuova base d'intesa. Non li disturbi, altrimenti durerà ancora più a lungo! »
Ma lo studente si strappa con violenza dal domestico e si dirige deciso verso il tavolo attorno al quale siedono gli eredi. Avvicinandosi, nota che essi se ne stanno rigidi e immobili come mummie. Uno spesso strato di polvere ne copre le teste, le barbe, gli abiti, gli occhiali. Tra di loro pendono ragnatele che ondeggiano piano nella corrente d'aria. Senza parole, lo studente fissa il domestico e indica in quella direzione.
« Sì », mormora questi imbarazzato, « quasi come amache, vero? »
Lo studente guarda anche sotto il tavolo e le sedie. Dappertutto, in mezzo alla polvere, si vedono le impronte di minuscole zampette. Sicuramente isopodi o coleotteri.
« Ne vuole un sorso? » domanda il vecchio, porgendo la bottiglia allo studente. « Questo spettacolo fa venire sete, non trova? »
Lo studente annusa la bottiglia e si ritrae all'istante. « Dio mio, ma che cosa c'è dentro? »
« Aceto », spiega il vecchio, ritrovando tutto a un tratto il suo contegno solenne e dignitoso di sempre. « Aceto e fiele. Una mistura rinomata. Rende lucidi di mente. L'unico modo per recuperare il raziocinio in questa situazione che tanto turba la coscienza. Come vede, sono un bevitore alla rovescia. Ci si abitua a tutto. Anche lei si abituerà. »
« Non credo proprio », risponde lo studente. « Così come non riesco nemmeno ad abituarmi a questa maledetta incertezza, all'idea di non sapere che sarà di me e della stanza. »
« Oh », fa il vecchio con un sorriso triste, « questo è solo l'inizio. Però, a essere sincero, anch'io non credevo che le cose si sarebbero trascinate tanto per le lunghe. Avevo pensato che una volta aperto il testamento del defunto avremmo saputo subito che pesci pigliare. »
« E invece che cosa è successo? »
Il vecchio beve un sorso. « In realtà non è successo niente. » Tappa la bottiglia e la rimette in tasca.
Lo studente cammina lento attorno al tavolo e guarda una dopo l'altra le facce polverose degli eredi. Soffia su di una e solleva una nube.
Sospira e si siede sul sofà foderato di damasco che si sfascia di botto sotto il suo peso. Si rialza a fatica e si scuote la polvere di dosso.
« Se vogliono che resti ancora qualcosa », dice, « farebbero bene a non tirarla tanto per le lunghe. »
« Sono perfettamente d'accordo », risponde il domestico, scopettandolo con il piumino.
« Quanto crede che durerà ancora? »
« È difficile a dirsi, forse poco, o forse no. »
« Ma intanto posso contare sulla possibilità di tenere ancora per un pochino la mansarda, vero? »
« Io non ci farei troppo affidamento, giovanotto. » « Merda! » dice lo studente con voce sommessa.
« Che idiozia restare così per aria. »
Il vecchio ride tossendo di nuovo. « Siamo tutti in una situazione incerta, lei, gli eredi, i loro parenti, persino io. » Si porta la mano al collo come se fosse appeso a una corda. « E inoltre i piedi si ghiacciano facilmente. » Tossisce ancora.
« Gli eredi? » chiede lo studente. « Perché? »
« Perché i signori non sanno come comportarsi fra loro, con chi devono mantenersi in buoni rapporti e con chi no. Ognuno può diventare un giorno importante per l'altro e nessuno si può permettere di guastarsi del tutto con qualcuno. Perciò si odiano in silenzio e si squadrano con occhi che sembrano bocche di rivoltella. La cosa peggiore è però che ognuno di loro si è trascinato dietro una quantità enorme di parenti che si sono sistemati in tutti gli angoli della casa. Ma noi non siamo in grado di accogliere tanti ospiti, così si sono già costruiti capanne e bungalow nelle sale di sotto, distruggendo mobili antichi e pregiati e strappando le tavole del rivestimento. Ultimamente hanno perfino installato delle cucine sul parquet per cuocersi i pasti. I cavi elettrici della casa non ce la fanno a sopportare tutte le stufe, tutti i fornelli, le radio, i televisori e chissà che altro ancora. Prima o poi scoppierà un incendio pauroso. Io vado in giro a implorarli, ma loro mi rispondono: Perché proprio io? Nessuno vuole
sacrificarsi se prima non lo fanno gli altri. All'inizio tutto ciò era visto soltanto come una sistemazione provvisoria, ma nel frattempo i signori hanno messo radici nella provvisorietà. Ci sarebbe da piangere. »
Il vecchio tira fuori un fazzoletto tutto sporco e si soffia il naso.
« Io non mi sono accorto quasi di nulla », dice lo studente, turbato, « salvo che la corrente è mancata spesso. »
« E anch'io mi trovo per aria », continua il vecchio con voce lamentosa, « lei non può farsene neppure un'idea, caro giovanotto! Tutti i signori mi considerano il loro domestico personale: Faccia questo! Mi procuri quell'altro! Ma al più presto! E io non posso ribellarmi, perché ognuno potrebbe diventare un giorno il nuovo padrone. Non ce la faccio più a soddisfare tutte le loro pretese! Si figuri che si servono di me addirittura per spiarsi a vicenda. E io, io non posso guastarmi con nessuno. Proprio a me doveva capitare, che sono abituato a vivere con senno e ragionevolezza! È davvero l'inferno! »
Il vecchio si asciuga gli occhi col fazzoletto. « E cosa accadrà poi, quando la questione sarà risolta? Che ne sarà di me? Mi dica un po' lei! Conserverò il mio posto? Mi pagheranno almeno per il lavoro immane che ho fatto? Oppure, nonostante tutte le mie fatiche, mi getteranno sul lastrico, vecchio e malandato come sono? Questa spada di Damocle sospesa sulla mia testa, lei lo capirà bene, fiacca il mio zelo. E in questo modo sego io stesso il filo al quale è appesa la spada. Gli uomini sono crudeli! Mio caro giovane, lei ha davanti a sé una persona disperata! »
Il vecchio si appoggia singhiozzando al petto dello studente.
Questi lo conforta imbarazzato e mormora; In realtà io dovrei studiare... ma in questi ultimi tempi ho sgobbato tanto, giorno e notte, che forse un po' di movimento mi farà bene. Quindi, se posso darle una mano... »
Il vecchio si consola all'istante.
« Ma sicuro », dice, « il lavoro manuale fa molto bene alla salute, quasi quanto il sonno. Ecco, prenda il
piumino e cominci subito! Ma, per favore, stia attento a non rompere niente! »
Va alla porta, si volta di nuovo e aggiunge brusco: « Passo più tardi a controllare se hai lavorato bene, Guarda dunque di mettercela tutta, ragazzo, sennò ti faccio vedere chi sono io! Spicciati, che aspetti? »
Esce, mentre lo studente, stupito, lo segue con lo sguardo. Poi, con un lieve sorriso, scuote le spalle e comincia a spolverare. Si interrompe tossendo in mezzo a una nube di polvere, e sprofonda in riflessioni.
« Un momento », mormora fra sé, « com'era? Devo annotarlo... »
Si dirige verso il tavolo attorniato dagli eredi perfettamente immobili e si mette a scrivere col dito nella polvere.
« d sigma elevato al quadrato uguale a c elevato al quadrato dt elevato al quadrato... se si introduce l'immaginaria coordinata temporale radice di meno uno c t uguale a x quattro, allora la legge della costanza della velocità della luce è ds elevato al quadrato uguale a dx uno elevato al quadrato più dx due elevato al quadrato più dx tre elevato al quadrato più dx quattro elevato al quadrato uguale zero... »
Avvicina una sedia al grande tavolo, si siede fra due eredi, appoggia la testa a una mano e riprende i suoi calcoli.
« poiché questa formula esprime un contenuto reale, anche la formula ds deve avere un significato reale anche quando i punti adiacenti del continuo quadridimensionale di spazio-tempo sono posti in modo tale che ds sparisca... no, alt, non sparisce... non sparisce... non... »
Reclina pian piano la testa sul tavolo e, con la guancia sopra le formule scritte nella polvere, si addormenta tranquillo, respirando profondamente come un bambino.




LA cattedrale della stazione si ergeva su un grosso lastrone di pietra color ardesia che fluttuava nello spazio vuoto e crepuscolare.
A diversa distanza passavano altre isole di quel tipo, più grandi o più piccole, alcune tanto lontane da non poter vedere ciò che vi accadeva, altre abbastanza vicine da potersi scambiare dei cenni. Alcune erano dotate della stessa velocità e si mantenevano quindi a una distanza costante, altre, più o meno veloci, correvano avanti o restavano indietro fino a scomparire alla vista. Sembravano per lo più disabitate o comunque apparivano buie, soltanto poche erano illuminate come quella su cui si ergeva la cattedrale della stazione, un edificio babilonico di inaudite proporzioni, non ancora ultimato, come testimoniavano le molte impalcature. Dai muri traforati come filigrana filtrava una luce scintillante. Dall'interno giungeva una musica d'organo.
Rimbombò una voce da un altoparlante: « Attenzione, attenzione! I viaggiatori che aspettano la coincidenza! Il treno speciale proveniente da d sigma elevato al quadrato arriverà regolarmente all'ora t più dt al binario ct... »
Sui marciapiedi della stazione, grigie masse di gente ondeggiavano qua e là, si pigiavano in fiumi che scorrevano l'uno accanto all'altro, trascinavano carichi, gesticolavano, gridavano e ogni tanto le correnti si
scontravano mescolandosi. Gruppetti sparsi stavano accoccolati sul pavimento o su montagne di bagagli legati alla meno peggio, scatole, casse e pacchi. Erano tutti vestiti di luridi stracci, gentaglia, pezzenti, pieni di croste e di pidocchi, cisposi, abbrutiti. Ma le ceste, le valigie e i sacchi che avevano con sé traboccavano di biglietti di banca. Sui carrelli portabagagli, spinti a fatica in mezzo alla calca, erano ammassati mucchi di mazzette di banconote.
All'estremità di un marciapiede, là dove finiva la tettoia e una dozzina di binari si lanciavano nello spazio vuoto, un pompiere osservava con occhi sgomenti quell'andirivieni. Portava un'uniforme blu con lucidi bottoni d'ottone, l'elmetto col salvanuca di cuoio e, dentro il fodero, alla cintura, la scintillante scure nichelata. Baffi spessi e neri gli orlavano il labbro superiore.
Proprio lì vicino una giovane, gracile donna era alle prese con una grossa borsa da viaggio che trascinava a stento. Indossava una specie di cilicio, una tonaca nera e pesante, tutta logora. Il cappuccio incorniciava un volto magro e pallido d'asceta, dagli occhi ardenti.
Il pompiere si avvicinò alla giovane donna.
« Permette? » chiese, « posso esserle di aiuto? » Stupita, lei lasciò che l'uomo le togliesse la borsa di mano e se la caricasse sulle spalle. « Dove? »
« Sente l'organo? » disse lei. « Presto tocca a me. Devo andare nell'atrio. »
Egli fece strada scavalcando alcuni poveracci che dormivano a terra col capo appoggiato su mazzette di banconote.
« Che cos'è questa? » gridò voltandosi indietro, « voglio dire, come si chiama questa stazione? »
« Stazione intermedia », rispose lei.
« Ah! » fece, gettandole uno sguardo in tralice, nel dubbio di non avere capito bene in quel frastuono. « Anche per lei? lo sono qui infatti solo di passaggio, grazie a Dio! Devo soltanto prendere la coincidenza. »
« È quello che pensano tutti », replicò la donna, « lo pensavo anch'io. Ma la stazione intermedia è la stazione terminale... almeno finché non finisce l'incantesimo. E non finisce. Non finisce. »
Rimbombò l'altoparlante: « Tredicimila settecentoundici... tredicimila settecentodieci... »
Un gruppo di figure simili a tanti spaventapasseri s'infilò fra loro e li divise. Quando la donna riuscì a tornare da lui, gli disse in fretta: « Non arriveremo mai. Nessuno, qui. E lei lo sa bene quanto me, non è cosi? »
« Che cosa dovrei sapere? » domandò lui, mentre si caricava la pesante borsa da viaggio sull'altra spalla, « io non so proprio niente. »
« Che qui non ci sono treni che arrivano o partono. Che sono tutte menzogne! »
« Che assurdità! » ribatte lui, « io sono appena arrivato e non ho certo intenzione di rimanere. Che farei qui? »
La donna fece udire una breve risata priva di gioia. « Davvero? Si vedrà. Lei dove vuole andare? »
« A una festa », rispose incerto, « una parata o qualcosa del genere... devo ricevere una decorazione... credo. » Un po' stizzito concluse: « Scusi, ma questo non la riguarda affatto ».
Entrambi furono scaraventati di qua e di là dalla marmaglia e la donna si attaccò saldamente al suo braccio.
« Nessuno arriverà! » gli gridò nell'orecchio. « Nessuno! Nessuno! »
Dovettero scansare un carretto di ferro dalle ruote cigolanti che un mascalzone, un gigante con la testa calva coperta di pustole, stava spingendo contro di loro. Sopra il carretto c'era una piccola bara celeste mezzo scoperchiata, traboccante di banconote. Il pompiere la fissò, mentre si asciugava con la mano libera il sudore che all'improvviso gli bagnava la fronte. Poi proseguì in fretta, facendosi largo a sua volta di prepotenza attraverso un gruppo di straccioni.
Ora il pompiere e la giovane donna avevano quasi raggiunto il grande arco della porta che fungeva da ingresso all'atrio. La musica d'organo era lì tanto assordante che diventava difficile capirsi. Quando cessò per un attimo, egli disse: « Lo sa? Sento ticchettare la sua sveglia nella borsa ».
Lei si fece ancora un po' più pallida.
« Non è una sveglia », replicò con voce roca.
« Dodicimila novecentotre... » tuonò l'altoparlante, « dodicimila novecentodue... dodicimila novecentouno... »
Quando, apertisi un varco attraverso una fiumana di gente, giunsero nel grande atrio, egli posò a terra la borsa. Rimasero addossati a un pilastro dell'arco, pigiati l'uno contro l'altra dalla folla.
L'atrio era immenso e si perdeva verso l'alto nell'oscurità. Sul lato sinistro si trovava una sorta di abside; a destra, a mezza altezza, c'era un vano rientrante su cui, grande come una montagna, torreggiava l'organo. Nella parte superiore dell'abside, al posto del rosone, c'era un grosso orologio col quadrante illuminato
da tergo ma privo di lancette. Sotto, su un piano rialzato, si ergeva l'altare al cui centro stava il tabernacolo. Questo aveva la forma di un'imponente cassaforte, con cinque serrature a combinazione di numeri disposte come un pentagramma rovesciato sullo sportello. Non soltanto l'altare e il tabernacolo, ma persino ogni aggetto, ogni balaustrata e ogni spazio che solo lo consentisse erano ricoperti di candele dalle fiamme tremolanti. Ovunque la cera, colando, aveva formato cascate irrigidite, barbe di gocce e stalattiti. Centinaia di scale di diversa altezza erano appoggiate tutt'intorno alle pareti. Nella sala la ressa dei miserabili era ancor più tremenda che fuori, ai binari. Le masse creavano veri e propri vortici e fiumi che andavano a rompersi l'uno contro l'altro. L'aria era torrida come in un forno, sulla calca aleggiavano nuvole di fumo e di polvere, c'era puzza di sudore e di immondizia.
Davanti all'altare poveri diavoli vestiti di camiciotti color grigio-sporco lunghi fino alla caviglia saltellavano senza posa come per una danza rituale, figure grottesche con nasi a grappolo, gozzi, gobbe, ventri cascanti, nuche bitorzolute, bocche sdentate e arti deformi. Agitavano concitatamente ogni sorta di arnesi o facevano gesti con le dita sopra le teste della folla, quasi fossero agenti di borsa. Di tanto in tanto la cassaforte veniva aperta e ne usciva un carico di mazzette di banconote. Uno di quegli infelici prendeva una mazzetta e, tenendola sollevata solennemente con ambedue le mani, la mostrava alla folla. Questa cadeva in ginocchio, l'organo strepitava a più non posso e un coro di migliaia di voci gridava: « Miracolo e mistero! » Le mazzette erano distribuite fra i miserabili delle prime
file e la cassaforte veniva richiusa. Il rituale ricominciava subito da capo. I beneficiati si facevano strada attraverso la ressa per portare al sicuro il loro guadagno, mentre quelli che si accalcavano dietro ne prendevano il posto. Abili garzoni si affaccendavano senza posa su e giù per le scale, depositando qua e là, in alto, alle pareti, le mazzette di banconote.
Solo allora il pompiere si rese conto che tutti i muri, tutte le colonne e i pilastri, anche quello contro cui stava pigiato, erano fatti di mazzette di banconote accatastate l'una sull'altra. L'intera cattedrale era costruita con mattoni di cartamoneta e ancora si continuava a lavorarvi, perché a ogni apertura il tabernacolo ne vomitava in gran massa. Le migliaia e migliaia di fiammelle delle candele danzavano e ondeggiavano, mentre la cera colava e gocciolava.
« Santo cielo! » mormorò il pompiere, « è contro ogni disposizione di sicurezza! Questa è pura follia! »
Si tolse l'elmo e ne asciugò col fazzoletto il giro interno di cuoio. Si era sbottonato la giacca. L'organo taceva.
« Mi farebbe un favore? » gli chiese la giovane donna che lo aveva osservato in silenzio. « Io devo andare subito nel matroneo. Non starò via a lungo. Potrebbe nel frattempo badare alla mia borsa? »
Egli annuì distratto, senza riuscire a staccare gli occhi dalle file interminabili delle candele, e disse: « Non può andare liscia ».
Un tipo con l'aria da furfante e una cassetta appesa al collo gli si parò improvvisamente davanti. Portava in testa una bombetta e aveva le guance così incavate
che parevano quasi dei buchi. Nella cassetta c'erano alcuni mucchietti di buste chiuse.
« La fortuna la insegue, signor capitano! » disse il tipo con un sorriso losco. « Non la respinga! Non si lasci sfuggire questa occasione unica, non le capiterà mai più! Colga la possibilità che le viene offerta! »
« La fortuna? » domandò il pompiere, « cosa intende dire? »
Il tipo lo guardò con occhi di pesce, le sue mani corsero nervosamente sulle buste. « Non costa niente. È tutto gratis. Ne approfitti! »
« Gratis? » il pompiere scosse la testa. « Senta, temo di non essere abbastanza ricco da potermi permettere qualcosa che non costa niente. »
Il furfante ridacchiò. « Giusto, i misteri del vero profitto sembrano a volte paradossali. Ma si fidi di me, signore, e ne approfitti! Le assicuro che lei avrà presto tanto denaro da potersi permettere di avere accettato! »
« Che cos'ha lì? »
Il farabutto fece di nuovo una smorfia che pareva un sorriso. « Signore, le offro le ultime azioni della cattedrale della stazione. Se le prende - senza pagare nulla, come ho già detto - avrà anche lei la sua parte della Miracolosa Moltiplicazione del denaro. »
« No, grazie », rispose il pompiere, « non voglio averne alcuna parte. Sono solo di passaggio qui e desidero ripartire al più presto. »
« Questo lo pensavano tutti », disse il tipo, « ma poi hanno cambiato idea. Lei vede quanti sono a saper fare i propri interessi, e aumentano sempre di più. Tante persone intelligenti non possono certo sbagliare... oppure lei si considera tanto più intelligente di loro? »
« Inoltre », proseguì il pompiere imperturbabile, « non durerà comunque molto a lungo. Presto finirà male. »
« Si sbaglia! » gridò l'altro, « la Miracolosa Moltiplicazione del denaro continuerà in eterno. Non cesserà mai. E fintanto che non cesserà nessuno vorrà partire. E fintanto che nessuno vorrà partire i treni non funzioneranno. Tutto resterà così com'è ora. Ma non vuole anche soltanto un paio di azioni? Almeno due o tre? »
« No! » urlò il pompiere.
« Va bene, va bene! » Il furfante alzò le mani in un gesto conciliante. « Ma non venga poi a lamentarsi da me! io glielo avevo detto. »
Sollevò il cappello e scomparve fra la folla.
« Diecimila settecentonove... » tuonò l'altoparlante, « diecimila settecentootto... diecimila settecentosette... »
L'organo riattaccò a suonare, stavolta in sordina. La melodia sembrava un antico corale, ma si sentiva soltanto una voce di donna. Si librava calda e forte nell'immensa sala. Nessuno ci faceva caso, solo il pompiere alzò gli occhi stupito verso il matroneo dal quale veniva il canto. Riconobbe la giovane donna con la tonaca nera, che stava in piedi alla ringhiera e cantava.
« Un'artista! » sussurrò, « una vera artista! Non l'avrei mai pensato! »
Era così preso dalla bellezza della voce che all'inizio non prestò attenzione alle parole del canto. C'era in essa un particolare tremolio che lo toccava quasi fisicamente nel più profondo dell'animo. Soprattutto quando dai toni alti passava d'improvviso a quelli più bassi, un
piccolo calo isterico che lo colpiva proprio alla bocca dello stomaco. Egli ascoltava estasiato, e ora anche le parole si facevano strada nella sua coscienza:

Erranti nel tumulto del mondo
senza meta nel tempo noi siamo.
Solo per amor puro e profondo
qui e adesso noi arriviamo.
Anima mia, all'erta sta:
ora e qui è l'eternità.

Poi lei indietreggiò e scomparve alla vista. L'organo riprese a strepitare variando motivo. Dall'altra parte, all'altare, venne riaperto il tabernacolo e ne uscirono mucchi di banconote.
« Diecimila cinquecentodiciotto... » tuonò l'altoparlante, « diecimila cinquecentodiciassette... »
Una mendicante con una gerla piena di biglietti di banca, passando accanto al pompiere, gli pestò il piede con una delle grucce e lo destò dal suo rapimento. Egli si guardò intorno per cercare la borsa che la cantante gli aveva affidato e si accorse con sgomento che era sparita. Si fece largo attraverso la ressa della marmaglia, scrutò e perlustrò in giro, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte. Sicuramente gli era stata rubata mentre ascoltava la musica, o forse anche prima, quando si era lasciato coinvolgere nel diverbio con l'uomo dalla cassetta. Maledisse la propria disattenzione. In ogni caso doveva avvertire subito la giovane donna.
Si gettò in mezzo alla massa urlante della canaglia, fu preso in un vortice che lo trascinò e approdò infine, remigando e menando colpi all'impazzata, ai piedi della
scala che conduceva al matroneo. Quando provò a salire, fu aggredito da un paio di giovinastri dall'aria losca, i quali, prima che lui potesse rendersi conto di quanto accadeva, gli torsero le braccia dietro la schiena.
« Sei un azionista? » domandò uno di loro. Il pompiere scosse la testa.
« Allora che vai cercando qui? »
« Devo dire una cosa alla cantante. È urgente. Lasciatemi andare, per favore! »
I giovinastri si scambiarono un'occhiata, poi spinsero il pompiere su per le scale. Anche qui, come dappertutto, c'erano candele, persino sul corrimano e sui gradini.
Sopra, all'organo, un uomo imponente a torso nudo, bagnato di sudore, era seduto davanti alla tastiera. I capelli lunghi e grigi e la barba formavano un groviglio arruffato e untuoso, persino le spalle e la schiena erano coperte di ispidi peli. A cavalcioni sulle sue ginocchia, con le braccia allacciate alla sua nuca, era seduta la giovane donna. Aveva la nera tonaca sollevata fino ai fianchi, sotto era nuda. Il suo viso era inondato di sudore e di lacrime. Teneva gli occhi chiusi e la bocca aperta come in un grido silenzioso, mentre l'uomo, con ampi movimenti delle mani e delle gambe, maltrattava lo strumento. Il suono faceva vibrare l'intero matroneo.
I tipacci dettero un'altra spinta al pompiere mandandolo quasi a sbattere col viso contro i due. Ora egli sentì che l'uomo e la donna parlavano gridando fra di loro.
« È già buio? »
« Non ancora, caro. »
« Appena è buio, tagliamo la corda. »
« Si, caro. »
« Non ti preoccupare, piccola. Ci tireremo fuori di qua, te l'ho promesso. Mi sono sempre tirato fuori da ogni situazione, o, almeno, la maggior parte di me. Nel buio sono in vantaggio. »
« Non diventerà mai buio! » gridò lei, « non finirà mai! Noi non arriveremo mai! »
« Scusate! » urlò il pompiere, « io... non vorrei disturbare, mi dispiace. È solo per via della sua borsa. Purtroppo è stata rubata. »
« E allora? » rispose la giovane donna, senza aprire gli occhi. « Sarei contenta di essermene liberata. Per questo l'ho data in custodia a lei. Ma non servirà a niente. Torna sempre da me. Ho già tentato di tutto. »
L'uomo smise di suonare. Voltò lentamente la testa e chiese: « Con chi stai parlando, piccola? Chi c'è? »
« Non lo so », rispose lei, sempre a occhi chiusi. « Qualcuno. »
Il pompiere guardò il viso dell'organista e inorridì. Le cavità oculari erano ambedue vuote, l'osso nasale sfondato. La cicatrice di un'orrenda ferita tagliava trasversalmente il viso in due metà.
« Digli di sparire », fece l'uomo. « E subito. »
« Si, certo », balbettò il pompiere confuso. « Pensavo solo che... a causa della borsa... forse una denuncia... di sicuro ci sono molte cose dentro... voglio dire, cose di valore. »
La donna riprese a parlare a occhi chiusi. « Lei ha sentito un ticchettio, vero? »
« Sì », rispose lui. « La sveglia. »
Lei scosse lentamente la testa. « Una bomba. Ciò che
lei ha trascinato in giro per me era una bomba a orologeria. Non c'è altro nella borsa. »
Il pompiere deglutì un paio di volte prima di ritrovare la parola.
« Ma... ma una cosa del genere uno non se la porta appresso per ore e ore! »
« Per ore? » ripete lei, mentre il cieco rideva silenziosamente. « Lei è davvero un autentico pompiere! Eppure gliel'ho detto: torna sempre da me. Da anni, ormai! Posso provare di tutto. A volte ero così stanca che... »
« Ma per amor del cielo! » La voce del pompiere diede nel falsetto. « La bomba può esplodere da un momento all'altro! »
« Sicuro », esclamò la donna.
« E tutta questa gente qui! Bisogna disinnescarla subito! »
« Ci provi! » disse lei. « Per disinnescare la bomba è necessario aprire la borsa; ma se si apre la borsa, esplode. »
« Allora bisogna toglierla di torno! »
« La cerchi! » replicò la donna. « Vedrà, non serve a niente scervellarsi tanto. Possiamo solo aspettare che giunga il momento. »
Aprì finalmente gli occhi, che erano gonfi di pianto. « Del resto », aggiunse a bassa voce, « non era destinata qui, alla stazione intermedia. »
Prima che la donna finisse di parlare, l'uomo si lasciò cadere dalla panca assieme a lei ed entrambi si voltolarono qua e là sul pavimento. Lei gli allacciò con le gambe i fianchi e gridò con occhi stralunati: « Io
voglio arrivare! Non lo capisce, voglio finalmente arrivare! Non voglio altro, solo arrivare! »
Nella loro follia rovesciarono alcuni candelieri, le candele rotolarono sul pavimento di banconote già schizzato di cera che in alcuni punti iniziò a bruciare. Il pompiere si strappò la giacca di dosso e cercò con essa di soffocare le fiamme, ma in questo modo anche la giacca si impregnò di cera liquida e prese fuoco. Solo con gran fatica riuscì a spegnere l'incendio. Quando, con un sospiro di sollievo, si guardò attorno, si accorse di essere rimasto solo nel matroneo. Stizzito, osservò la sua giacca che ormai era rovinata, bruciacchiata in vari punti. « Veramente », brontolò, « io dovevo soltanto prendere la coincidenza. »
« Ottomila novecentoventisette... » rimbombò l'altoparlante, « ottomila novecentoventisei... ottomila novecentoventicinque... »
Dall'altra parte, all'altare, la Miracolosa Moltiplicazione del denaro era proseguita indisturbata. Nessuno fra la massa della marmaglia aveva prestato attenzione a quanto avveniva nel matroneo. Un vecchio sparuto stava ora sul pulpito a sinistra dell'altare. L'enorme naso adunco lo faceva sembrare un avvoltoio. Si era messo in capo una specie di mitra fatta di carta e predicava accompagnandosi con ampi gesti delle braccia.
« Mistero infinito... e beato chi ne ha parte! Il denaro è verità, l'unica verità, alla quale dobbiamo tutti prestare fede. E che la vostra fede sia cieca e incrollabile! È proprio la vostra fede a fare di esso quello che è! Perché anche la verità è una merce e sottostà all'eterna legge della domanda e dell'offerta. Per questo il nostro Dio è un Dio geloso che non tollera altro Dio
all'infuori di sé. E tuttavia si è consegnato nelle nostre mani facendosi merce, affinché noi potessimo possederlo e ricevere la sua benedizione... »
La voce del predicatore era alta e stridula e si distingueva appena in mezzo al baccano generale. Il pompiere avanzò a fatica attraverso la calca. Ovunque gli capitassero candele a portata di mano, lui le spegneva, attirandosi addosso sguardi stupiti, turbati o pieni di furore. Non se ne curò. Continuò nella sua opera pur sapendo che era inutile, perché subito, alle sue spalle, le candele venivano riaccese. Sempre più una sorda rabbia s'impadroniva di lui.
« Il denaro può tutto! » urlò il predicatore. « Unisce gli uomini fra loro attraverso il reciproco dare e avere, può tramutare tutto in tutto, lo spirito in materia e la materia in spirito, fa delle pietre pane e crea valori dal nulla, si rigenera in eterno, è onnipotente, è la forma che si è dato Dio per scendere fra noi, è Dio! Là dove tutti si arricchiscono in virtù di tutti, tutti saranno ricchi alla fine, e dove tutti diventano ricchi alle spese di tutti, nessuno pagherà le spese! Prodigio infinito! E quando voi domandate, cari fedeli, da dove venga tutta questa ricchezza, allora io vi dico: essa viene dal futuro profitto di se stessa! Il suo futuro guadagno è ciò di cui ora noi già godiamo. Quanto più denaro è qui, tanto più alto sarà il profitto futuro; quanto più alto sarà il profitto futuro, tanto più è il denaro attuale. Così noi stessi siamo nostri creditori e nostri debitori per l'eternità, e rimettiamo a noi i nostri debiti, amen! »
« Smettetela! » gridò il pompiere, arrampicandosi su per la scala del pulpito. « Basta! Fine! Smettetela subito! È una cosa del tutto insensata. Vi proibisco di
continuare! Tutti i presenti sono invitati a sgombrare immediatamente l'edificio. C'è pericolo che... »
Nell'immenso atrio scese a un tratto un silenzio di morte.
« Un miscredente! » strillò un farabutto vicino all'altare. « Come è arrivato fin qui? »
« Lei possiede delle azioni? » gli gridò il predicatore.
« Questo non ha alcuna importanza ora! » urlò il pompiere di rimando. « Sia ragionevole... nel suo interesse! »
« Un miscredente! » mugghiò la folla, « un blasfemo! Uccidetelo! »
Scoppiò un putiferio. Dei miserabili si arrampicarono zoppicando su per la scala del pulpito, mani afferrarono il pompiere, lo strozzarono, lo percossero, lo spinsero giù dalla balaustra; egli cadde battendo violentemente al suolo; colpi di bastone e di gruccia gli grandinarono addosso, piedi lo presero a calci e lo calpestarono, finché rimase completamente immobile.
« Seimila trecentoquattordici... » tuonò l'altoparlante, « seimila trecentotredici... seimila trecentododici... »
Passò del tempo prima che il pompiere riprendesse i sensi e potesse mettersi seduto. Aveva dolori alla testa, un occhio tutto gonfio e sanguinava dalla bocca e dal naso. Si accorse di aver perduto l'elmetto e di avere la giacca e i pantaloni laceri. Ora egli stesso sembrava uno di quei pezzenti che gli si accalcavano nuovamente attorno senza però curarsi più di lui. Tentò di alzarsi in piedi, ma ricadde subito carponi. Tutto prese a girargli intorno, stava male da morire. Vomitò.
Un po' più tardi riuscì a strisciare in mezzo alle
gambe di coloro che lo attorniavano e scoprì infine, accostato a una parete, un confessionale che la cera colatavi sopra aveva trasformato in una specie di grotta con stalattiti. Con gran fatica vi si trascinò dentro, chiuse la porta, si appoggiò a un angolo e svenne di nuovo.
Non sapeva da quanto tempo fosse seduto lì, quando fu svegliato da un lieve rumore proprio vicino al suo orecchio. Il chiasso e lo strepito fuori nell'atrio erano identici a prima, ma quel borbottio proveniva dalla piccola grata della parete che divideva in due parti il confessionale e pareva il singhiozzare disperato e sommesso di un bimbo. Il pompiere ne fu stupito perché non aveva notato bambini nella cattedrale. Si mise a guardare attraverso i buchi della grata ma non vide nulla. Sentì invece, fra i singhiozzi, delle parole appena sussurrate:
« Mio Dio, dove sei?.. E dov'è finito il mondo...? Non riesco a trovarlo... Non c'è più... io sono già morto... non sono mai venuto al mondo... »
« Chi sei? » chiese il pompiere. « Non volevo ascoltare, ma ero già qui. Scusami! Vorrei dirti soltanto che questa non è che una stazione intermedia, infatti c'è... Ehi, tu, mi senti? Non vuoi parlare con me? »
Ma dall'altra parte restò tutto in silenzio. Egli aprì la porta del confessionale per dare un'occhiata, ma non vide nessuno. Lì c'era soltanto la grossa, pesante borsa da viaggio.
L'unica cosa a essergli rimasta della sua attrezzatura era la scintillante scure che portava al fianco. La tolse dal fodero.
« Ora e qui! » disse ad alta voce. « Ora e qui! »
Con la parte affilata della scure ruppe il lucchetto
della borsa e l'aprì lentamente, con gran cautela. Era vuota.
Egli si rizzò in piedi. Un sudore freddo gli colava dalle tempie fin sopra le guance.
«Settecentosessantotto...» tuonò l'altoparlante, «settecentosessantasette. ..settecentosessantasei. ..»
E ora, dietro la voce impersonale che scandiva i numeri, si udiva sommesso, ma chiaro e inconfondibile, il ticchettio. Diventava sempre più forte e minaccioso.
Il pompiere riuscì a portarsi fuori dell'atrio. Un paio di volte venne risospinto indietro, ma dopo un po' poté raggiungere i marciapiedi. La voce contava ora ininterrottamente, il ticchettio si era fatto martellante.
« Centocinquantatre... centocinquantadue... centocinquantuno... centocinquanta... centoquarantanove... »
Quando infine fu di nuovo là dove i binari si lanciavano nello spazio vuoto, trovò a terra la tonaca indossata dalla giovane donna. La prese e andò a sedersi sul bordo estremo del marciapiede.
In lontananza vide le nuvole della sera trascinare altre isole attraverso lo spazio crepuscolare, alcune erano buie, alcune illuminate come quella su cui si ergeva la cattedrale della stazione. « Forse un treno è partito », disse il pompiere al vuoto, « non so dove voleva andare, ma forse nel frattempo è arrivata... »
E mentre le sue mani carezzavano la stoffa nera e pesante del logoro indumento, sentì che il ticchettio nell'altoparlante era diventato insopportabilmente forte e che la voce impersonale stava scandendo gli ultimi numeri:
« Sette... sei... cinque... quattro... tre... due... uno.. zero... »




UN pesante drappo nero, che ai lati e in alto si perde nell'oscurità, scende in lunghe pieghe verticali che di tanto in tanto, mosse da un'impercettibile corrente, ondeggiano pian piano avanti e indietro.
Gli avevano detto che quello era il sipario e che, appena avesse iniziato ad alzarsi, doveva cominciare a danzare. Gli era stato inoltre raccomandato di non irritarsi per alcun motivo perché a volte accadeva che da lì, in alto, la platea apparisse soltanto come un baratro vuoto e buio, mentre in altri momenti sembrava di gettare uno sguardo all'operoso andirivieni di un mercato o di una strada affollata, a un'aula o a un cimitero, si trattava però solo di un'illusione dei sensi; in breve, senza curarsi delle proprie impressioni o se qualcuno stesse a guardare o meno, all'alzarsi del sipario egli doveva cominciare a ballare il suo a solo.
Perciò se ne stava lì, la gamba portante e la flessa incrociate, la mano destra penzoloni, la sinistra appoggiata morbidamente sul fianco, e aspettava l'inizio. Di tanto in tanto, stanco, cambiava posizione trasformandosi nell'inverso della sua immagine, così come un'immagine è riflessa in uno specchio.
Ancora il sipario non si decideva ad aprirsi.
La poca luce proveniente dall'alto era concentrata su di lui, ma bastava appena perché potesse scorgersi i piedi. Il cerchio luminoso gli consentiva di distinguere
a stento il pesante drappo nero che gli stava davanti. Era l'unico punto di riferimento di cui disponeva per mantenere la giusta direzione, essendo il palcoscenico immerso nell'oscurità totale e vasto come una pianura.
Si chiese se ci sarebbe stato uno scenario e che cosa avrebbe potuto rappresentare. Per il suo numero non era molto importante, ma gli sarebbe piaciuto sapere su quale sfondo il pubblico lo avrebbe visto. Un salone? Un paesaggio? All'alzarsi del sipario sarebbe cambiata sicuramente anche l'illuminazione e questa domanda avrebbe avuto una risposta. Se ne stava lì e aspettava, la gamba portante e la flessa incrociate, la mano sinistra penzoloni e la destra appoggiata con noncuranza sul fianco. Di tanto in tanto, stanco, cambiava posizione trasformandosi di nuovo nell'inverso del riflesso della sua immagine.
Non doveva distrarsi perché il sipario poteva alzarsi in ogni momento. Allora avrebbe dovuto essere presente anima e corpo. Il suo numero si apriva con un violento colpo di timpano e uno sfrenato turbinio di salti. Se avesse sbagliato l'attacco, sarebbe stato tutto perduto, non avrebbe più ritrovato il tempo. Rivide col pensiero tutti i passi, piroette, entrechat, jeté e arabesque.
Era contento, tutto era ben chiaro nella sua mente. Di sicuro avrebbe fatto un buon lavoro. Sentiva già scrosciare gli applausi come il mugghio dorato del mare. Ripensò anche al modo in cui avrebbe ringraziato il pubblico, perché era importante. Chi riusciva a farlo bene poteva prolungare notevolmente gli applausi. E mentre pensava a questo, se ne stava lì e aspettava, la gamba portante e la flessa incrociate, la mano destra penzoloni e la sinistra mollemente appoggiata sul fianco.
Di tanto in tanto, sempre più stanco, cambiava posizione trasformandosi di nuovo nell'inverso del riflesso della sua immagine riflessa.
Il sipario non si alzava ed egli se ne chiedeva il motivo. Si erano forse scordati che lui era già sul palcoscenico, pronto a iniziare? Lo stavano cercando nel suo camerino, alla mensa del teatro o a casa, torcendosi le mani per la disperazione? Doveva forse manifestare la propria presenza nel buio del palcoscenico, chiamare, fare dei cenni? Oppure non lo cercavano affatto e lo spettacolo era stato rimandato per qualche motivo? Che avessero deciso di sospenderlo proprio all'ultimo momento senza avvertirlo? Magari se n'erano già andati tutti, senza pensare che lui stava aspettando di entrare in scena. Da quanto tempo era lì? Chi lo aveva indirizzato in quel posto? Chi gli aveva detto che quello era il sipario e che appena si fosse alzato doveva iniziare a danzare? Si mise a contare quante volte si fosse già trasformato nella propria immagine riflessa e nell'immagine riflessa della propria immagine riflessa, ma poi si impose di non farlo per non venire colto di sorpresa dall'improvviso alzarsi del sipario e per non ritrovarsi, confuso, non più compreso nella sua parte, a fissare smarrito il pubblico. No, doveva restare calmo e concentrato!
Ma il sipario non si muoveva.
A poco a poco la felice eccitazione dell'inizio si mutò in una profonda amarezza. Si sentiva bistrattato. Avrebbe voluto correre via dal palcoscenico per andare a protestare violentemente da qualche parte, gridare in faccia a qualcuno la propria delusione e la propria rabbia, fare una scenata. Ma non sapeva con sicurezza dove dirigersi.
Quel poco che riusciva a scorgere del drappo nero che aveva davanti costituiva la sua unica possibilità di orientarsi. Se avesse lasciato quel punto, avrebbe brancolato nel buio perdendo immancabilmente l'orientamento. E poteva benissimo darsi che proprio in quel momento si alzasse il sipario e risuonasse il colpo di timpano che segnava l'inizio. Ed egli si sarebbe ritrovato al posto sbagliato, le braccia tese in avanti come un cieco e magari con le spalle rivolte al pubblico! Impossibile! All'idea avvampò per la vergogna. No, no, doveva assolutamente restare lì dov'era, bene o male che fosse, e aspettare che qualcuno gli facesse un segno. Perciò stava lì, la gamba portante e la flessa incrociate, la mano sinistra penzoloni e la destra pesantemente appoggiata sul fianco. Di tanto in tanto, sfinito, cambiava posizione trasformandosi per l'ennesima volta nella propria immagine riflessa.
A un certo punto rinunciò a credere che il sipario si sarebbe mai alzato, pur sapendo nello stesso tempo di non poter lasciare il suo posto, perché non era del tutto da escludere la possibilità che invece, inaspettatamente, esso si aprisse. Da un pezzo aveva cessato di sperare o di provare rabbia. Non poteva far altro che restare lì dov'era, qualsiasi cosa accadesse o non accadesse. Non gli importava più niente della sua esibizione, che risultasse un successo o un fiasco clamoroso, o che addirittura non avesse luogo. E poiché gli era diventato indifferente, dimenticò, uno dopo l'altro, tutti i passi e i volteggi del numero. Aspettando, dimenticò persino che cosa aspettava. Ma rimase lì, la gamba portante e la flessa incrociate; di fronte a sé il pesante drappo nero che ai lati e in alto si perdeva nell'oscurità.




LA signora scostò la tendina nera del finestrino della carrozza e chiese:
« Non puoi andare più veloce? Lo sai che ci tengo ad arrivare in tempo alla festa! »
Da cassetta il cocchiere con una gamba sola si sporse verso di lei e rispose:
« Siamo incappati in un convoglio, Madame. Non so neppure io come. Mi ero forse un po' appisolato, quando a un tratto è apparsa tutta questa gente a chiuderci la strada ».
La signora si affacciò al finestrino. Effettivamente la strada maestra era occupata da un lungo corteo. C'erano vecchi e bambini, uomini e donne, tutti con fantastici, variopinti costumi da giocoliere, stranissimi cappelli in testa e grossi pacchi sulle spalle. Alcuni cavalcavano muli, altri grossi cani o struzzi. In mezzo a loro passavano con gran fracasso anche barocci stracarichi di ceste e valigie oppure carri coperti in cui sedevano intere famiglie.
« Chi siete? » domandò la signora a un giovane in costume da Arlecchino che camminava di lato alla carrozza. Teneva in spalla un bastone, l'altra estremità del quale era portata da una ragazza dagli occhi a mandorla in un costume cinese. Ogni sorta di suppellettili erano appese al bastone e una scimmietta infreddolita vi stava seduta sopra. « Siete gente del circo? »
« Noi non sappiamo chi siamo », rispose il giovane. « Ma non siamo un circo. »
« Da dove venite? » volle sapere la signora.
« Dalle montagne del cielo », rispose il giovane. « Ma ne è passato del tempo. »
« E che facevate là? »
« Io non ero ancora al mondo. Sono nato per strada. »
Un vecchio con un grosso liuto - o una tiorba? - s'intromise nel discorso.
« Rappresentavamo lo Spettacolo Ininterrotto, bella signora. Il ragazzo non può saperlo. Era uno spettacolo per il sole, la luna e le stelle. Ognuno di noi stava sulla cima di una montagna e ci gridavamo le parole. Lo spettacolo non aveva mai sosta perché manteneva unito il mondo. Ma ora anche fra noi i più l'hanno dimenticato. È passato troppo tempo. »
« Perché avete smesso di rappresentarlo? »
« È accaduta una grave disgrazia, bella signora. Un giorno ci accorgemmo che mancava una parola. Nessuno ce l'aveva rubata e neppure l'avevamo dimenticata. Semplicemente non c'era più. Ma senza quella parola non potevamo continuare a fare lo spettacolo perché niente più aveva senso. Era la parola che tiene unite tutte le cose fra loro. Comprende, bella signora? Da allora siamo in cammino per ritrovarla. »
« Che tiene unite tutte le cose fra loro? » chiese la signora stupita.
« Sì », fece il vecchio, assentendo con aria grave. « Anche lei avrà certamente notato che il mondo consiste ormai di frammenti che non hanno più niente a
che fare l'uno con l'altro. È così da quando abbiamo perduto quella parola. E la cosa peggiore è che i frammenti si disgregano sempre più, e sempre meno resta di ciò che è ancora unito. Se non riusciremo a trovare la parola che di nuovo unisca tutte le cose fra loro, un giorno il mondo si polverizzerà completamente. Per questo ci siamo messi in cammino alla sua ricerca. »
« Credete davvero di riuscire a trovarla, un giorno? » Il vecchio non rispose, ma affrettò il passo e superò la carrozza.
La ragazza dagli occhi a mandorla, che camminava ora di fianco al finestrino della signora, spiegò timida:
« Col nostro lungo cammino scriviamo la parola sulla superficie della terra. Per questo non ci fermiamo mal ».
« Ah », esclamò la donna. « Allora sapete sempre dove andare? »
« No, ci lasciamo guidare. »
« Da chi o da che cosa? »
« Dalla parola », rispose la ragazza, sorridendo come se volesse chiedere scusa.
Per lungo tempo la signora guardò di sottecchi la fanciulla, poi domandò piano:
« Posso venire con voi? »
La ragazza non rispose, sorrise e superò lentamente la carrozza, seguendo il giovane che la precedeva.
« Alt! » gridò la signora al cocchiere. Questi fermò i cavalli, si volse e chiese:
« Davvero vuole andare con quelli, Madame? »
La signora sedeva muta e dritta fra i cuscini, gli occhi fissi davanti a sé. A poco a poco il resto della carovana finì di sfilare accanto alla carrozza ferma. Quando
anche l'ultimo ritardatario fu passato, la signora scese e seguì con gli occhi il corteo finché esso disparve in lontananza. Prese a piovere un po'.
« Torniamo indietro! » gridò al cocchiere mentre rimontava in carrozza, « torniamo indietro. Ho cambiato idea. »
« Grazie al cielo! » esclamò l'uomo con una gamba sola. « Cominciavo a pensare che lei volesse andare davvero con quelli. »
« No », rispose la signora distrattamente. « Non potrei essere loro di alcun aiuto. Ma tu e io possiamo testimoniare che essi ci sono e che li abbiamo visti. »
Il cocchiere girò i cavalli.
« Posso farle una domanda, Madame? »
« Che cosa vuoi? »
« Lei crede, Madame, che prima o poi riusciranno a trovare quella parola? »
« Se la trovano », rispose la signora, « allora il mondo dovrà cambiare da un momento all'altro. Non credi? Chissà, forse un giorno saremo testimoni anche di questo. E ora va'! »




IL testimone afferma: si sarebbe trovato in un prato notturno, probabilmente una radura, dal momento che forse era circondata da alberi alti, ma a causa dell'oscurità circostante non avrebbe potuto stabilirlo con certezza.
Tutt'intorno allo spiazzo sarebbero stati disposti in circolo uomini vestiti di lunghi camicioni bianchi. Alcuni di loro con fiaccole, gli altri con falci, zappe e asce.
Dopo un lungo silenzio carico d'attesa una voce sonora avrebbe infine impartito l'ordine: « Quelli che portano i lumi, uccideteli! » Gli uomini armati si sarebbero scagliati, in silenzio, addosso ai portatori di fiaccole, che da parte loro non avrebbero fatto il benché minimo tentativo di fuggire o di difendersi, ma sarebbero rimasti fermi, anch'essi in silenzio.
Avrebbe avuto inizio una spaventosa carneficina, tuttavia non si sarebbe udito altro che, ovunque e continuo, il rumore tremendo e sordo provocato dalle asce e dalle zappe che penetravano nei corpi di quelli inermi.
A una a una le fiaccole si sarebbero spente nel sangue di coloro che le avevano portate e il buio si sarebbe fatto più fitto.
Poco dopo si sarebbe levato un forte vento a squarciare la nera coltre di nubi stesa a coprire il cielo sbiadito dell'alba. Il grande spiazzo sarebbe stato disseminato di cadaveri. La stessa voce sonora che aveva ordinato
il massacro dei portatori delle fiaccole avrebbe invitato ora gli assassini a immergere i loro abiti nel sangue degli uccisi.
L'invito sarebbe stato rivolto anche a lui stesso, il testimone, ma questi asserisce di non ricordare se lo avesse seguito o no.
Comunque rammenta di essersi trovato infine, completamente solo, (forse come l'ultimo?) in piedi, in mezzo a tutti quei morti. E afferma di aver sentito il proprio abito impregnarsi di sangue a partire dal basso e farsi sempre più pesante.
Poi, in mezzo al sibilare del vento, quasi si fosse trattato di raffiche, avrebbe inteso un'altra voce, terribilmente angustiata, gridare, lamentosa, qualcosa come « Merce, merce, merce! » ma egli non è sicuro che si sia trattato di tali parole o piuttosto di « Ecce, ecce, ecce! »
Dopo avrebbe levato gli occhi al cielo e scorto nell'oscurità, tesa obliquamente sopra l'intero spiazzo, una fune alla quale era appesa una figura nella posizione di un uomo crocifisso.
Il testimone aggiunge che non potrebbe dire con certezza se la figura fosse legata a un'unica corda o se si trattasse di due distinti pezzi di fune, legati rispettivamente al polso destro e sinistro della figura, così che essa era tirata come elemento di congiunzione. Per stabilirlo, assicura il testimone, faceva troppo buio.




L'ANGELO, di un pallore marmoreo, sedeva quale testimone fra il pubblico nell'aula del tribunale. Aveva preso posto nella prima fila a destra, sotto la grande vetrata. Le sue ali enormi sporgevano oltre lo schienale della sedia occupando i due posti alle sue spalle. Poiché superava di almeno due teste le altre persone del pubblico, impediva a molte di loro la vista, ma nessuno se ne lamentava. Nessuno pareva accorgersi di lui. Al contrario, una donna assai grassa, dal viso bruno color della terra, russando, gli si appoggiava continuamente addosso quasi fosse stato una colonna. Sebbene la disagevole posizione dovesse procurargli senza dubbio fastidio, il volto statuario e severo dell'angelo nulla lasciava trasparire. Se ne stava seduto dritto e fermo, in lui tutto pareva di candida pietra. Nel complesso dava l'impressione di un'enorme scultura funeraria. Solo i suoi occhi scuri come lo spazio interplanetario seguivano in tranquillo raccoglimento quanto accadeva.
L'aula in cui aveva luogo l'udienza era molto ampia. Le file delle sedie, disposte a semicerchio, s'innalzavano gradatamente verso l'alto, sfumando in una vaga semioscurità. Un sommesso mormorare, tossire e bisbigliare di più voci riempiva l'aria. Le file erano piene zeppe di gente i cui visi, tante e tante macchie bianche, ondeggiavano qua e là senza posa come un mare di canne sbattute dal vento.
Nella parte anteriore dell'aula, al posto del banco dei giudici, era stata eretta una rozza impalcatura di circa quattro metri di altezza. Una scala fatta di tavole inchiodate conduceva a una piattaforma sprovvista di parapetto, sulla quale si trovavano un tavolino e una sedia.
A destra e a sinistra dell'impalcatura, ma un po' spostate in avanti, si alzavano due torri sottili costruite con tavole e travi senza troppa cura, terminanti ambedue con un pulpito per gli oratori. Al suolo, fra le due torri, correva come elemento di unione, per così dire, una lunga, bassa panca di legno.
Tutto era pronto per l'udienza, ma ancora l'inizio si faceva attendere. Il pubblico non pareva curarsene, già, sembrava quasi che si interessasse appena a quanto sarebbe dovuto accadere là davanti. Ognuno era troppo preso a chiacchierare sottovoce col proprio vicino. Solo l'angelo fissava il suo smisurato sguardo, con la tenace vigilanza propria dei suoi simili, sul luogo dell'azione ancora deserto, come se già potesse vedere quello che sarebbe avvenuto.
Finalmente si aprì una piccola porta nella parete di fronte, subito a sinistra dell'impalcatura, e una dietro l'altra fecero il loro ingresso dieci, dodici persone, uomini e donne in camici verde-mela con le maniche corte e calotte dello stesso colore in testa. Alcuni avevano una mascherina bianca davanti alla bocca e al naso, tutti portavano guanti di gomma. Si disposero in fila davanti alla panca fra le due torri e poi, quando furono al completo, si sedettero contemporaneamente. Alcuni bisbigliarono qualcosa all'orecchio di quelli che sedevano loro accanto, che a loro volta trasmisero il messaggio agli altri, infine tutti volsero lo sguardo verso l'angelo. Questi
li fissava immobile, come da molto lontano, e uno dopo l'altro essi chinarono il capo.
D'un tratto si udì lo squillo assordante di un campanello elettrico, ma la massa della gente vi fece appena attenzione. Il borbottare, bisbigliare e tossicchiare del pubblico continuò come prima. Poi si spalancò nuovamente la porta e due persone con nere toghe svolazzanti irruppero nell'aula. La prima era una donna con corti capelli brizzolati e un leggero accenno di baffi, la seconda un uomo tarchiato col viso rosso e una lucida pelata. Fulminei, come se ne andasse di ogni secondo, si arrampicarono rispettivamente sulla torre destra e sinistra e presero posto sui pulpiti, dove cominciarono a sfogliare smaniosamente ogni sorta di scartoffie, gettandosi di tanto in tanto occhiate battagliere. A un certo punto la donna si mise a scrutare fra la massa del pubblico finché scorse l'angelo. Gli fece col capo un cenno rassicurante, alzò entrambe le mani e le chiuse a pugno a pollici alzati. L'angelo non diede segno di averla riconosciuta e compresa. L'uomo calvo notò il gesto della collega e cercò fra il pubblico la persona cui era rivolto. Quando vide l'angelo, aggrottò irritato le sopracciglia, scrollò la testa e riprese poi a rovistare fra le proprie carte.
Ancora una volta squillò l'orribile campanello. La porticina si aprì e una figura mostruosa entrò lentamente, a passettini bruschi, nell'aula. Era abbigliata in modo tale da poter passare attraverso la porta solo di fianco e anche così non senza difficoltà. Indossava una specie di chimono rosso-cinabro ornato in ogni sua parte di drappeggi inamidati. I piedi restavano nascosti, dato che l'indumento non solo arrivava fino a terra ma si
prolungava in uno strascico lungo ancora metri e metri. L'incredibile altezza della figura, come pure la sua andatura malferma facevano dedurre che essa calzava degli alti coturni. Il capo e il viso erano celati da uno strano aggeggio di vimini laccato di rosso e simile a un'arnia antica. Erano visibili soltanto le mani piccole e bianche, con le dita allargate, che sporgevano dall'ammasso di stoffa e mostravano unghie lunghe e aguzze.
Con dignità minacciosa la figura barcollò in avanti e girò su se stessa, come se cercasse qualcosa. Era chiaro che non vedeva niente. Alcune delle persone con i camici verde-mela balzarono in piedi, corsero verso di lei e l'accompagnarono riguardose fino all'impalcatura centrale. Anche le altre si erano alzate e persino la donna baffuta e l'uomo calvo dai loro pulpiti osservavano pieni di rispetto la figura che si stava ora arrampicando, con infinita lentezza, su per la scala di fortuna che conduceva alla piattaforma. Giuntavi, si sedette con molto sussiego dietro il tavolino, si tolse il cesto di vimini dalle spalle e lo posò a terra accanto a sé. Il viso che venne alla luce era bianco come la calce, la testa cinta da un'enorme chioma grigia. E proprio a causa della pomposa acconciatura il viso pareva stranamente piccolo, simile a quello di una bambola cinese. Fissava davanti a sé senza espressione.
Le persone che indossavano i camici verdi si sedettero di nuovo. La donna con la toga nera fece un piccolo inchino in direzione della figura sulla piattaforma e iniziò a parlare. La sua voce era profonda e un po' rauca, per questo difficile da distinguere in mezzo al borbottio generale del pubblico.
« Si tratta dell'istanza numero settantatre lineetta ottocentonove, cinque numero romano ipsilon novantuno. La persona per adesso ancora senza nome chiede l'autorizzazione a incarnarsi. Come risulta dai documenti allegati non esiste motivo di negarle questa autorizzazione. Chiedo quindi all'Alta Corte di emettere un verdetto favorevole. »
« Faccio le mie rimostranze », gridò l'uomo calvo dall'altro pulpito con una voce inaspettatamente alta e acuta, mentre sventolava un foglio, « per il fatto che la persona qui senza nome, stando alla perizia ufficiale, ha già dato inizio, senza essere autorizzata, alla sua incarnazione. Con ciò ha contravvenuto al paragrafo settecentododici comma tre del regolamento di ammissione. Il porre di fronte a un fatto compiuto ha lo scopo di influenzare la Corte e ricattare gli altri interessati. Ma l'Alta Corte non si lascerà condizionare e respingerà questa illecita istanza. »
« È senza dubbio vero », replicò la donna, « e del resto noi non lo abbiamo mai smentito, che siano già stati intrapresi i primi passi del processo d'incarnazione. Come abbiamo esposto dettagliatamente nella nostra argomentazione, il richiedente si è basato sul presupposto che l'Alta Corte avrebbe compreso l'assoluta necessità, per lui, di dare inizio all'incarnazione in un determinato momento. È evidente, infatti, che certe condizioni si presentano soltanto in un certo momento. Un anticipo o un ritardo dell'incarnazione creerebbe condizioni del tutto diverse, annullando o per lo meno mettendo in serio pericolo il senso stesso dell'incarnazione e danneggiando quindi, in maniera del tutto ingiustificata, il richiedente, ciò che contrasterebbe col
diritto di tutti all'uguaglianza. L'Alta Corte non può infine macchiarsi di una colpa che essa ha l'obbligo di perseguire.
Noi insistiamo quindi nella nostra richiesta e attendiamo un verdetto favorevole. »
« Assurdo! » la interruppe l'uomo calvo. « Un momento è buono come un altro! In caso contrario sarebbe, per così dire, ovvio favorire o danneggiare tutti coloro che fanno richiesta. Le condizioni di cui parla la mia gentile collega sono senza dubbio presenti, ma è impossibile riconoscere in anticipo se esse avranno un effetto positivo o negativo per chi deve incarnarsi. In altre parole: che il momento dell'inizio dell'incarnazione sia favorevole o meno per una persona si può appurare soltanto in seguito... spesso addirittura soltanto alla fine dell'incarnazione. Noi qui non intendiamo rendere omaggio ad alcun falso misticismo! Dove andremmo a finire se volessimo programmare, per così dire, cosmicamente l'incarnazione? È ridicolo! »
« È ridicolo », strillò la donna che cominciava a sua volta ad accalorarsi, « il suo modo di pensare meccanicistico e materialistico, caro collega! Ridicolo e - peggio ancora - cinico! Perché il suo principio del "puro caso" è contrario alla dignità umana! L'uomo non è un coniglio! La natura dell'uomo risiede nel suo destino! Essa è unica e dipende perciò da circostanze uniche! Per questo impedire un'incarnazione è altrettanto criminale quanto annullarne una già in atto. È un omicidio, caro collega! Da secoli il mio cliente ha preparato la sua incarnazione. Ha fatto incontrare i suoi bisnonni, i suoi nonni e infine i suoi genitori. Per questo è stato necessario un incredibile lavoro di precisione in tutti i particolari! Se il suo bisnonno non si fosse fatto
estrarre un dente in un determinato giorno, non avrebbe incontrato la donna adatta a lui, che, solo di passaggio, si era fermata dal medicastro del paese a comprare un cerotto per un calcagno escoriato. Se non si fossero incontrati, non si sarebbero sposati e non avrebbero avuto figli, figli tra i quali c'era una bambina che divenne la nonna del nostro cliente... o che doveva diventarlo. Si potrebbero enumerare migliaia, milioni, di simili particolari. E lei vorrebbe distruggere questa meravigliosa catena di nessi causali? Lei vorrebbe sbattere all'ultimo momento la porta in faccia al nostro cliente? Costringerlo a ricominciare da capo questo faticoso lavoro? Con quale diritto? E anche ammesso che egli ricominci tutto da capo, il risultato non può e non potrà mai essere quello attuale. Il mio cliente avrà forse qualcosa da dare al mondo, quello che può ora e solo nelle presenti circostanze. Pensi un po' ai grandi santi, ai geni, agli eroi della nostra storia! Che ne sarebbe stato del mondo, se si fosse negato anche soltanto a uno di loro il diritto di incarnarsi? Come potrebbe giustificarlo? »
« E chi le dice, gentile collega », urlò di rimando l'uomo calvo, rosso in viso, « che proprio il suo cliente non diventi uno dei più grandi malfattori di tutti i tempi, una maledizione per l'umanità? Non sarebbe meglio negargli il diritto di incarnarsi? Le sue sono soltanto supposizioni infondate! Quando e in quali circostanze una persona si incarna è dovuto al caso non meno della distribuzione delle carte in un gioco. Lei parla di responsabilità! Lei parla di dignità umana! Come se a noi non stesse molto più a cuore! Proprio quanto lei sostiene, gentile collega, ha come estrema
conseguenza l'assoluta mancanza di responsabilità, dal che rende impossibile prendere decisioni ponderate. Là dove tutto appare misteriosamente dotato di un senso, persino l'estrazione del dente del bisnonno più nulla di sensato, là tutto non può che essere equivalente. Lei sa e tutti noi lo sappiamo già da tempo ci sono troppe persone al mondo. Sarebbe davvero irresponsabile accogliere indiscriminatamente ogni richiesta di incarnazione. Se lo facessimo, otterremmo proprio il contrario di quanto lei ha postulato in maniera tanto suggestiva: la difesa della dignità umana! Noi siamo responsabili perché abbiamo i mezzi per intervenire. Non possiamo sottrarci a questa responsabilità con un paio di argomentazioni pie ma di ben poco conto! Inoltre, gentile collega, stando al regolamento che disciplina le incarnazioni, il suo cliente è ormai in soprannumero! Personalmente mi rincresce per la durezza cui ci costringe la necessità nei singoli casi, ma sono convinto che essa sia giusta. L'istanza deve essere respinta. »
A questo punto un nuovo squillo del campanello elettrico troncò la parola ai due oratori. Essi tacquero e si misero a frugare con volti arcigni fra le loro carte, lanciando verso il basso sguardi preoccupati alle persone con i camici verde-mela. Queste discutevano sottovoce l'uno con l'altro, annuivano, gesticolavano e scuotevano la testa. Alla fine scelsero uno di loro, un giovane che si alzò lentamente e se ne stette lì, a capo chino, le braccia penzoloni, come un condannato. Si tolse la mascherina e si poté vedere quanto pallido fosse il suo volto. A passi stanchi si diresse verso la porticina e sparì.
La grassona seduta accanto all'angelo si era svegliata per un momento e aveva seguito gli ultimi avvenimenti. Ora sospirò entusiasta:
« Ah... un giudizio divino! »
Poi, con un'espressione piena d'interesse sul viso, sprofondò nuovamente nel sonno.
L'angelo, che per tutto il tempo non si era mosso, alzò la testa e guardò verso la nicchia della finestra sotto cui stava seduto perché si sentiva gocciolare addosso qualcosa. In effetti c'era là un grosso recipiente di vetro che prima non aveva notato. Era pieno d'inchiostro. Forse lo squillo troppo forte del campanello lo aveva danneggiato, a ogni modo il contenuto colava fuori da un'incrinatura gocciolando sulle ali e sulla veste dell'angelo. Questi però non si mosse neppure ora, lasciò che il liquido blu-cupo lo imbrattasse correndo in lunghe strisce sopra di lui. Il suo sguardo scuro era di nuovo fisso sulla piccola porta.
Dopo qualche istante essa si apri e una giovane donna entrò nell'aula. Portava una lunga camicia bianca e reggeva prudentemente fra le mani una bacinella di porcellana coperta da un panno anch'esso bianco.
Arrivata di fronte all'impalcatura centrale, volse la schiena al pubblico, tese ben bene le spalle, guardò in alto verso quello vestito di rosso e, con uno strappo deciso, tolse il panno da sopra la bacinella. Essa era piena quasi fino all'orlo di sangue caldo, ancora fumante, in cui, appena distinguibili, galleggiavano degli organi.
In quello stesso istante quello vestito di rosso balzò dalla sedia, il suo viso di bambola si torse in un ghigno spaventoso di avidità o di rabbia, spinse da parte il
tavolino che rotolò schiantandosi rumorosamente giù per gli scalini, poi scese anch'egli a velocità incredibile e si fermò proprio davanti alla giovane che lo fissava paralizzata dal terrore. Quello vestito di rosso fece alcuni movimenti come di danza, quasi a ghermire l'aria, mentre il suo volto si alterava e assumeva un aspetto che non aveva più niente di umano. Poi si scatenò, infilò le mani nella bacinella come se cercasse qualcosa di preciso, pescò un organo, forse un minuscolo cuore, e se lo cacciò con avidità in bocca, divorandolo. Rovistò ancora nella bacinella e, così facendo, schizzò di sangue la donna che la reggeva. Subito gettò via quello che aveva in mano e, lo sguardo fisso, ansimando e gorgogliando, indicò con le dita grondanti di sangue le macchie rosse sulla camicia della donna. Strinse la destra a pugno e colpi la giovane alla tempia con tanto tremendo impeto che ella piombò morta a terra, senza neppure un gemito. La bacinella di porcellana andò in mille pezzi.
Di fronte a questa scena raccapricciante l'angelo era balzato in piedi e ora se ne stava lì, in tutta la sua grandezza. Quello vestito di rosso s'i voltò e guardò verso di lui digrignando i denti. Quando scorse le macchie blu sulla figura bianca come il marmo, si avvicinò, indicò con le dita lorde in direzione delle macchie, serrò di nuovo il pugno e lo alzò, pronto a colpire. Allora l'angelo spalancò la bocca e cacciò un urlo che risuonò come lo schianto al suolo di una grossa campana di bronzo. A quell'urlo fu come se il mondo si fermasse per un istante.
Quello vestito di rosso rimase come impietrito, poi si riscosse, fece alcuni passi barcollanti e, mentre il suo
viso riprendeva l'espressione da bambola e addirittura pareva preoccupato, si chinò e cominciò a strofinare le macchie scure mentre le sue labbra si muovevano tremanti e balbettavano quasi incomprensibilmente:
« Perdonami, ti prego... ero solo un po' stordito... mi dispiace... »
L'angelo stava ancora lì, immobile, e aveva chiuso gli occhi. Era come se una forte emozione percorresse il suo corpo, un singhiozzo muto e convulso.
Quando riaprì gli occhi, vide quello vestito di rosso accoccolato accanto al cadavere della giovane donna accarezzarle teneramente il volto. Attorno ai due c'erano ora cinque bambini, disposti in un ampio cerchio, con spade di legno che tenevano dritte davanti al viso, come in segno di saluto.
« Che bello! » mormorò la grassona dal viso bruno, color della terra, che stava seduta dietro l'angelo. « I bambini fanno la veglia funebre con le vittime e i colpevoli... »
E con un sospiro soddisfatto scivolò di nuovo nel sonno.
Il resto del pubblico parve avere appena notato quanto era avvenuto. Come prima esso offriva lo spettacolo di un grigio mare di canne mosse leggermente dal vento.




SCURO come torba è il viso della madre. Larga di fianchi, siede sopra il tavolo e mastica. Alla parete è accostato l'orologio a pendolo, un gigante che batte le ore senza posa, le ore del pentimento, le ore della preghiera, le ore del crepuscolo, le ore mattutine, il giorno fatto di ore.
E la notte.
La madre non lo guarda, il gigante. Guarda oltre di lui, fuori della finestra, e sputa a terra con sprezzo. Fuori la semente germina, fiorisce e appassisce.
Nel corridoio buio si muove un'ombra magra, suo marito.
« Devo preparare il caffè? » domanda, burbero.
La madre non ha udito. Russa. E mentre russa, partorisce tre figli. Il maschio è morto, le due bambine sono in vita.
L'uomo prende le bambine e le porta nella stanza dove già sono molti altri figli. Il maschietto lo adagia fuori fra il seminato. La madre si è svegliata e mastica di nuovo. L'uomo va nella stalla e si ubriaca. Le vacche masticano come la madre.
L'uomo macella una vacca. La madre la mangia e così lui e i figli. La semente germina. Tutti mangiano pane e dalle scodelle bevono a cucchiaiate il latte della madre e delle vacche.
L'uomo si sdraia sulla stufa e dorme. La madre
partorisce altri due figli. Le vacche masticano. Il padre macella la madre. La mangia tutta assieme ai figli e anche il cane ne riceve un pezzo. L'uomo si accorge del suo errore, va nella stalla e si ubriaca.
Mentre egli dorme, la figlia maggiore si arrampica sul tavolo. Un'ombra si muove nel corridoio, un estraneo. L'orologio a pendolo batte le ore del crepuscolo e altre ore ancora.
E la notte.
La figlia partorisce due bambini. Quando il padre torna e vede tutto, piange un poco. Più tardi si sdraia al sole e non si muove più.
L'estraneo lo seppellisce fra il seminato, che germina. La figlia mastica. L'estraneo va nella stalla e si ubriaca.




LENTO come un pianeta gira il grande tavolo rotondo dal piano robusto. Sopra vi è costruito un paesaggio con montagne e foreste, città e villaggi, fiumi e laghi. Proprio al centro, minuto e fragile come una figurina di porcellana, stai seduto tu, e giri assieme a tutto il resto.
Tu sei a conoscenza di questo movimento continuo ma i tuoi sensi non lo percepiscono. Il tavolo è al centro di una sala a cupola, e anch'essa gira col suo pavimento di pietra, la volta, i muri, lenta come un pianeta.
Lontano, nella penombra, scorgi alle pareti gli armadi e i cassoni, il grosso, vecchio orologio a pendolo che mostra il sole e la luna, nel mezzo le pareti dipinte di stelle, qua e là una cometa e, in alto sopra di te, nella cupola, la via lattea. Non una porta, non una finestra. Qui sei al sicuro, tutto ti è familiare, tutto è ben saldo al suo posto, puoi fidarti di tutto. Questo è il tuo mondo. Esso gira, e tu, al centro del centro, giri assieme a esso.
Ma un giorno accade che un terremoto sconvolga tutto. Il muro di pietra si squarcia, si apre una crepa che sempre più si allarga. Le stelle dipinte si allontanano le une dalle altre e tu getti uno sguardo fuori, a qualcosa di tanto estraneo ai tuoi occhi che essi si rifiutano di percepirlo, una lontananza in cui il tuo sguardo precipita, un'oscurità luminosa, una tempesta
immota, un lampo persistente. L'unica cosa su cui può fermarsi il tuo sguardo è una figura umana appoggiata di sbieco contro l'uragano silenzioso, nascosta da capo a piedi in un velo che sembra svolazzare e invece, come in un quadro, non si muove affatto. La figura velata sta lì, tranquilla, posata sul niente, perché sotto i suoi piedi c'è l'abisso. Il vento ha premuto il velo contro il suo viso, tu puoi presagirne la forma.
Ora ti accorgi che la bocca si muove dietro il velo e senti una voce profonda e dolce dire:
« Vieni fuori, piccolo fratello! »
« No! » gridi spaventato. « Va' via! Chi sei? lo non ti conosco. »
« Non puoi conoscermi », replica quello velato, « finché non vieni fuori. Vieni dunque! »
« Non voglio! » urli. « Perché dovrei? »
« È l'ora », dice lui.
« No », ribatti, « no, questo è il mio mondo. Sono sempre stato qui e qui voglio rimanere. Va' via! »
« Lascia perdere tutto », dice, « fallo di tua spontanea volontà, prima che tu vi sia costretto. Altrimenti sarà troppo tardi. »
« Ho paura! » gli gridi.
« Lascia perdere anche la paura! » risponde.
« Non posso », ribatti.
« Lascia perdere anche te stesso! » esclama lui. Ora sei certo che sia una voce malvagia quella che ti parla e sei ben deciso a non darle ascolto:
« Perché ti nascondi e non mostri il tuo viso? Io lo so perché: tu vuoi distruggermi. Vuoi attirarmi fuori, da te, per farmi cadere nel vuoto ».
Egli tace un momento, infine dice:
« Impara a cadere! »
Con un sospiro di sollievo, vedi la figura velata scomparire alla tua vista. Ma non è stata lei a muoversi. La sala a cupola continua a ruotare lentamente e con essa anche il grande tavolo rotondo al cui centro sei seduto tu, piccolo e fragile. Anche la fessura nel muro ruota, allontanandosi dalla figura là fuori.
Ma qualcosa è cambiato. La crepa non si richiude, e dietro le tue stelle dipinte, fuori del tuo mondo ben saldo di cui mai hai dubitato, resta presente quell'altra cosa che pone tutto in discussione. Tu non puoi impedirlo, ma neppure sei disposto ad ammetterlo. A lungo ti rimane la sensazione che ti sia stata inflitta una ferita che non potrà più guarire. Niente sarà più come una volta.
Poi la figura appoggiata di sbieco nella tempesta immota compare di nuovo ai tuoi occhi. Non si è allontanata. Ti ha aspettato.
« Vieni! » dice la voce dolce e profonda. « Impara a cadere! »
Tu rispondi: « È già un bel guaio che a uno capiti di precipitare nel vuoto. Ma che sia lui stesso a volerlo o che addirittura impari a farlo, questo è sacrilego! Tu sei un diavolo tentatore, io non ti seguirò. Va' via! »
« Tu cadrai! » esclama quello velato, « e se non avrai imparato a farlo, non ci riuscirai. Lascia dunque perdere tutto! Perché presto non ci sarà più niente a sostenerti. »
« Ti sei introdotto nel mio mondo », gli gridi. « Io non ti ho chiamato. Hai infranto quanto costituiva la mia difesa e la mia proprietà. Puoi distruggere quello
che mi sostiene, ma non puoi costringermi a obbedirti. »
« Io non ti obbligo », dice quello velato, « io ti prego, piccolo fratello. È l'ora. »
La figura tace e, mentre scompare di nuovo al tuo sguardo, solleva la mano e la tende verso di te, e ti sembra di aver scorto alla luce del lampo persistente il segno insanguinato lasciato da un chiodo nel carpo. Ma già i tuoi occhi si stavano volgendo altrove e hai continuato a girare sul tuo tavolo sotto la cupola.
Ti dici che tutto ciò è solo un abbaglio. Prima o poi la fessura nel muro si richiuderà, come se non fosse mai esistita. E si vedrà che in realtà non c'è mai stata, perché non può esserci, i muri sono antichissimi e indistruttibili. Quello che è sempre stato sempre sarà. Tutto il resto non è che illusione, sorta chissà come. Non ci si può fidare. E poi quell'orribile pretesa! Non racchiudeva persino una minaccia? E se tu avessi afferrato quella mano, chi ti assicura che essa ti avrebbe sorretto? Era tesa proprio per reggerti? O soltanto per strapparti dal tuo piccolo mondo sicuro e scaraventarti nell'abisso? No, meglio che tu non ti faccia più trovare da quello là fuori. Rannicchiati ben bene! Nasconditi da lui! Se non ti vede più, forse ti lascerà in pace e tutto tornerà come prima.
La sala a cupola gira lentamente e con essa il grande tavolo rotondo assieme alle città, ai villaggi, ai laghi e a te, seduto al centro. E per la terza volta ecco apparire la figura velata nell',immota tempesta, illuminata dal lampo persistente.
« Piccolo fratello », dice la voce, e ora risuona stanca, come se parlasse con dolore, « ascoltami e abbi
fiducia! Non puoi più restare lì dove sei. Vieni fuori! » « Ma se cado, mi prenderai, mi terrai? » chiedi.
Quello velato scuote lentamente la testa.
« Se avrai imparato a cadere, non cadrai. Non esistono un sotto e un sopra, dove dovresti dunque cadere? Gli astri si mantengono reciprocamente in equilibrio nelle loro orbite senza toccarsi, perché sono affini fra loro. Così dev'essere anche per noi. Qualcosa di me è in te. Noi ci terremo a vicenda e non ci sarà altro a tenerci. Siamo astri che orbitano, per questo lascia perdere tutto! Sii libero! »
« Come faccio a sapere che quanto dici è vero? » urli disperato.
« Da te stesso », risponde. « Perché io sono in te e tu in me. Anche le verità si sorreggono fra loro e non poggiano su niente. »
« No! » gridi, « è insopportabile! Non c'è dunque modo di salvarsi da te? Che ti importa di me? Perché non mi lasci rimanere in pace qui dove sono? Non voglio la tua libertà! »
« Tu sarai libero », dice, « o non sarai più. »
Poi odi qualcosa che sembra un sospiro. I muri tremano, si muovono, e lentamente la crepa si richiude, proprio come avevi desiderato. Potresti esserne contento, ma non dura molto.
Attorno a te sta avvenendo qualcosa che afferri solo a poco a poco. Il mondo, che una volta ti era così familiare, ora non lo è più. Ti si rivolta contro. Ombre calano dalla cupola, grigie, fameliche figure di nebbia, volti grandi e piccoli, che ora ci sono e ora non ci sono, un inquieto, guizzante brulicare di membra e di corpi che si dissolvono e si ricompongono sempre di nuovo.
Che cosa fanno? Chi sono? Da dove vengono? Salgono dai cassoni e dagli armadi, dall'orologio, dagli stessi muri, da tutto ciò in cui ti eri creduto sicuro e protetto. Tutto questo sta per finire, si annienta da solo.
E, mentre la sala a cupola ruota lentamente attorno a te, suo piccolo, fragile centro, non puoi impedire che accada ciò che accade. L'hai voluto tu stesso. Hanno però ancora paura di te, di colui che le ha generate, almeno così sembra. Si pigiano negli angoli più remoti e lungo le pareti. Si stringono ai muri di pietra, vanno su e giù, sulle pareti, lambendole, per così dire, con i loro corpi di nebbia, e le stelle dipinte impallidiscono. Là dove strisciano, tutto diventa indistinto, nebuloso come loro. Spogliano il tuo mondo della sua realtà, succhiano la sua sostanza vitale, lo riducono a una larva di mondo. Lo annientano, dato che non è mai esistito.
Eppure sembrano insaziabili, perché lentamente ti si fanno sempre più vicine. Soltanto il tavolo dal piano massiccio con il paesaggio gira e gira ancora, e tu, al suo centro, giri con esso. Comprendi che annienteranno anche te, dato che non sei mai esistito.
Ora avverti dei colpi di martello senza che però si oda alcun rumore. Che cosa fanno? Conficcano un tubo attraverso il piano rotondo, un lavoro faticoso, ma esse sono instancabili. E poi, quando il tubo spunta da entrambi i lati, comincia a uscirne qualcosa che scorre, scorre, ed esse lo leccano, avide come cani. Hai la sensazione che sia il tuo sangue a scorrere e senti il piano rotondo sotto di te farsi più irreale a ogni battito del cuore. Ora ti invade un terrore disperato.
« Fratello! » gridi con una vocina esile, appena
percettibile anche a te stesso. « Salvami! Insegnami a cadere! »
Ma il muro non si apre, perché non c'è più. E presto non ci sarà altro all'infuori dell'abisso. Tu cadrai, cadrai, senza avere imparato a farlo, e cercherai dentro di te ciò che ti rende affine al tuo fratello, come affini fra loro sono gli astri che si tengono vicendevolmente nelle loro orbite, perché non ci sarà altro a tenerti e a nient'altro potrai tenerti. Ma ci riuscirai? Ci riuscirai, dal momento che non hai imparato a farlo?
Ecco che tutto è scomparso.
È l'ora.
Adesso!




L'INTERNO di un volto, con gli occhi chiusi, e niente più.
Oscurità. Vuoto.
Tornare a casa.
Tornare a casa, dove?
Non lo so più.
Chi... io?
Sono malato di nostalgia.
Ricorda!
Là, da dove sono venuto un giorno. A casa.
Hai una tua patria? Sei suo figlio?
Chi è che domanda?
Chi è che risponde?
Ora gli occhi sono aperti, tuttavia non c'è altro che oscurità e vuoto.
È per ciò, dunque, pensa qualcuno, che ho fatto quest'interminabile viaggio, viaggio che mi è costato tutto quello che mi sono conquistato in lunghi anni, soffrendo e lottando. Tutto, eccetto gli stracci che ho indosso. Per questo mi sono trascinato per deserti e montagne, attraverso il gelo e la calura, e ho sopportato la fame, la sete e la febbre delle paludi. Per questo ho strisciato sotto il filo spinato e sono fuggito sui tetti come un evaso. Che cosa mi ero aspettato?
Di tornare a casa. E ora, invece, solo quest'oscurità e questo vuoto. Avrei dovuto saperlo che non si può
tornare indietro. Io non sono più quello di una volta, perciò niente è più come prima. Ora lo so.
Questo qualcuno lo sa adesso, ma ormai è troppo tardi, perché non può più andarsene. Non si muoverà più da lì. Resterà fermo in quel luogo in mezzo all'oscurità, come una pietra.
La sua mano tasta alla ricerca dell'orologio che da tempo non ha più. Ma per lo meno ora sente le proprie mani.
Questa notte, pensa, non può durare in eterno. Presto arriverà il mattino. Ammesso, naturalmente, che ci sia ancora un domani.
Il freddo aumenta. Gli penetra dentro, sempre più a fondo. Se lo sente nelle ossa. Non gli oppone resistenza. È consenziente. Gli si abbandona. Ma non si sdraierà a terra, rimane in piedi. Aspetta.
Eppure, pensa dopo lungo tempo, eppure si fa giorno. E, mentre lo pensa, capisce di dover essere lui stesso a creare il mondo intorno a sé, affinché esista.
In cielo, sopra il margine del bosco al di là del fiume, si forma una striscia chiara su cui si allunga una nube, greve e scura come inchiostro colato. Non un richiamo d'uccello, non un rumore neppure lontano. Un silenzio di morte. Il paesaggio è come pietrificato. Persino l'acqua del fiume è grigia e immobile come freddo piombo.
Dipende da lui, dunque, quello che sarà, quello che avverrà, ma non è che egli si renda già conto di quanto pure percepisce.
Seduta al margine del bosco vede la donna, grossa e grigia come una roccia. Lavora a maglia senza mai interrompersi e senza alzare gli occhi.
Il suo sguardo sgomento si sposta sull'arcata del ponte di pietra che sovrasta il fiume sempre completamente immobile. E ora è colto da timore, ha paura. Due uomini imbacuccati, uno alto e uno più basso, stanno sopra il ponte come se ci fossero sempre stati, con i loro lunghi mantelli grigiobruni, la testa e il viso avvolti in sciarpe, i fucili in spalla. Non sa chi siano, ma sa che aspettano soltanto che il suo tempo sia scaduto. Allora attraverseranno il ponte e bruceranno la sua casa.
La mia casa, pensa, è ora che finalmente la veda. La vede.
È lì, di fronte a lui, in aperta campagna, a pochi passi di distanza. Ma non la riconosce. È certo di non averla mai vista prima. Niente lo lega a quell'edificio, neppure il più fuggevole ricordo, la più vaga sensazione di essere di ritorno. Non la trova nè bella nè brutta, solo estranea. Somiglia a una grossa piccionaia. Per lui è inabitabile. Non lo riguarda affatto.
Cerca di cancellarla e di metterne un' altra al suo posto, ma essa rimane lì dov'è. Non riesce nemmeno a cambiarne qualcosa. Sente invece che è proprio a causa di questa casa che è chiamato a rendere conto. Si è caricato di una colpa, evidentemente di una colpa grave. Di questo non dubita, dato che sempre più ne avverte il peso. Che cosa ha fatto?
Ha rinnegato quella casa, la sua casa, l'ha piantata in asso. L'ha tradita, diventando altrove un grand'uomo, un temuto uccisore di messi celesti, un famoso cacciatore di angeli. Perché di questo tipo di preda lui era più esperto di chiunque altro. Quanti angeli ha abbattuto e sventrato, per venderne poi le penne scintillanti e le preziose pelli ai potenti del mondo
disincantato e alle loro belle, ancor più potenti, che ne hanno ornato i propri abiti da festa! Ha teso reti e messo trappole e i suoi proiettili hanno sempre colpito in modo da non danneggiare il prezioso piumaggio. Così è diventato ricco.
Ma poi è sopraggiunta la nostalgia ed egli si è lasciato tutto alle spalle per tornare a casa. E ora se ne sta lì, dove si sente uno straniero più che in qualsiasi terra straniera, e durante la sua lunga assenza i topi hanno preso possesso della sua casa, vi si sono annidati, diffondendosi come un'epidemia mortale. Questa è la sua colpa.
E ora ha tempo fino all'alba per ripulirla, per liberarla dal flagello dei ratti, altrimenti verrà bruciata e lui stesso sarà annientato.
Non mi faccio illusioni, pensa, non c'è speranza. Non sarei dovuto tornare.
Anche se riuscisse a penetrare all'interno della casa, come potrebbe uccidere centinaia, forse migliaia di ratti... fra l'altro a mani nude, visto che non ha potuto portare le proprie armi con sé. Ma anche solo entrare nella casa è impossibile. Ci sono si delle porte, anzi, in realtà, da terra fino al tetto la casa consiste soltanto in porte aperte... ma sono tutte troppo piccole per lui. Al massimo una marmotta potrebbe infilarsi dentro, o un ratto, per l'appunto, un uomo certamente no.
All'estero sono diventato grande, pensa, ora non ho più idea di come si faccia a ridiventare piccoli.
Osserva la casa. Ogni porticina ha una mensola, un'assicella o un posatoio davanti all'entrata. Ma niente si muove. Sembra deserta.
Egli non vede nè sente i ratti, ma sa che sono
dentro, che si sono nascosti e se ne stanno cheti cheti. Anch'essi aspettano. Aspettano che lui se ne rivada. Probabilmente non sanno che per loro è finita, in un modo o nell'altro. Ma anche per lui è finita, non c'è speranza.
Non c'è davvero rimedio? Nessun essere al mondo può venirgli in aiuto? Dentro di sé non troverà niente da poter creare per la propria salvezza? Creature del deserto dal deserto del suo cuore?
C'è un lupo, grigionero, forte e irruente. E una volpe graziosa e giocherellona. No, pensa lui, non li ho addomesticati. Mi hanno seguito di loro spontanea volontà. Un'amicizia davvero strana, quella che hanno stretto con me un giorno nel deserto. Ce n'è voluto del tempo perché i due si accettassero, ma alla fine hanno imparato a convivere in pace. Mi hanno accompagnato ovunque, persino nelle città, sulle navi, e anche in quest'ultimo viaggio, fra tutti quello più insensato. Non mi hanno mai abbandonato, persino stanotte mi sono rimasti fedelmente al fianco, immobili come animali araldici.
Ma già si pente di averli evocati. Che ne sarà di loro, pensa, quando verrà eseguita la mia condanna? Li rinchiuderanno in gabbia? Li metteranno in catene? O annienteranno anche loro? Ma loro non c'entrano con le mie brutture. Sono selvaggi, sì, ma innocenti. Devo cacciarli via finché c'è tempo. Perciò ora, subito. Posa le mani sul loro pelo, che è caldo. Si china e sussurra loro all'orecchio: State a sentire, miei valorosi, cari! Dobbiamo separarci. È meglio così. Dovete lasciarmi solo, ora. Non ho più bisogno di voi. Guardate di filarvela! Sparite!
Ma il lupo e la volpe non si muovono dai loro posti, proprio come se fossero statue. Egli è costretto a fare qualcosa che non ha mai fatto prima. Li prende a calci e a pugni. Essi tentano di sfuggire ai suoi colpi, ma non si allontanano.
Via! ansima lui, e stenta a reprimere un singhiozzo. Via! Levatevi di torno!
Essi si lamentano sommessamente a ogni calcio o pugno che li coglie, ma restano. Egli stringe i denti e prova, di nuovo. È meglio, pensa, che vivano il resto della loro vita senza avere più fiducia in niente, ma che siano vivi e liberi.
Finalmente sembrano aver capito e zoppicano via guaiolando. Ma non scappano, corrono verso la casa, il pelo ritto sulla schiena. Egli ode il lupo ringhiare furioso e i brevi latrati striduli della volpe. Cercano, un ingresso, ma nessuna porticina è grande abbastanza, neppure per la volpe. Come pazzo di rabbia il lupo raschia con entrambe le zampe attorno a una delle aperture più basse. Ci caccia dentro con tutte le forze la testa, restandoci imprigionato, senza poter andare nè avanti nè indietro. Lancia un ululato, un lungo grido rauco, punta le zampe e tira e spinge, i suoi unghioli raspano il suolo, il muro intorno all'apertura cede, alcuni pezzi si sgretolano e il lupo libera la testa. Subito la volpe schizza dentro silenziosa, veloce come un lampo.
Nell'improvviso silenzio che segue, il figlio di nessuno che è tornato a casa sente martellare il proprio cuore. Ancora non capisce che cosa stiano facendo i suoi animali, ma in lui sorge una folle speranza contro la quale non può lottare.
No, pensa, è impossibile. Anche se la volpe riesce a prendere un paio di ratti, a che servirà?
Il lupo gli è tornato accanto, si è sdraiato al suo fianco e si lecca le zampe insanguinate. Dalla casa si ode un ustolare disorientato. Il muso affilato della volpe appare per un istante dietro una delle porticine superiori, proprio sotto il tetto, e scompare di nuovo.
I due uomini imbacuccati sul ponte non si sono mossi. Il figlio di nessuno cerca con lo sguardo i loro volti, ma fra le sciarpe non c'è che buio. La grossa donna grigia come una pietra continua a lavorare a maglia. L'acqua del fiume è sempre immobile.
Che cosa è stato a lanciare un urlo d'agonia? Era la volpe? Un gemito infernale giunge ora dalla casa, poi uno stridio che sempre più si gonfia, un soffiare e un fischiare come del vento di tempesta, infine un urlio di più voci, che improvvisamente cessano. Dall'apertura che è stata forzata guizza fuori la volpe come una rossa fiamma, si precipita verso il suo padrone, fa una capriola e si lancia poi in aperta campagna, dove, come impazzita, corre scatenata di qua e di là.
Lentamente i due uomini imbacuccati si tolgono i fucili di spalla, li caricano e puntano con calma. Mirano alla volpe.
No! grida il figlio di nessuno, non a lei!
A braccia aperte corre nella linea di tiro e davanti alle bocche dei fucili. Incerti, i due uomini imbacuccati abbassano le armi. Egli si volta.
Ansimante e con la lingua penzoloni, la volpe giace a terra, proprio dietro di lui e lo guarda piegando di lato la testa. I suoi occhi verdi hanno quasi un'espressione
spavalda. Col muso gira un corpicino senza vita che tiene fra le zampe.
Il figlio di nessuno raccoglie la preda e la osserva. Una pellaccia nera, bagnata, irsuta, vuota e già fredda, quasi senza peso, eppure qualcosa di orribile, non perché è morto, ma perché ha vissuto, perché è stato possibile: un visetto triangolare, vecchissimo, carico anche adesso di un'incredibile malvagità, manine di uomo rattrappite con artigli lunghi e aguzzi. Se quello è un ratto, lui non ne ha mai visto uno prima di allora.
Regge la cosa ormai rigida sulle mani protese e si dirige verso i due uomini imbacuccati. Il lupo e la volpe lo seguono. Così sono in tre a fermarsi davanti al ponte.
Dopo un lungo silenzio i due uomini imbacuccati si rimettono i fucili in spalla e, dopo un altro lungo silenzio, si voltano e si allontanano a passi pesanti e malfermi.
Il figlio di nessuno li segue con gli occhi e ora, d'un tratto, tutta la speranza cui aveva rinunciato sale in lui, come un caldo fiume di lacrime. Sente calore levarsi dalle sue ossa, fluire nelle sue membra, nel petto, nella gola, negli occhi. Adesso sa che il suo ritorno è appena iniziato.
La grossa donna grigia come una pietra, seduta al margine del bosco, ha smesso di lavorare a maglia. Le sue mani posano immobili in grembo. Il viso, fino a quel momento scuro d'ombra, è ora illuminato dal riverbero dell'alba verso cui è volto. In placida attesa ella guarda il cielo che sempre più va rischiarandosi. Da quella parte si stacca dalla luce, ancora molto lontano e quasi solo da presagire ma già risplendente di tutti i colori del colibrì, il primo paio di ali in volo.




IL ponte, al quale lavoriamo già da molti secoli, non sarà mai ultimato. Come una mano tesa che nessuno afferra, spunta dalla ripida costa rocciosa al confine del nostro paese, sotto la quale si estende il nero abisso senza fondo. Il suo arco, slanciandosi verso l'alto, scompare lontano, da qualche parte in mezzo alla nebbia che sempre sale dal basso.
Una costruzione simile non può essere portata a termine se non si costruisce anche dal lato opposto. E finora non abbiamo mai avuto prova che anche dall'altra parte si lavori a un tale progetto. È probabile che di là non si siano neppure accorti dei nostri sforzi.
Molti di noi dubitano addirittura che esista davvero un'altra parte. Questa fazione nel corso degli ultimi due secoli ha fondato una chiesa propria che si discosta dalla vecchia dottrina ortodossa e i cui membri vengono chiamati col nome di Unilaterali. All'inizio si è trattato di un nomignolo affibbiato loro dagli ortodossi, poi essi stessi lo hanno adottato e da allora lo portano non senza un certo orgoglio. Le loro convinzioni non vietano del resto che essi partecipino col massimo impegno alla costruzione del ponte, così come prescrive la nostra etica. Perciò oggi non vengono neppure più perseguitati, come invece è accaduto a volte in un primo momento, ma godono degli stessi diritti degli altri, o quasi. Li si può riconoscere da un piccolo
taglio verticale che hanno sul lobo dell'orecchio sinistro, col quale professano la propria unilateralità. Gli altri invece, che formano la maggioranza ortodossa, si chiamano Dimezzati. Essi non dubitano dell'esistenza di un'altra parte, ma sanno che è irraggiungibile.
Sebbene il ponte non si sia mai proteso oltre la metà dalla nostra parte, vi regna un traffico molto intenso. A tutte le ore del giorno e della notte vi si possono vedere carri, persone a cavallo o a piedi, lettighe e facchini che circolano in ambedue le direzioni. Senza gli scambi commerciali con l'altra parte oggi non potremmo più esistere, perché tutti i medicinali e gran parte dei nostri generi alimentari provengono di là. Dal canto nostro noi li riforniamo di ogni sorta di recipienti di terracotta, laterizi, attrezzi metallici e cera fossile che estraiamo dalle nostre miniere.
Spesso è difficile far comprendere agli stranieri che questi fatti, che a loro sembrano un'evidente contraddizione, noi li accettiamo senza problemi e conviviamo con essi. La nostra religione ci vieta - e a questo riguardo non c'è alcuna differenza fra gli Unilaterali e i Dimezzati - di porre in dubbio che esista realmente solo il tratto di ponte da noi costruito. Fanatici ed eresiarchi, che di quando in quando hanno fatto la loro comparsa nel corso della nostra storia, sono stati condotti seduta stante fino al punto in cui termina il ponte e costretti a proseguire. Naturalmente sono precipitati nel vuoto.
Per chi non è nato e cresciuto nel nostro paese può essere difficile capire che il presupposto degli scambi fra noi e l'altra parte consiste nella nostra più assoluta certezza circa la loro impossibilità. Se mettessimo
seriamente in discussione tale fondamento della nostra dottrina, allora - e di questo siamo più che certi, tutti i nostri libri sacri lo attestano - il tratto di ponte che abbiamo costruito crollerebbe all'istante e noi saremmo perduti. I viaggiatori farebbero bene quindi a tenere a freno la lingua e a non sforzarsi troppo ostinatamente di scoprire il mistero della nostra fede. Altrimenti corrono il rischio di rimanere vittime anch'essi della sorte toccata agli eretici del nostro popolo. Sperimenterebbero sulla loro pelle che il nostro ponte non è ultimato e che fra noi e l'altra sponda si stende ancora l'abisso.
Durante la celebrazione di un matrimonio - e non sono pochi - tra una figlia o un figlio del nostro paese e un figlio o una figlia originari dell'altra parte, questi ultimi confessano solennemente di non esistere. La differenza fra le nostre due confessioni consiste soltanto in questo, che la formula presso gli Unilaterali suona così: « Io non provengo da nessun luogo, perché il luogo della mia provenienza non esiste. Per questo io non sono nessuno, e così ti prendo in sposo (sposa) »; mentre presso i Dimezzati la formula dice: « Di là, da dove provengo, non è possibile che io provenga, per questo io non sono qui, e così ti prendo in sposo (sposa) ». Con questa cerimonia la persona in questione acquista la piena cittadinanza nel nostro paese e da allora viene considerata un individuo reale con tutti i doveri e i diritti di un coniuge.




È UNA stanza e contemporaneamente un deserto. Le nude pareti si innalzano lontane e nebulose all'orizzonte. Tutt'intorno null'altro che sabbia, duna dopo duna, sempre di seguito, in ogni direzione. Su in alto, allo zenit, è appeso un sole incandescente, oppure è una lampada con un paralume di latta smaltato di azzurro? La luce violenta fa strage di tutti i colori, risparmia soltanto superfici bianche e ombre nere: lo scheletro della luce, accecante, insopportabile, micidiale, lo splendore malvagio di un cannello cosmico per saldatura autogena.
La stanza ha due porte, gigantesche, incassate nell'azzurro infocato del cielo, una a nord e una a sud, sopra il tremolante orizzonte.
Dalla porta settentrionale una traccia tortuosa di piccoli crateri di sabbia conduce fino in mezzo al deserto. Qui cammina un uomo, piccolo come un formichino. A ogni passo affonda fin oltre le caviglie, barcolla, agita le braccia.
Questi è lo sposo.
Il suo viso è bruciato dal sole, la pelle screpolata e piena di bolle, le labbra sono bianche per la saliva secca. I capelli scoloriti sono duri come paglia. Con sorda pazienza si riaggiusta continuamente gli occhiali che gli scivolano dal naso sudato. Nella mano sinistra sventola un cappello a cilindro tutto ammaccato. Il
tight che indossa doveva essergli andato giusto un tempo, ma ora gli è troppo largo, le falde gli arrivano fino ai calcagni. La stoffa è logora e rovinata in più punti. La camicia gli esce dai pantaloni diventati anch'essi troppo larghi ed egli è costretto a tirarseli su ogni tre passi. A un piede porta una scarpa di vernice con la suola che si stacca, l'altro piede se lo è fasciato con un fazzoletto sporco, per proteggerlo almeno un po' dalla sabbia rovente.
Circa venti metri davanti a lui cammina un altro uomo, un impiegato forse: vestito in modo impeccabile, abito scuro, cappello scuro, una cartella in una mano e nell'altra un ombrello ben chiuso. Ha il viso un po' pallido e completamente senza tratti, cancellato si potrebbe dire.
La distanza fra i due uomini aumenta pian piano, ma con ritmo costante. Lo sposo cerca di sbrigarsi, respira con affanno, cade, si rialza, vacilla ancora, cade di nuovo.
« Senta, per piacere! » strilla, e la sua voce risuona acuta e affaticata come quella di una vecchina. « Aspetti! Vorrei domandarle una cosa. »
L'uomo senza volto ha certamente udito le sue grida ma prosegue ancora per un buon tratto prima di fermarsi e volgersi con un sospiro, quasi si trattasse del piagnucolio di un bimbo maleducato che per la centesima volta tenta di trattenerlo con un pretesto qualsiasi. Appoggiatosi con fare indolente al suo ombrello, osserva lo sposo che con gran fatica si arrampica a quattro zampe sulla duna dove egli si trova.
« Per favore, si sbrighi! » dice freddamente. « Che cosa c'è ancora? »
« Mi dica », ansima lo sposo, ed è evidente che riflette un poco su quello che in realtà vuole chiedere, « mi dica, per favore, è ancora molto lontano? »
Mentre parla le sue labbra gonfie fanno le fila come formaggio.
« Solo un paio di passi ancora », risponde l'altro, corretto come prima, « fino a quella porta laggiù. »
E con l'ombrello indica in direzione della porta a sud. Sta per incamminarsi di nuovo ma lo sposo lo trattiene.
« Mi scusi », butta fuori con un certo sforzo, « ma dove - è che in questo momento mi sfugge - dove stiamo andando? »
« Dalla sua sposa, caro signore », spiega l'altro, e si capisce che questa risposta ha dovuto già darla più volte. Scandisce ogni sillaba e parla forte, come se si rivolgesse a uno scemo o a uno un po' duro d'orecchi. « La sto portando nella stanza della sua sposa. »
Lo sposo lo fissa per un attimo a bocca aperta, poi si batte la mano sulla fronte e sbotta in una breve risata, come per chiedere scusa. Tenta un sorrisetto, mentre dice: « Quando saremo da lei, andrà tutto bene, vero? Non troverà niente da ridire sul mio conto, solo perché non sono più vestito tanto bene come prima? In fondo è per causa sua, se ne renderà conto? Quello che ho sofferto la convincerà del mio amore per lei? Mi crederà, di questo sono sicuro. Mi accoglierà a braccia aperte ».
« Quando saremo da lei », conferma l'altro con indifferenza.
« Certo, certo », mormora lo sposo, « presto, molto presto. Per questo ho scelto la via diretta, dalla porta
là dietro all'altra là davanti. La via diretta è la più breve, non è così? Questo lo sa anche un bambino. »
« No », esclama l'altro con viso impenetrabile, « non nella stanza di mezzogiorno. Gliel'ho detto fin dall'inizio, ma lei non ha voluto credermi. Ogni via traversa sarebbe stata più breve. Lei non è stato nemmeno ad ascoltarmi. Ed ora è troppo tardi. Ci siamo già spinti troppo oltre. »
Lo sposo si passa sulle labbra screpolate la lingua asciutta come un pezzo di miccia. « Allora potrò fare di lei tutto ciò che vorrò », bisbiglia. « Lei dovrà accettare tutto senza obiezioni di sorta. Non per niente è la mia sposa. Ma non lo farò. Non le farò nulla di male, capisce che cosa intendo? Lei è infatti molto giovane e bella. Del tutto innocente, sa? In ogni caso sarò tenero con lei, dolce e pieno di tatto. L'aver scelto la via diretta non significa che io voglia aggredirla. Le lascerò tempo. »
Il suo accompagnatore tace e guarda senza interesse verso l'orizzonte.
Lo sposo fissa per un momento l'alluce che gli spunta dalla scarpa di vernice, poi chiede, d'un tratto diffidente: « Ma è davvero giovane e bella, la mia sposa? Voglio dire... lo è ancora, no? La prego, mi dica apertamente la sua opinione! »
« Io non ho alcuna opinione in proposito », ribatte l'uomo senza volto.
Lo sposo si strofina la fronte. « Si, si, lo so. Solo che... ne è già passato di tempo. Ricordo appena il suo aspetto. Per essere sincero, è una persona che non conosco più. Una ragazza qualsiasi, estranea. Come si chiamava? Dio mio, è già da tanto che siamo in cammino. »
« Siamo usciti da quella porta », dice la voce fredda,
« e andiamo verso l'altra laggiù. Questo è tutto. »
« Io non capisco », confessa lo sposo, « non capisco come possa essere tanto lontana. »
« Lei non capisce », ripete l'altro, mentre fa per rimettersi in cammino, « ma la sua sposa aspetta. Venga! »
Lo sposo lo trattiene ancora una volta per la manica.« Lei come fa a saperlo? Forse non mi aspetta più già da un bel pezzo. Oppure non mi ha mai aspettato. Chissà che cosa può essere successo nel frattempo. Così mi sarei sobbarcato inutilmente a tutto, rendendomi ridicolo. »
« Questo », risponde la voce secca, « lo saprà quando avrà varcato quella porta là davanti. »
« La porta là davanti! », sussurra lo sposo, « è irraggiungibile, resta sempre di fronte a noi, sempre alla stessa distanza... È una fata morgana, non una porta! »
« Sciocchezze! » esclama l'altro senza un sorriso, « una fata morgana appare e scompare. Ma quella porta è stata lì fin dall'inizio e c'è rimasta, sempre uguale. »
Lo sposo annuisce. « Si, uguale - da allora, da quando mi sono messo in cammino - quando ancora ero giovane. »
« Perciò non può essere una fata morgana », replica l'accompagnatore col tono di chi vuole troncare il discorso, e si rimette in marcia.
Per lungo tempo i due uomini procedono l'uno accanto all'altro, ma a poco a poco si ricrea una certa distanza fra loro, che aumenta sempre più. Di nuovo lo sposo si mette a strillare e di nuovo l'uomo impeccabilmente vestito si ferma solo dopo un po' e lo aspetta,
appoggiato al suo ombrello. Lo sposo si scioglie a vista d'occhio, gli abiti gli pendono a brandelli dal corpo, pare persino diventato ancora più piccolo e vecchio.
« Allora », butta fuori trafelato, mentre col cilindro di cui è rimasta ormai soltanto la tesa fa un gesto scomposto per indicare la porta settentrionale, « allora ero ancora forte, se lo rammenta? Allora ero io quello che andava avanti, ricorda? »
« Qualche volta », rettifica l'altro, « molto di rado. » Lo sposo scrolla ostinato la testa. « No, no. Lei poteva appena frenarmi. Aveva il suo bel da fare a tenermi dietro. Allora ero più giovane di lei, caro mio. Molto più giovane e molto più forte. Ero un giovanotto prestante. »
« Io », ribatte l'accompagnatore, « ho sempre la stessa età. »
Lo sposo si toglie con la mano la sabbia dal viso grinzoso. « Mi ricordo », sussurra, « che quando uscimmo dalla porta c'era una donnina vecchissima accovacciata a terra, piccola piccola, come rinsecchita dal sole. Indosso non aveva che pochi brandelli di stoffa ridotti a una ragnatela, forse quanto era rimasto del suo velo di sposa. Povera, vecchia strega! I suoi seni vizzi, scarniti e vuoti come pieghe della pelle mi fecero ribrezzo. Ma lo sguardo con cui mi fissava! Mi è tornato spesso alla mente. Aveva gli occhi infossati, quasi ciechi. E mi tendeva la mano in cui stringeva un paio di steli secchi di rosa. Il suo sguardo mi ricordava qualcosa... o qualcuno. Ora non rammento più. So soltanto che provai vergogna per lei, perché era così vecchia e brutta. Mi tolsi il garofano rosso dall'occhiello e glielo gettai. Lei lo prese e rise con la sua bocca sdentata. Credo
che fosse contenta del mio regalo. Sì, allora ero davvero un bel pezzo di giovanotto, forte come un toro. Pensavo: solo qualche passo e sarò da lei, dalla mia sposa. Avevo fretta. Per questo scelsi la via diretta per andare da lei. »
« Forza, cammini! » esclama l'accompagnatore, ora quasi un po' spazientito.
Ma lo sposo ha ancora qualcosa da aggiungere, sebbene parlare in modo comprensibile gli costi fatica. « Non pensa anche lei », gracchia, « che sarebbe meglio aspettare fino a sera? Col fresco potremmo proseguire più facilmente. »
« La prego », ribatte l'uomo senza volto, « si riprenda! Lei fa una gran confusione. Noi ci troviamo nella stanza di mezzogiorno. Qui non esiste la sera. Lo vede anche lei, qui non gettiamo praticamente alcuna ombra. La luce è allo zenit, immutata e immutabile. »
Lo sposo annuisce triste, lascia cadere le braccia e dice: « Io non ce la faccio più ».
L'accompagnatore rovista indifferente fra la sabbia con l'ombrello. « Questo l'ha già ripetuto cento volte. Devo fare appello di nuovo al suo senso di responsabilità? La stanno aspettando. La sua sposa conta ogni minuto. Freme dal desiderio di vederla, come solo le giovani possono fremere. Ciò non significa niente per lei? »
« Ma certo, certo! » si affretta ad assicurare lo sposo. Di nuovo camminano in silenzio per un lungo tratto, per ore o anni, sotto la luce splendente.
D'improvviso lo sposo si getta a terra, si rotola sulla schiena e grida al cielo, con le labbra incrostate: « Perché? Ma perché? Perché il cammino è tanto lungo?
Non arriverò mai. Mai, mai vedrò la mia sposa e potrò abbracciarla. Perché non ho potuto dirle semplicemente che la desidero, che la voglio, che ardo dal desiderio di sentire la sua pelle, il suo corpo? » Un attacco di tosse lo scuote, non riesce a proseguire.
L'accompagnatore attende imperturbabile che gli passi, quindi dice: « Tutto ciò, lei l'ha fatto. Ha detto queste cose e ora sta tutto scritto, parola per parola, nei documenti ». Batte leggermente con l'ombrello sulla cartella di cuoio.
Per un po' lo sposo muove le labbra, senza parlare.
« Ma perché », balbetta alla fine, « perché allora mi trovo qui e non da lei? Perché non faccio che avvicinarmi, senza però mai raggiungerla? Perché? Perché? »
« Perché l'ha voluto lei », dice l'altro abbassando lo sguardo verso di lui. « Le è stato detto e ridetto che la via diretta è quella più lunga. Lei però non è stato neppure ad ascoltare. Almeno mi ascolta adesso? »
« Sì », gracchia lo sposo. Fissa a lungo il suo accompagnatore, poi comincia a ridere. Pare quasi un lungo stridio. L'altro aspetta immobile. Finalmente l'uomo deglutisce e sussurra: « Dunque la matematica mi ha tratto in inganno? »
« No », risponde l'accompagnatore, « in matematica è giusto. »
Lo sposo lascia ricadere la testa all'indietro sulla sabbia e fissa il sole. Gli occhi gli fanno male, Come se fossero trafitti da ferro rovente, ma non lacrimano. Non ha più lacrime. Si fa scorrere sabbia fra le dita e mormora: « Allora è così. Io mi arrendo. Sciopero. Non ho più voglia. Sciopero ».
« Coraggio! » dice l'accompagnatore, ma lo dice senza
premura. « Guardi, là è la porta, sono solo un paio di passi. »
L'uomo continua a farsi scorrere la sabbia fra le dita. L'accompagnatore lo tira su e lo regge tenendolo a braccia distese, tanto è diventato leggero. Le sue gambe penzolano in aria come quelle di un pupazzo.
« Non ci vedo più », mormora, « non ho più occhi. » « E la sua sposa? » domanda l'altro.
« Non so più niente. Non capisco più niente. Non voglio più niente. Non ho una sposa. Non ne ho mai avuta una, e mai ho desiderato di averne. Non ho mai amato. Non sono mai esistito. Per favore, mi lasci in pace. »
Ma l'accompagnatore non desiste. « Lei non ha il diritto di rinunciare alla sua esistenza. Lei pensa soltanto a se stesso. Ma lei si è assunto una responsabilità, e un uomo di carattere come lei non può gettarsela così, semplicemente, dietro le spalle. »
« Carattere... » sussurra lo sposo, sempre con le gambe penzoloni, « mi chiedo perché non si assuma lei il mio compito. La ragazza ne sarebbe contenta. Lei è ancora giovane... in ogni caso più giovane di me. »
L'accompagnatore lo molla. Egli cade sulla sabbia come un fagotto di stracci. Strizzando gli occhi, cerca di vedere l'uomo senza volto che lo sovrasta in tutta la sua altezza.
« I nostri doveri », sente dire dalla voce piatta, « non sono gli stessi. »
Lo sposo giocherella ancora con la sabbia. « Doveri... » sussurra ridacchiando un poco, « doveri... »
Ora per la prima volta l'altro perde quasi il controllo
« Lei si comporta come se ne andasse della sua vita. »
« È così infatti », risponde lo sposo annuendo con tristezza « Ne va della mia vita, retroattivamente, capisce?
Io sono vecchio, ma non ho vissuto. Mi hanno annullato. Mi hanno defraudato della mia vita, non so chi. E ora non la voglio più. Non voglio averne mai avuta una. Lei non può farci niente. »
« Invece sì », esclama l'altro.. « La porterò io per questi ultimi due passi. »
Lo sposo ridacchia. « Gli ultimi due passi... non ce la farà! »
« Permette? » dice l'altro e, senza attendere risposta solleva lo sposo e lo prende in braccio. Questi cinge con un braccino magro la spalla dell'accompagnatore e appoggia la tentennante testolina di vecchio al collo di lui. Così percorrono ancora un lungo tratto. Sebbene lo sposo non pesi ormai quasi più niente, chi lo porta infine non ce la fa più e lo lascia scivolare a terra.
« Gli ultimi due passi... » bela lo sposo trionfante, « lo vede, lo vede? »
L'uomo senza volto non risponde. Aggancia il manico dell'ombrello al collo del tight, anzi, a ciò che ne è rimasto, e si trascina dietro lo sposo.
Di nuovo trascorre un tempo infinito.
Lo sposo sente che l'altro lo ha mollato e cerca di liberarsi del mucchietto di stracci che ha indosso.
« Eccoci arrivati », sente dire dalla voce impassibile, « glielo avevo detto che mancavano solo un paio di passi. »
Con un ultimo sforzo lo sposo si solleva a sedere e spalanca gli occhi. La luce gli penetra dentro come
metallo fuso ed egli caccia un urlo, che però nemmeno lui stesso ode.
La porta ondeggia davanti al suo sguardo morente. È aperta. Dietro di essa l'azzurro del cielo è di una gradazione più scura di quello, un po' fosco, che la circonda. Sulla soglia c'è una ragazza slanciata, dalle lunghe gambe, con indosso soltanto un vaporoso velo da sposa che le scende dalla testa e le avvolge il corpo, trasparente come una leggera nebbiolina. Il viso è quasi nascosto in questa nebbia, ma tanto più chiaramente si distinguono le membra lunghe e sottili, le cosce, il seno minuto, l'addome piatto e l'ombra scura del ventre. In mano ha un mazzo di rose.
« Finalmente! » grida, « quasi morivo per il desiderio. Ma dov'è? Dov'è lui? »
L'accompagnatore si volge verso lo sposo, ma questi solleva una mano con gran fatica e, implorante, si porta un ditino ossuto alla bocca infossata e senza denti.
L'accompagnatore scuote impercettibilmente le spalle e si volta verso la sposa. « Il suo sposo l'aspetta dietro la porta settentrionale. Se vuole, la conduco io da lui per la via diretta. »
« Andiamo! » grida lei, « facciamo alla svelta. Solo un paio di passi e sarò da lui. »
Sta per correre via, ma si arresta vedendo che lo sposo le tende la mano. Confusa, l'osserva per un istante, poi gli getta una delle rose del mazzo che tiene in mano.
Lo sposo leva lo sguardo sull'accompagnatore che a braccia incrociate ha assistito alla scena e ora dice piano: « Per lo meno vi siete incontrati. L'avete già fatto più volte e lo farete sempre di nuovo. Questo non capita a tutti ».
Quindi segue la ragazza che a lunghi balzi s'inoltra nel deserto, in direzione dell'altra porta che si leva, enorme, sull'orizzonte settentrionale. Le due figure si fanno sempre più piccole in mezzo alle dune e presto di loro non resta che una traccia tortuosa di minuscoli crateri di sabbia.
Lo sposo la segue con gli occhi lattiginosi, mentre con le dita palpa il boccio della rosa.
« Com'è bella! » sussurra, « mio Dio, com'è bella! » E, lasciandosi ricadere sulla sabbia, mormora ancora: « Mi troverà laggiù, dietro quella porta? »




FIAMME danzanti erano gli invitati alle nozze e festeggiavano la più splendida delle feste nel castello di cera colorata. Le trasparenti pareti variopinte, le torri, i portali e le finestre risplendevano fino in lontananza nella campagna notturna.
C'erano gonfie fiamme dorate che si muovevano con molto sussiego, e sottili lingue d'argento che guizzavano svelte l'una nell'altra; c'erano anche minuscole fiammelle che saltellavano un po' ovunque, e grandi fuochi quieti, quasi immobili al loro posto, alcuni di un bianco splendente, altri color arancione-scuro o rosso-porpora. Ce n'erano anche altri che bruciavano con lunghi sventolanti cappucci di fumo, e qua e là si vedevano dignitosi ceri come del resto s'incontrano in ogni festività di una certa importanza. In breve, molte migliaia erano gli invitati alle nozze e io ero fra loro.
Tutti alimentavamo la nostra ardente esistenza con la cera variopinta del castello, la consumavamo, l'adoperavamo senza preoccupazioni ne riguardi di sorta, mentre celebravamo la festa. Dapprima si sciolse naturalmente l'enorme tetto fatto di verdi tegole di cera, che gocciolò attraverso i travetti e le robuste, nere colonne di candele del solaio e corse in densi rivoli per le stanze e i saloni del piano superiore. Poi fu la volta dei pavimenti marmorizzati che si riversarono in cascate multicolori, formando stalattiti e stalagmiti, grotte
e ciuffi, lungo le gallerie e gli ampi scaloni. Quanto più l'edificio si fondeva, tanto più selvaggia e sfrenata si faceva la danza degli invitati. Travolti dall'ebbrezza della gioia, divampavano in incendi di entusiasmo, turbinavano in girotondi ubriachi di felicità. Ora si prendevano tutti per mano e correvano velocissimi, formando lunghe catene per i saloni e i corridoi, ora si lanciavano in vortici, poi si dondolavano ancora e scivolavano qua e là a coppie, guizzanti l'una nell'altra, in solenni tanghi e sarabande.
Sciogliendosi in spirali grumose, pendagli e bizzarre caverne, il castello si dissolse a poco a poco, consumato nel sontuoso banchetto di gala. E quanto più le pareti egli architravi, le scale e i colonnati di cera si trasformavano in luce e in fuoco, tanto più si riduceva il numero delle fiamme restanti. Una dopo l'altra si spensero, ubriache, sazie, esauste. Quando infine giunse l'alba, soltanto pochi ballerini vacillavano ancora su un lago di rigida cera multicolore. Ma anche questi ultimi instancabili si accasciarono a poco a poco, girarono ancora una volta su se stessi e cessarono poi di esistere. La lieve brezza mattutina soffiò via ancora un piccolo, bianco pennacchio di fumo sopra l'ampia superficie piana. Quindi la cerimonia nuziale finì.
C'ero anch'io. E potete credermi: fu, per Dio, una festa davvero grandiosa!




SULL'AMPIA superficie grigia del cielo scivolava un pattinatore, a testa in giù, con una svolazzante sciarpa di lana al collo. Poteva farlo, dato che il cielo era gelato.
Con i nasi gocciolanti e le bocche spalancate, una folla di gente stava a guardare da terra, indicava verso di lui e di tanto in tanto lo applaudiva, quando gli era riuscito un balzo particolarmente difficile (all'ingiù, si capisce).
Egli sfrecciò descrivendo grandi archi e volte, sempre le stesse figure, finché la traccia lasciata dalla sua corsa si fu incisa nel cielo. Si vide allora che si trattava di lettere, forse un messaggio importante. Poi egli scivolò via, scomparendo lontano oltre l'orizzonte.
La folla restò a fissare verso l'alto, ma nessuno conosceva quell'alfabeto, nessuno era in grado di decifrare la scritta. Lentamente la traccia si dissolse e il cielo tornò a essere soltanto un'ampia superficie grigia.
La gente andò a casa e presto dimenticò l'accaduto. In fondo in fondo ognuno ha i propri problemi, e poi: chissà se il messaggio era davvero così importante.




QUESTO signore è fatto solo di lettere. Di moltissime lettere, s'intende, di un numero astronomico di lettere, ma per l'appunto solo di lettere.
Ecco la sua amica. Lei è fatta, come ben si vede, di carne e ossa. E che carne e che ossa! È un piacere anche starla soltanto a guardare... per non parlare poi di toccarla!
I due vanno insieme alla fiera. Sulle barchette a dondolo e sulla ruota gigante procede ancora tutto per il meglio. Ma poi arrivano a un tiro a segno; certo, un tiro a segno assai singolare.
PROVA TE STESSO! c'è scritto sopra a grandi lettere. E più in basso si possono leggere le regole. Sono soltanto tre:
1. OGNI TIRO È UN COLPO ANDATO A SEGNO.
2. OGNI TIRO ANDATO A SEGNO DÀ DIRITTO A UN TIRO GRATUITO.
3. IL PRIMO TIRO È GRATUITO.
L'uomo, con un braccio attorno ai fianchi dell'amica, studia attentamente la scritta. Vorrebbe proseguire in fretta, ma lei insiste perché approfitti dell'offerta vantaggiosa. Vuole vedere quello che lui è capace di fare.
Ma il signore non vuole.
« Perché no, caro? Che male c'è? »
C'è che bisogna sparare a un bersaglio molto insolito, cioè a se stessi, vale a dire alla propria immagine
riflessa in uno specchio metallico. E l'uomo fatto di lettere non si sente abbastanza reale da distinguere in maniera così arrischiata fra sé e la propria immagine riflessa.
« O spari », gli dice infine l'amica furibonda, « oppure ti pianto! »
Egli scuote la testa. Allora lei se ne va assieme a un altro, un macellaio, che di carne e di ossa se ne intende.
Il signore rimane lì e la segue con gli occhi. Quando lei infine scompare in mezzo alla ressa, egli si disfa a poco a poco in un mucchietto di piccolissime maiuscole e minuscole, che la gente poi calpesta.
Tanto valeva che avesse sparato, no?




IN realtà si trattava solo delle pecore, però anche noi uomini dovevamo tenerci nascosti, dal momento che chiunque avesse disubbidito alla disposizione tassativa di consegnare tutte le sue pecore metteva a repentaglio la vita. Bastava anche soltanto sapere dove si trovavano delle pecore; non occorreva presentare denuncia.
Il motivo per cui veniva pretesa con sistemi tanto rigorosi la consegna degli animali non ci era affatto chiaro, visto che non sembrava che tutte le pecore requisite fossero subito macellate. Non sussisteva un tale bisogno di carne, tanto meno di carne di pecora. Al massimo veniva macellata subito la metà degli animali consegnati; ciò che accadeva dell'altra metà, se venisse rinchiusa in un primo momento in grandi stalle-deposito o portata fuori del paese, questo nessuno di noi lo sapeva. E poiché non riuscivamo ad afferrare il senso di tutta la faccenda, in quei primi giorni almeno, cominciammo a fare, per quanto concerneva i particolari, le più strane congetture.
In ogni caso eravamo tutti ben contenti di aver trovato per i nostri animali quel capannone vuoto. Hanna, mia moglie, era del parere che dovesse trattarsi di un ex megaparcheggio o qualcosa del genere. Io, invece, mi ero impuntato a sostenere che non potesse essere altro che un mercato coperto. In fondo non c'era modo di dimostrare nè l'una nè l'altra ipotesi. I bassi recinti che correvano tutt'intorno alle pareti e nei quali
avevamo spinto le pecore non avvaloravano nessuna delle due.
Si dice che in tali situazioni nulla sia più difficile dell'attesa. Io non posso confermare questa esperienza. Noi eravamo di buon umore, quasi allegri. Ce ne stavamo sparsi qua e là in gruppetti più o meno numerosi a chiacchierare animatamente fra noi. Alcuni, da soli o a coppie, passeggiavano su e giù per il capannone. Fra il brusio generale risuonavano di continuo delle risa. Si, davvero, ridevamo, trovavamo comico il fatto che le squadre dei macellai dai grembiuli insanguinati, che perquisivano l'intera città alla ricerca di pecore tenute nascoste, entrassero e uscissero persino dalla casa accanto senza che passasse loro per la testa di cercare nel nostro capannone. Alcuni di noi si permettevano addirittura osservazioni ironiche sull'olfatto evidentemente atrofizzato di quei tipi.
Alla fine eravamo così sicuri del fatto nostro che lasciammo uscire le pecore dai recinti. Gli animali stavano in mezzo a noi, perplessi e leggermente turbati e si lasciavano osservare. Di tanto in tanto uno belava. Questo ci impensierì un poco. E quando subito dopo vedemmo che proprio dalla casa accanto, dove i macellai entravano e uscivano in continuazione, un piccolo gregge di forse una decina di pecore veniva condotto fuori e caricato su un camion in attesa, il nostro buon umore sparì in un batter d'occhio. In fretta spingemmo le nostre protette di nuovo dentro i recinti e ne chiudemmo ben bene le porte. Fuori il camion effettuò una lunga manovra di conversione facendo un gran fracasso e finalmente si allontanò.
Non era trascorsa più di mezz'ora che lo stesso
autoveicolo tornò, fermandosi proprio di fronte al nostro capannone. La porta fu spalancata e noi vedemmo alcuni macellai saltare giù dal retro del camion coperto. Al grido di « oh-issa! » tirarono fuori dal piano di carico enormi pezzi di carne sanguinolenta, tanto grossi che ciascuno di essi doveva venire portato in spalla da due o anche tre uomini insieme. Non so di che animali si trattasse, forse elefanti o mammut, pecore certamente no.
Comunque lo spettacolo ci fece rabbrividire, tanto più quando vedemmo che i macellai si accingevano a portare i loro fardelli sanguinolenti proprio dentro il nostro capannone. Il loro regolare « oh-issa » si era trasformato presto in una specie di monotona cantilena, due strofe ripetute continuamente, al cui ritmo essi si muovevano:

Prendi la vittima! Immola la vittima!
Chi non sacrifica, diventa vittima...
Noi tutti ci unimmo a poco a poco alla cantilena, nell'assurda speranza di convincere così i macellai della nostra innocenza e assoluta tranquillità d'animo riguardo l'osservanza della disposizione generale. Intanto ognuno di noi tremava al pensiero che qualcuna delle pecore nascoste nei recinti si mettesse a belare. Cantammo sempre più forte per coprire un eventuale belato rivelatore da parte dei nostri animali, ma per fortuna essi rimasero stranamente in silenzio, proprio come se avessero capito la pericolosità della situazione, ciò che naturalmente non poteva essere vero.
Il corteo dei macellai carichi di carne - nel frattempo
erano diventati molti di più di quelli che potevano essere arrivati col camion - avanzava lentamente, a passo di processione, proprio verso il punto in cui mi trovavo assieme ad Hanna, mia moglie. La tirai da parte e, mentre mi voltavo a metà, scorsi sulla parete alle nostre spalle, in mezzo a due recinti, una porta che era aperta e pareva condurre giù in una cantina. I macellai vi si diressero e, uno dietro l'altro, scomparvero di sotto con i loro carichi.
Mi colpì il fatto che nessuno ne tornasse. Il corteo aveva tutta l'aria di muoversi soltanto in una direzione, dal camion davanti al capannone verso la porta della cantina. Ciò mi affascinò al punto che per un bel pezzo non potei staccare lo sguardo dalle persone che mi sfilavano dinanzi. Mi dissi che senza dubbio dovevano uscire di nuovo alla luce del sole passando per un'altra porta, ma appena mi sforzai d'imprimermi nella mente il viso di una di loro per riconoscerla al successivo passaggio, la mia miopia mi diede purtroppo del filo da torcere e i contorni del viso sfumarono, sebbene avessi gli occhiali e strizzassi gli occhi. Non riuscivo a capirne il motivo. D'un tratto mi era venuta, così si dice da noi, una « vista da pecora », perché, com'è risaputo, le pecore, soprattutto se impaurite, vedono male o anche doppio.
In preda a un'insopportabile tensione, mi volsi verso Hanna nella speranza di leggere sul suo volto qualcosa che servisse a calmarmi o rallegrarmi. Ma nel frattempo lei se n'era andata, non aveva retto più a lungo la vista dei macellai.
Mi imposi di mostrarmi tranquillo e gironzolai in mezzo alla nostra gente, cantando a voce alta la canzone
dei macellai. Il capannone aveva una sorta di navata laterale, e là vidi finalmente, per un attimo, scintillare i quadri marrone e bianchi del vestito di Hanna. Mi affrettai a raggiungerla e notai che stava parlando con la mia anziana madre che le sedeva di fronte su un seggiolino pieghevole.
« Sei qui! » esclamai un po' affannato.
Lei sollevò appena gli occhi, mi fece un cenno col capo sorridendo, si curvò di nuovo su mia madre e continuò a parlare con lei a mezza voce.
Detti un'occhiata alle mie spalle. I macellai continuavano a entrare in fila ininterrotta e continuavano a cantare la loro canzone e a trascinare i loro orribili carichi. E laggiù, alla porta dove poco prima ero stato assieme a lei, vidi Hanna: era ancora là! Certo, mi volgeva le spalle, ma io la riconobbi dai grossi quadri marrone e bianchi del suo abito, dallo splendore rossastro dei suoi capelli, dalla figura, dai movimenti. A braccia aperte e sollevate, come se ballasse, schioccava le dita e si dondolava leggermente al ritmo della cantilena.
Mi girai di scatto. Anche davanti a me trovai Hanna, sempre china a conversare con mia madre.
L'afferrai forte per il braccio.
« Mi fai male! » esclamò. « Che c'è? »
Per l'eccitazione non riuscii a parlare. Col braccio teso le indicai l'Hanna dall'altra parte. Ma lei, che io serravo al polso, non parve comprendere quello che mi turbava. Mi guardò e scosse un po' irritata la testa, il suo viso mi apparve come una macchia bianca.
« Sì, davvero! » sentii dire mia madre. Dunque anche lei vedeva ciò che vedevo io.
E poi accadde quanto avevo temuto più di ogni altra
cosa: quell'altra Hanna si voltò e si diresse in fretta verso di noi, come se mi avesse cercato. Quando vide accanto a me la sua sosia che tenevo ancora stretta per il braccio, si fermò, tese le mani e gridò ridendo: « Jaina, tu? »
Le due si strinsero le mani come vecchie amiche che si incontrino di nuovo dopo lungo tempo, ed era come se ognuna di loro guardasse in uno specchio: due macchie bianche perfettamente uguali!
Volevo gridare: No, no, quella non è Jaina! Sei tu!... Invece le ginocchia mi tradirono, caddi a quattro zampe e belai... belai!
Le due donne si fissarono incerte, già un po' in dubbio. Le loro mani si staccarono.
I macellai avevano interrotto il loro canto e li vidi, curvi sotto i loro enormi carichi di carne, sbirciare a fronte bassa verso di noi.




MARITO e moglie vogliono visitare un'esposizione. Si sono fatti tutti belli, il loro morale è alto e sono pieni di aspettative.
Davanti all'ingresso del grande edificio senza finestre dove ha luogo l'esposizione c'è un giardinetto pubblico, un prato calpestato e disseminato di escrementi di cane, rettangolare, circondato da esili alberelli. Disposti su due file che conducono all'ingresso, si trovano alcuni cubi di cemento all'incirca delle dimensioni di una piccola edicola. Ognuno di questi cubi ha sulla facciata anteriore uno sportellino scorrevole, sopra il quale c'è scritto: BIGLIETTI.
La donna si siede su una panchina mentre l'uomo va al cubo più vicino e guarda attraverso lo sportello. Dentro è seduto un tizio incredibilmente grasso, con la testa calva e le bretelle, che dorme a bocca aperta. L'uomo bussa al vetro dapprima con cautela poi sempre più forte. Il grassone si sveglia, si asciuga la saliva dal mento e apre lo sportellino.
L'uomo deve chinarsi per farsi capire.
« Per favore, due adulti. Quanto costa? »
Il grassone guarda pensoso davanti a sé. Annuisce un paio di volte, richiude lo sportellino e si riaddormenta.
L'uomo aspetta un po' ma, visto che il grassone non si sveglia, fa cenno alla moglie di non spazientirsi e si dirige al successivo cubo di cemento.
Al suo interno vede una donna che dorme su una sedia. È così straordinariamente grassa da riempire quasi tutto il piccolo spazio. L'uomo si chiede come possa fare a entrare e uscire dalla porta, e si accorge allora che il cubo di cemento non ha affatto porte. Il piccolo sportellino scorrevole sembra essere l'unica apertura.
Egli bussa. Dopo un momento la donna si sveglia e apre.
« Due adulti, per favore », dice lui. « Quant'è? » « Sì », risponde lei, pigra.
L'uomo aspetta.
La donna chiude lo sportellino e si riaddormenta.
Egli non è disposto a scoraggiarsi tanto facilmente. Nel cubo successivo è seduto un giovane altrettanto grasso; nel quarto una vecchia non meno voluminosa in sottoveste e con una retina sopra le rade ciocche di capelli. Entrambi si svegliano solo dopo che lui ha bussato ripetutamente, aprono i loro sportellini, ascoltano la domanda, annuiscono, chiudono i finestrini e si riaddormentano.
Pieno di pazienza, l'uomo va da un cubo all'altro. Tranne che per l'enorme mole, quei tipi dietro gli sportelli non si somigliano affatto fra loro.
Dietro l'ultimo sportellino è seduta una bambina forse fra i sei e gli otto anni. In rapporto all'età e all'altezza è quasi ancora più grassa di tutti gli altri ospiti dei cubi. Il suo viso gonfio è di un pallore pastoso, fra i capelli sbiaditi porta un fiocco rosa.
l'uomo sta per bussare come a tutti i precedenti sportelli, quando lo sguardo gli cade su un foglio incollato sul vetro dall'interno.


NON DIRE COSA VUOI!
CHIEDI COSA MI MANCA!
L'uomo chiama con un cenno la moglie e insieme studiano l'avviso scritto con lapis copiativo dall'inesperta mano di un bambino.
La donna sospira.
« Oggi le cose non sono davvero così semplici. »
« No, davvero no », dice lui. « Forse è per questo che ci sono così pochi visitatori. A parte noi, non ho visto nessuno da quando siamo qui. »
Bussa, la bimba pallida e grassa si sveglia e apre lo sportellino scorrevole.
« Non ci sono porte », chiede l'uomo, « attraverso cui potete entrare e uscire? »
« No », risponde la bimba, e arrossisce un poco, come se avesse confessato qualcosa di cui vergognarsi.
Ora la donna s'intromette nel discorso:
« Allora hanno costruito il cubo intorno a voi? O come avete fatto a entrarci? »
La bambina grassa annuisce con aria triste.
« Ce lo hanno costruito intorno, ma non hanno calcolato che saremmo cresciuti. Infatti noi siamo una famiglia, anche se forse non sembra. »
« Ma allora non potete neppure parlare tra voi? » osserva la donna, compassionevole.
« Questo non è il peggio », risponde la bambina. « Tanto non faremmo che litigare. La cosa peggiore è che non possiamo mai andare all'esposizione, sebbene siamo quelli che vendono i biglietti d'ingresso. Senza di noi nessuno potrebbe entrare. »
« È così importante per te? » vuole sapere la donna.
« Voglio dire, tu sei ancora piccola... insomma, giovane. Credi che saresti in grado di capire tutto? »
« Capire... » la bimba fa spallucce. « Vorrei semplicemente sapere cosa c'è da vedere lì dentro. »
« Possiamo raccontartelo noi », propone la donna,
« quando usciamo. »
La bambina la guarda piena di gratitudine.
« Ma per farlo », interloquisce l'uomo, « dobbiamo prima entrare. Abbiamo bisogno di due biglietti, vero? »
« Sì », dice la bambina grassa, e di nuovo sembra già molto assonnata. Perciò l'uomo si affretta ad aggiungere:
« Che cosa faresti, se potessi muoverti liberamente? »
« Andrei dentro, per scoprire perché dobbiamo starcene chiusi qui. »
« Ma se tu potessi muoverti liberamente, non saresti più chiusa qui dentro e non avresti perciò motivo di andarci. »
La bimba grassa guarda l'uomo, sorpresa.
« È vero! » mormora. « Allora posso benissimo rimanere qui. Non ci avevo mai pensato. »
« Vedi? » esclama la donna con un sorriso cordiale. « Due biglietti, per favore! »
« E un catalogo! » aggiunge in fretta l'uomo.
« Due adulti... un catalogo », ripete la bambina grassa con tono professionale. « Ecco qua. »
Spinge i due biglietti e il catalogo fuori dello sportello, lo richiude senza aver preso denaro e si riaddormenta con un'espressione soddisfatta in viso.
L'uomo e la donna si guardano, tirano
contemporaneamente un sospiro di sollievo ed entrano nell'edificio senza finestre. Sopra la grande porta è scritto a grossi caratteri il titolo dell'esposizione: OGGETTI.
Nella prima sala si trovano davanti una pecora che se ne sta in un angolo col capo e le orecchie ciondoloni.
Egli controlla sul catalogo e trova il titolo Pecora. Lo legge a mezza voce.
« Sembra quasi vera, non ti pare? » chiede la donna,
inquieta.
La pecora bela piano, con tono afflitto. Lei si aggrappa al braccio del marito e sussurra:
« Andiamocene subito! »
Nella stanza seguente vedono uno spolverino dentro una vetrina; L'uomo consulta di nuovo il catalogo e trova il titolo Spolverino. E di nuovo lo legge a mezza voce.
La donna gira intorno alla vetrina e osserva il pezzo d'esposizione da ogni lato.
« Giusto! » esclama infine, annuendo con convinzione.
La stanza attigua è piena fino alle caviglie di sabbia del deserto. E naturalmente il titolo dell'opera è Sabbia del deserto.
L'attraversano con una certa fatica.
Il pezzo seguente è una fiaccola accesa, dal titolo Fiaccola accesa, piantata ritta dentro uno scaffale insieme con accette e scuri. Poi è la volta di una lunghissima rete dal titolo Rete, tesa obliquamente attraverso l'intera sala. Nella stanza successiva c'è un orologio a pendolo dal titolo Orologio a pendolo.
Qui l'uomo e la donna incontrano un altro visitatore. Si tratta di un collega del marito che li saluta
cordialmente. Ha con sé un gambero vivo che regge sotto il braccio sinistro come se fosse un oggetto poco maneggevole.
Dapprima parlano del più e del meno, poi il collega domanda di punto in bianco: « Vi piace l'esposizione? »
L'uomo e la donna si scambiano un'occhiata incerta e mormorano qualcosa come « un giudizio non ancora definitivo » e « appena appena arrivati ».
Il collega li interrompe.
« Allora mi dispiace », dice schiettamente ad alta voce, « mi dispiace davvero, ma devo confessare che questo tipo di arte a me non dice proprio niente. Trovo che è una pretesa! »
« Arte? » domanda l'uomo al colmo dello stupore. « Ah, questa è una mostra d'arte? »
Il collega lo fissa altrettanto perplesso.
« Perché, non lo è? Allora sono venuto alla mostra sbagliata! Ma che cos'è, dunque, questa? »
Si crea una breve pausa penosa, poi, tanto per dire qualcosa, il marito s'informa sul gambero, chiedendo se il collega abbia intenzione di cucinarselo.
« No, no! » risponde questi, quasi indignato. « La bestiola è venuta da me un paio di giorni fa, ma non posso lasciarla a casa perché mia moglie ha minacciato di buttarla dalla finestra appena la trova sola. Sostiene che questa innocente creaturina danneggia i mobili imbottiti. Naturalmente è una calunnia infondata con cui cerca soltanto di guastarmi la festa. Lei conosce mia moglie! In ogni caso sono costretto a portarmi sempre dietro l'animale anche se questa, a lungo andare, non è certo una soluzione. »
L'uomo e la donna assicurano al collega il loro rincrescimento per i fastidi subiti ed esprimono la loro speranza che tutto possa presto volgere al meglio. Poi lo salutano e riprendono la loro visita attraverso la mostra.
Esaminano accuratamente una grossa piccionaia di legno dal titolo Piccionaia. Si soffermano a lungo anche davanti a un fascio di candelotti di dinamite avvolti in una carta untuosa e tenuti insieme da nastro adesivo. Alcuni fili elettrici di diverso colore collegano il fascio a una sveglia ticchettante. Secondo il catalogo il titolo dell'opera è Bomba a orologeria.
« Carina », dice la donna un po' titubante. Il marito le fa « pss! » e si volta verso un paio di altri visitatori che stanno per l'appunto entrando nella sala, perché ha la sensazione che tale giudizio sia in qualche modo inopportuno.
Nella stanza successiva è dipinta sulla parete a grandi lettere rosse la parola VERDE. Stranamente questa volta il titolo non è Verde, come l'uomo aveva supposto, ma Lettere.
« Originale », mormora, e lei fa un cenno di assenso,aggiungendo:
« Ma azzeccato, no? »
Poi arrivano in una stanza dove c'è un odore nauseante la cui origine è in un grosso recipiente pieno di occhi di pesce. Il titolo è, come prevedibile, Occhi di pesce.
La donna non riesce a sopportare il tanfo, e così proseguono rapidi.
In mezzo alla sala seguente, sopra una pedana di legno, è posato un barattolo di latta. Si tratta di un
comunissimo barattolo di latta, cilindrico, chiuso da ogni lato, dal titolo Barattolo di latta.
Fermo lì di fronte, come in contemplazione, c'è un bambino piccolo tutto solo.
« Ehi, piccino! » fa la donna in tono materno, « i tuoi genitori ti hanno perso? »
Si china su di lui e si spaventa vedendo che il piccolo ha una lunga barba nera. Dopo qualche spiegazione viene fuori che si tratta di un critico famoso.
« Questo », afferma il critico, indicando con un minuscolo ditino il barattolo, « è un capolavoro! »
L'uomo non vuole lasciarsi sfuggire l'occasione di erudirsi e domanda:
« In base a quali criteri lei giudica un'opera? »
« Prima di tutto », spiega il piccoletto barbuto, « mi chiedo che cosa abbia voluto comunicare l'artista. Poi valuto se i mezzi che ha impiegato a tal fine sono adeguati o meno. Questo barattolo chiuso da ogni lato esprime l'assoluta impossibilità di qualsiasi tipo di comunicazione. Niente dall'interno può passare all'esterno, niente dall'esterno può raggiungere l'interno. L'artista ci comunica in maniera molto suggestiva che non esiste alcuna possibilità di comunicare. E il modo in cui ce lo comunica è del tutto convincente. »
« Non c'è forse una qualche contraddizione in tutto questo? » si azzarda a obiettare l'uomo con gran cautela.
« Certo! » risponde il piccoletto stizzito, « altrimenti non sarebbe un'opera d'arte! »
« Ma allora questa è davvero una mostra d'arte! » esclama la donna.
Il critico leva, irritato, gli occhi su di lei, ma subito
dopo si calma e replica: « Ciò è del tutto irrilevante ». L'uomo e la donna ringraziano per le preziose informazioni e proseguono in fretta. Nella sala successiva trovano una stampella dal titolo Stampella e un uovo accanto a una foglia appassita dal titolo Uovo e foglia, ma non riescono ad applicare a questi oggetti quanto hanno appena appreso dal critico. Anche un cannocchiale di pesante ottone, dal titolo Cannocchiale, non svela loro il proprio significato.
Un po' avviliti, passano davanti agli altri pezzi d'esposizione senza grande interesse. Si fermano ancora una volta di fronte a una frusta con la cordicella avvolta attorno al corto manico. Il titolo è Frusta da circo. Ma anche in questo caso non riescono a scoprire il significato recondito.
« Vieni! » esclama l'uomo. « Ho l'impressione che da qualche parte sia scoppiato un incendio. »
In effetti la stanza in cui si trovano si è riempita di fumo in brevissimo tempo. In quell'istante dalle nuvole grigie escono a passo spedito due medici con camice bianco e mascherina sterile alla bocca e al naso. Trasportano su una barella un pompiere la cui uniforme fumiga. Ha la gamba sinistra strappata all'altezza del ginocchio, il moncone è avvolto in bende macchiate di sangue.
L'uomo e la donna si premono fazzoletti sulla bocca a mo' di protezione e corrono verso l'uscita. La raggiungono con nasi fuligginosi e occhi arrossati. I loro abiti sono pieni di buchi e i capelli bruciacchiati..
Davanti al cubo di cemento in cui è la bambina grassa si fermano per tirare il fiato. La bambina apre lo
sportellino e l'uomo s'informa su che cosa sia realmente accaduto.
« È esplosa una bomba », risponde la bimba. « Non avete udito lo scoppio? »
« Per la verità non ci siamo accorti di nulla », dice l'uomo.
« È strano », aggiunge la donna, « c'è di nuovo un'altra guerra? »
Non ancora », spiega la bambina con aria un po' saputella « Per il momento è stato solo un attentato al Primo Ministro del Ndongu. »
« Ah », fa l'uomo, mentre si asciuga col fazzoletto sporco gli occhi lacrimosi. « Non sapevo che fosse qui »
« Infatti non è qui », risponde la bimba grassa, « grazie al cielo! Adesso si trova a un congresso a Karan-el-Zur. »
»
« Ah », esclama la donna. « Allora non è accaduto nient'altro di grave. »
« No, per fortuna no », replica la bambina. « Salvo che un postino è stato scagliato in aria. Ma naturalmente si è trattato solo di uno sbaglio. »
« Era un pompiere », rettifica l'uomo.
« No, un postino », insiste la bimba. « Ma la colpa è sua. Avrebbe dovuto essere in giro a recapitare lettere e non a bighellonare lì dentro. Perciò alla sua morte non viene dato alcun valore. »
Con queste parole la bimba grassa richiude lo sportellino scorrevole e si riaddormenta.
« Non ho ben capito perché avremmo dovuto riferirle quello che c'era da vedere », dice la donna un po' risentita. « Sa già tutto meglio di noi. »
Passano di fronte all'edificio senza finestre dal cui ingresso esce ancora fumo. I due medici stanno accostati al muro, lo percuotono leggermente e auscultano con i loro stetoscopi.
« Straordinario! » esclama uno di loro togliendosi gli auricolari. « L'esplosione dilaga all'interno del muro, pian piano, ma irrefrenabile, a quanto sembra. »
L'altro scuote la testa e mormora:
« Un effetto collaterale del tutto imprevedibile ». L'uomo e la donna si dirigono verso casa profondamente assorti nei loro pensieri. Dopo un po' egli dice: « Era un pompiere. Ne sono assolutamente sicuro ».
Lei fa un cenno di assenso, ed egli prosegue: « Perché oggi ci rendono tutto così difficile? »
La donna lo prende a braccetto, intreccia le dita fuligginose a quelle di lui e dice, assalita da un'improvvisa e inspiegabile tristezza:
« Forse non intendevano prendersela con noi. Di sicuro non erano mossi da cattive intenzioni. Però hai ragione tu, non dovrebbero fare queste storie ».




AL giovane medico era stato consentito di prendere posto in un angolo della stanza e di osservare, però gli avevano raccomandato di non parlare per alcun motivo con la paziente o di disturbare in altro modo. Così se ne stava a guardare, cogitabondo, il marchingegno, senza riuscire a capirne il senso.
Si trattava di una poltrona del tipo di quelle usate dai dentisti o dai barbieri, con l'unica differenza che la parte posteriore era avvitata a una barra nichelata fissata in verticale fra il pavimento e il soffitto. La poltrona scorreva senza posa su e giù lungo la barra. La paziente che vi era seduta, una donna un po' anziana, era grassissima, il suo viso pesantemente truccato era bianco-farina. Come in preda a una sorta di indicibile ossessione, si ficcava di continuo in bocca ogni sorta di cibo che le era stato preparato sul piano del carrello degli strumenti: fette di torta e di carne, salsicciotti, carciofi e piccoli tranci di pesce impanato. A ogni boccone che la donna inghiottiva, la sedia veniva spinta in alto per mezzo di un congegno a catapulta e ricadeva giù con il fracasso di un battipalo a vapore. Quanto più grosso era il boccone, tanto più in alto volava la poltrona assieme alla donna, come se dopo l'ingestione di cibo ella divenisse non più pesante ma, al contrario, più leggera.
Poiché a parte lui e la donna obesa sulla poltrona
nessun altro si trovava nella stanza e neppure gli sembrava probabile che per il momento qualcuno venisse a controllare, il giovane medico si arrischiò infine, nonostante il severo divieto, a chiedere a mezza voce: « Per quale motivo si sottopone a questo trattamento? »
Dovette ripetere la domanda un paio di volte, prima che la donna lo udisse e interrompesse per un istante la sua attività.
« Soffro di gravitazione progressiva », rispose, voltandosi a fatica verso di lui seduto quasi alle sue spalle. Soltanto mangiare continuamente può darmi sollievo. Se smetto anche solo per pochi secondi, come adesso, subito il mio peso aumenta. È un disturbo della forza di gravità terrestre, capisce? Con alcune ore di completo digiuno la mia impalcatura ossea crollerebbe sotto il peso della carne. Mi ripugna, ma soltanto mangiare continuamente mi dà sollievo. »
Veloce, come se ci avesse rimesso qualcosa, ingoiò un altro boccone e il gioco della poltrona balzante ricominciò da capo.
« Qui potranno certo aiutarla », mormorò il giovane medico. « Presto si sentirà meglio, vedrà. » Lo rattristò il fatto di non riuscire a provare alcuna compassione per la donna obesa, nonostante le sue evidenti sofferenze.
Visto che lei non rispondeva, dopo un poco egli si alzò, per esaminare meglio l'apparecchio. Vicino al pavimento, fra la barra nichelata e lo schienale della poltrona mobile, si trovava un congegno che attirò particolarmente la sua attenzione. Era un cilindro di vetro nel quale, come in una pompa pneumatica, uno
stantuffo si alzava e si abbassava al ritmo della poltrona, probabilmente per attenuarne l'impatto troppo violento al momento della ricaduta. All'interno di questo cilindro di vetro c'era un animale.
Il giovane medico non era in grado di classificarlo, ma senza dubbio era l'essere più orrendo che avesse mai visto. Somigliava a un ragno gigantesco perché aveva un corpo sferico e un gran numero di arti pelosi e neri, molto mobili, non rigidi e articolati come gli insetti, ma morbidi come quelli di un polpo. A ogni colpo ricevuto dallo stantuffo che si abbassava sibilando, le sue
innumerevoli estremità si arricciavano per il dolore e si aggrovigliavano fra loro. Anche se già mezzo tramortito, cercava ancora di fuggire dalla tremenda gabbia, ma non trovava via d'uscita.
Per un pezzo il giovane medico osservò quell'essere martoriato riflettendo sui motivi che potevano rendere necessario alleviare il tormento della paziente attraverso il tormento di quella creatura. Non che la bestia in sé e per sé suscitasse la sua compassione - era troppo ripugnante -, era piuttosto per una sua posizione di fondo, un certo imparziale rispetto per il diritto alla vita di ogni essere, comunque fosse fatto, che lui esecrava quell'inutile tortura. E poiché non vedeva alcuna ragione per tormentare in quel modo l'animale, alla fine gli fece pietà proprio a causa della sua incredibile bruttezza.
« La smetta! » gridò bruscamente alla donna grassa che seguitava a inghiottire boccone dopo boccone. « La smetta una buona volta! »
Ma la donna parve non udirlo, forse fece soltanto finta, in ogni caso non prestò alle sue parole la minima
attenzione e continuò a rimpinzarsi come un'ossessa.
D'un tratto il giovane medico fu colto da rabbia e sdegno. Afferrò il primo attrezzo nichelato che gli capitò a portata di mano e con colpi violenti fracassò il cilindro di vetro. Subito la poltrona si arrestò, senza che la donna vi facesse troppa attenzione. Macinando a due palmenti, si limitò a lanciare da sotto le ciglia uno sguardo pieno di rimprovero al giovane, ma non si permise di interrompere il proprio pasto.
La creatura simile a un ragno era intanto corsa alla porta. Il giovane medico l'aprì e la lasciò sgattaiolare fuori. Per un attimo gli si affacciò alla mente il pensiero che a causa di quel gesto impulsivo potesse incorrere in una bella punizione, ma non fu questo il motivo che lo spinse ad allontanarsi tanto velocemente dalla stanza. Di colpo era stato preso dalla curiosità, per lui stesso inspiegabile, di vedere dove l'animale andasse così di fretta... ora che poteva seguire il proprio impulso. Con sorprendente risolutezza esso corse sulle sue innumerevoli zampe per i corridoi dell'istituto, fino a uscire sulla strada notturna, dove continuò a correre, a correre, come se a tutti i costi volesse raggiungere nel più breve tempo possibile un determinato posto. Un po' curvo in avanti per non perderlo di vista nell'oscurità, il giovane medico lo seguì per silenziose viuzze e cortili interni, su ponti e su scale, sotto archi e attraverso i binari della ferrovia sopraelevata, finché esso si fermò nel vestibolo debolmente illuminato di un casamento dall'aspetto assai misero e non diede più segno di voler proseguire.
Il giovane medico si guardò intorno. Non riusciva a
immaginare che cosa avesse potuto attrarre l'animale in quel posto. Ma forse, si disse, si era ingannato, non era stato quel luogo particolare ad attirarlo, la sua fuga era semplicemente finita, il più lontano possibile dalla tremenda gabbia di vetro. Sì, senza dubbio le cose stavano così. Non fece nulla per spaventarlo di nuovo, rimase invece in assoluto silenzio e aspettò quello che sarebbe avvenuto.
Non era da molto che se ne stava lì, quando vide arrivare dall'estremità opposta del buio corridoio un secondo animale più o meno delle dimensioni del ragno, ma di aspetto completamente diverso. Pareva un grasso coleottero con possenti chele. Quasi nello stesso istante ne apparve un terzo un poco più grosso dei precedenti, che mostrava una certa somiglianza con una cavalletta. Immobili, rimasero ora l'uno accanto all'altro con le teste accostate, in modo che i loro corpi formavano, per così dire, una stella a tre raggi sul pavimento a piastrelle. La presenza dell'estraneo non sembrava turbarli minimamente.
Per lungo tempo non accadde altro, e il giovane medico cominciava a stupirsi della propria pazienza. Egli stesso non avrebbe saputo dire che cosa mantenesse viva la sua curiosità. Quando infine, più per senno che per volontà, aveva deciso di andarsene, sentì d'improvviso qualcosa.
Uno strano suono, appena percettibile, era sospeso nell'aria. Egli si rese conto che, senza farvi caso, lo aveva avvertito già da un pezzo. Però soltanto ora che vi prestava attenzione, udiva sempre più distinta e chiara una triade di dolcezza e purezza ineffabili, talmente bella che gli occhi gli si riempirono di lacrime
d'entusiasmo. Com'era possibile che quelle tre creature dall'aspetto così ripugnante facessero insieme della musica? Com'era possibile che esse, in quell'angolo sporco e buio, producessero gli accordi più puri che fosse dato di ascoltare? Dio mio, pensò il giovane medico estasiato, Dio mio, che incredibile fortuna!
Quando spuntò l'alba, la musica svanì, sebbene i tre animali restassero fermi al loro posto. Il giovane medico uscì, ancora un po' stordito, sulla strada. Nella prima luce del giorno gli apparve dinanzi un piccolo giardino pubblico con l'erba calpestata. Sulle panchine erano sedute una decina di persone con l'aria assorta, come se anche loro per tutta la notte avessero ascoltato la triade. Avevano facce da contadini, e ora, l'una dopo l'altra, alzarono gli occhi e, sorridenti, ma in un certo qual modo solenni, fecero col capo un cenno al giovane medico. Gli uomini avevano berretti di pelliccia e barba, le donne fazzoletti in testa, tutti portavano ampi camiciotti di tela di sacco grezza e non colorata. Quando il giovane si avvicinò, vide che i camiciotti erano completamente ricoperti di lettere, caratteri di un alfabeto che però lui non conosceva. Pensò che fossero cirillici.
« Nomi? » domandò, indicando le lettere. « Sono i vostri nomi? »
Gli interpellati annuirono sorridenti, ma come se non avessero capito la domanda e annuissero solo per cortesia.
« Da dove venite? » chiese il giovane medico, pronunciando ogni parola lentamente e nel modo più chiaro possibile.
Un vecchio con la barba bianca rispose, ma in una
lingua straniera. D'improvviso si senti cantare un gallo. Il giovane medico si guardò attorno meravigliato e i contadini risero bonariamente del suo stupore, mentre gli additavano una donna seduta in fondo alla loro fila. Il giovane medico le si avvicinò e vide che ella aveva aperto il proprio camiciotto in modo da scoprire il prosperoso seno. Lì aveva dipinta una preziosa icona, ricoperta in parte di oro in foglie.
Di nuovo si udì il roco grido del gallo e i contadini risero. La donna fece un cenno sdegnoso con la mano in direzione di quelli che ridevano, poi tirò fuori da sotto la panchina un sacco, lo aprì e lo porse, così aperto, al giovane medico. Questi vi gettò dentro uno sguardo e vide che era colmo a metà di pezzi di ghiaccio. Sopra c'era un gallo nudo, spennato e tuttavia ben vivo che, quando scorse il viso del giovane medico chino sopra di lui, sbatte i monconi delle ali e cantò per la terza volta.




DOPO la chiusura dell'ufficio l'uomo dagli occhi di pesce salì sulla terza vettura del numero 6. Il tram era strapieno come sempre a quell'ora. I passeggeri, per lo più uomini, avevano i baveri dei cappotti rialzati e i cappelli calcati sul viso. Faceva molto freddo quella sera, e l'uomo osservava con sguardo tondo e vuoto le nuvolette di fiato che si alzavano da molte bocche. Per un po' dovette stare in piedi, ma dopo la quinta fermata si liberò un posto davanti a lui e poté sedersi.
Fino al capolinea c'era ancora tempo. Tirò fuori un giornale dalla tasca interna del cappotto, lo spianò ben bene e si immerse nella lettura. Per un qualche motivo non riusciva però a concentrarsi a fondo sul testo. Non afferrava il senso di alcune frasi, neppure dopo averle lette più volte. Notò infine nelle pagine successive dapprima isolati, poi sempre più frequenti, errori di stampa. Evidentemente per uno sbaglio o per negligenza del compositore alcune parole o anche righe, perfino brani interi erano stampati in un alfabeto sconosciuto. Forse greco o cirillico. In ogni caso decise di scrivere quella sera stessa al riguardo una lettera di protesta alla redazione.
Il tragitto che doveva fare due volte al giorno, la mattina per l'andata e la sera per il ritorno, richiedeva in genere tre quarti d'ora. Tuttavia nelle giornate di cattivo tempo, quando il traffico era più congestionato,
poteva durare molto più a lungo. Ma questi ritardi non gli procuravano fastidio, anzi, gli erano graditi. Non tornava volentieri alla sua abitazione. Non ci si sentiva a casa propria. In realtà non si era mai sentito a casa propria da nessuna parte. Quando i suoi colleghi d'ufficio ne parlavano, lui stava ad ascoltare e tentava invano di farsene un'idea. Col passare del tempo si era comunque abituato a tale carenza, come a una lieve imperfezione fisica alla quale uno, bene o male, si adatta. Poiché viveva da solo, la sua giornata era irrimediabilmente finita appena chiudeva dietro di sé la porta della sua abitazione. Fintanto che si trovava sul tram, gli sembrava invece di avere ancora aperte le più svariate possibilità. Non pensava a niente di preciso, ogni sera era la stessa piccola assurda speranza e la stessa piccola, appena cosciente delusione.
Dopo qualche tempo alzò gli occhi dalla lettura. Lo stupì il fatto che quel giorno il tram si fosse svuotato così presto. Erano rimaste solo quattro persone... anzi, cinque, compreso lui stesso. Di fronte gli stavano sedute due donne grasse, un po' anziane, provviste di enormi borse della spesa che esse, squadrandosi con diffidenza, non erano evidentemente disposte a mollare per un istante. Entrambe erano imbacuccate in una quantità addirittura ridicola di scialli, golfini e sciarpe di lana, entrambe portavano guanti che lasciavano scoperte le punte delle dita. Per quel poco che si poteva scorgere dei loro visi arrossati sotto quella bardatura, si assomigliavano in maniera vistosa. Forse erano sorelle.
Poco più oltre era seduto un ometto dai vestiti assai miseri che guardava in basso davanti a sé e a intervalli
regolari scuoteva leggermente la testa, come se cercasse di capire qualcosa che invece non riusciva mai ad afferrare.
Accanto a lui sedeva un ragazzino gracile con un berretto alla marinara posato sui lunghi capelli biondi che canterellava, mentre con le dita faceva spioncini nello strato di ghiaccio del finestrino. D'un tratto sembrò aver notato qualcosa all'esterno perché cominciò, eccitato, a tirare l'ometto per la giacca, lo afferrò addirittura al viso, per conquistare la sua attenzione. Ci volle un po' perché l'uomo si concentrasse al punto di porgere orecchio al bambino, ascoltare l'importante notizia e fare un cenno di assenso. Il tram si arrestò e i due lasciarono, mano nella mano, la vettura.
All'approssimarsi della fermata successiva si alzarono anche le due donne e, fra sospiri e sbuffate, trascinarono le loro grosse borse della spesa fino alle uscite, una alla porta anteriore e l'altra alla posteriore, voltandosi ancora alcune volte a guardarsi torve, sebbene ciò avvenisse non senza problemi, data la loro mole.
L'uomo dagli occhi di pesce le seguì con lo sguardo. Col fiato aprì un buco nel ghiaccio sul finestrino, per vedere se avessero preso la stessa direzione, ma non riuscì a scorgerle da nessuna parte. Il tram ripartì, egli si appoggiò allo schienale e lasciò vagare lo sguardo nella vettura deserta.
Un attimo dopo gli venne in mente che poteva ancora salire un controllore. Si sbottonò il cappotto e cercò in tutte le tasche il suo abbonamento, ma non riuscì a trovarlo. Era la prima volta che gli capitava e non sapeva proprio come spiegarselo. Certo non era molto probabile che un controllore salisse in quell'ultimo tratto del percorso, ma se fosse accaduto sarebbe andato
incontro a delle seccature. La cosa lo mise in agitazione e di nuovo frugò in tutte le tasche. Alla fine si arrese e tentò di ricordare quando aveva avuto in mano per l'ultima volta il documento, ma invano.
Più tardi si accorse che il sole, che al momento della chiusura dell'ufficio stava giusto tramontando, non era ancora calato del tutto. Al contrario, era senza dubbio salito nuovamente per un breve tratto. Ne fu molto sorpreso.
Con le unghie grattò via gli arabeschi di ghiaccio dal finestrino e spiò fuori. Davanti agli occhi gli scorrevano ville e piccole, rustiche casette di legno circondate da ampi giardini in fiore. Su un'altalena vide bimbi con vestitini estivi o seminudi. L'uomo dagli occhi di pesce lo trovò sconsiderato. I bambini si sarebbero buscati una brutta malattia. In ufficio era scritto 23 gennaio. Ma gli alberi là fuori erano verdi e alcuni addirittura carichi di fiori. Ora attraversò il suo campo visivo un monumento attorniato da aiuole. Raffigurava un cervo in posizione di riposo. Al posto delle corna gli crescevano dalla fronte rami vivi e frondosi.
Erano già sedici anni che egli percorreva questo tratto, eppure mai prima di allora aveva notato quel monumento. Non avrebbe nemmeno saputo dire dove si trovava il tram in quell'istante. Si sbottonò il polsino del cappotto e dette un'occhiata all'orologio. Evidentemente le lancette erano tornate indietro. Avrebbe dovuto farlo aggiustare e rinunciarvi per alcuni giorni. La prospettiva gli risultava oltremodo penosa, poiché viveva secondo orari ben precisi. Si sfibbiò l'orologio, lo accostò all'orecchio e lo scosse. Dopo di che l'orologio si fermò.
Era chiaro che il conducente del tram cercava di recuperare il tempo perduto. Non rispettava più le fermate e già da un pezzo procedeva a velocità superiore alla norma. L'uomo dagli occhi di pesce lo trovò sconsiderato.
A poco a poco lo strato di ghiaccio sui finestrini cominciò a sciogliersi. Piccole lastre scivolavano lungo i vetri, si addossavano l'una all'altra e cadevano. Il tram attraversava ora un tratto di bosco. In mezzo a rigogliose piante ornamentali c'erano felci giganti, palme ed equiseti grandi come alberi. All'uomo dagli occhi di pesce balenò il sospetto di aver preso una linea sbagliata. Ma ciò era impossibile, perché alla fermata dov'era salito non transitavano altre linee se non la 6. Un errore era quindi da escludere. Si appoggiò allo schienale e aspettò.
Un nitrito selvaggio lo fece sobbalzare. Un cavallo bianco correva a lato della vettura, proprio sotto il suo finestrino. Era sellato e imbrigliato alla maniera orientale, la criniera e la coda svolazzavano nel vento. A volte scompariva per qualche istante dietro il fogliame e la boscaglia, ma sempre tornava ad accostarsi alla vettura in corsa. L'uomo dagli occhi di pesce non aveva fatto caso se l'animale agisse già da tempo in modo tanto strano, ritenne però che non fosse suo compito cercare di impedirlo. Ma visto che esso si ostinava nel suo comportamento, alla fine si alzò, andò alla piattaforma posteriore e tentò di scaricarlo facendo dei gesti. Dato che in questo modo non ottenne niente, provò perfino ad aprire la porta, sebbene quelle fossero porte automatiche che durante la corsa restavano chiuse. Invece, con sua gran meraviglia, dopo qualche tentativo
ci riuscì. Aria calda e umida soffiò dentro la vettura. Quando il cavallo bianco vide l'uomo sulla porta, si avvicinò subito al punto che egli dal predellino avrebbe potuto facilmente balzare in sella. L'animale sfiorava quasi la fiancata della vettura. L'uomo dagli occhi di pesce gli allungò un calcio, agitò le braccia e gridò: « Via! Sparisci! » Temeva che potesse capitargli qualcosa, ciò che avrebbe probabilmente determinato una lunga sosta del tram, finché la polizia non avesse accertato le circostanze del fatto, con la conseguenza che il suo rientro a casa avrebbe subito un ritardo di ore. Ma tutti i suoi sforzi ebbero come unico risultato che il cavallo cercò ancora più ostinatamente di avvicinarsi. Solo quando ebbe l'idea di mettersi due dita in bocca e di lanciare un acuto fischio, esso si arrestò di botto. Tenendosi alle maniglie, l'uomo si sporse ben in fuori e fece ancora in tempo a vedere l'animale, già assai lontano, appiattire le orecchie e, in preda al timor panico, mostrare i denti. Dopo di che egli tornò a sedersi al suo posto.
Intanto il paesaggio era mutato. Ora era una steppa bruciata. Qua e là, dai punti in cui l'erba ardeva ancora, salivano leggere nuvolette di fumo. L'aria sulla pianura tremolava per il gran caldo. Una volta scorse a una certa distanza un gruppo di detenuti, figure paurosamente scheletrite con abiti a strisce. Camminavano su alti trampoli, certo per evitare il suolo infocato. Egli si tolse il cappotto e lo posò con cura sullo schienale del sedile accanto. Il sole adesso era allo zenit. Il caldo asciutto gli seccava la bocca. Avrebbe bevuto volentieri qualcosa, ma doveva aspettare di essere a casa. Non poteva certo durare ancora a lungo.
Poco dopo il tram cominciò a procedere assai lentamente. Passava di fronte a un complesso industriale che pareva interminabile e non mostrava alcun segno di vita. Tutte le finestre dei fabbricati erano in frantumi, i tetti pieni di buchi o sprofondati. Di sicuro anche i binari del tram dovevano aver subito dei danni in questo tratto, a giudicare dal fragore quasi intollerabile e dal martellare delle ruote.
L'unica persona che l'uomo dagli occhi di pesce poté scorgere fra le rovine della fabbrica fu un vegliardo gigantesco, completamente nudo, con la barba raccolta in una treccia che gli scendeva quasi fino a terra. Stava sotto il sole accecante in un luogo rivestito di piastrelle bianche, fece un cenno al passeggero e con l'enorme indice gli additò più volte, con insistenza, una zucca che teneva sollevata nell'altra mano. Inoltre gridò qualcosa. Sembrava una parola di una sola sillaba che pronunciava arrotondando le labbra. Ma l'uomo dagli occhi di pesce non riuscì a sentirlo a causa del fracasso delle ruote.
Il tram accelerò di nuovo. Ora attraversava un deserto di sabbia, pietre e rocce isolate che parevano figure e macchine mezzo fuse. L'uomo dagli occhi di pesce si disse che certamente il tram aveva dovuto fare una deviazione. Una cosa del genere poteva ben accadere, se da qualche parte erano in corso lavori stradali. Intanto la sua sete era diventata intollerabile al punto che egli respirava con difficoltà. Boccheggiava. Pian piano scivolò in uno stato di semincoscienza.
Quando tornò in sé, l'aria si era fatta molto più fresca. Notò che il sole volgeva all'orizzonte... ma era chiaramente quello orientale. E d'improvviso fu scosso
da un singhiozzare senza lacrime. La sorda pazienza o indifferenza con cui finora aveva evitato di riconoscere quanto gli accadeva si era di colpo esaurita. Si disse a alta voce che quella sera avrebbe scritto subito un'energica lettera di protesta alla direzione dei mezzi di trasporto pubblici, ma non servì a nulla, lui stesso non ci credeva più. Tale ammissione lo riempì di terrore. Si sentì privo di difese, nudo in balia dell'incomprensibile e fu colto dal panico. Scattò in piedi e, barcollando per gli scossoni dovuti alla velocità pazzesca, andò alla piattaforma anteriore. Lì cercò di scorgere il conducente attraverso i vetri delle tre vetture precedenti, ma il vetro era coperto di polvere e non consentiva la vista. Egli gridò e strillò e picchiò con le mani contro i finestrini, senza però ottenere alcunché. Allora si attaccò al freno di emergenza, dato che in questo caso si sentiva autorizzato a farlo. Tirò con tutta la forza della disperazione, ma non accadde niente. Tirò ancora. Tirò finché il braccio non ce la fece più. Tirò con l'altro.
Dopo un po' una cieca rabbia s'impadronì di lui e la maniglia rossa gli rimase in mano. Piangendo forte come un bambino, la scaraventò sul pavimento. Per qualche istante restò lì, a fissare l'oggetto, e il suo respiro affannoso venne interrotto di tanto in tanto da un singhiozzare senza lacrime. A poco a poco si calmò.
Ritornò al suo posto e fissò, con sguardo tondo e vuoto, fuori del polveroso finestrino la desolata regione che gli scorreva dinanzi, piatta e monotona. L'unico essere vivente che vide dopo lungo tempo fu un uomo con una informe tuta argentea da astronauta, che si tirava dietro con una corda un vitello restio a seguirlo.
Entrambi gettavano lunghe ombre sulla pianura. Questo fu tutto.
Poi, d'un tratto, il tram iniziò a procedere molto lentamente, quasi a passo d'uomo. Egli si scosse dal suo cupo almanaccare, agguantò cappotto e cappello, corse alla piattaforma posteriore dove la porta era ancora aperta e saltò giù. Aveva sottovalutato la velocità del veicolo, inciampò in pietre, cadde e restò per alcuni istanti disteso al suolo. Poi gli venne in mente che in mezzo a quella piana sconfinata non sarebbe potuto tornare a casa a piedi. Anche a prescindere dalla distanza, non conosceva la strada e neppure la direzione da prendere. Si alzò e vide che il tram non si era ancora allontanato troppo. Pareva addirittura aver diminuito ancora la propria velocità. Si mise a correre, ma ora anche il veicolo accelerò. Solo con estrema fatica riuscì a raggiungere l'ultimo predellino e a tirarsi su sgambettando e già quasi trascinato. Strisciò a quattro zampe all'interno della vettura e rimase sdraiato sul lurido pavimento, respirando con affanno, il viso nascosto nel cavo del braccio.
Passò molto tempo prima che si sentisse abbastanza in forze da alzarsi. Si scosse con cura la polvere dalle ginocchia e dai gomiti. Il vestito era strappato in più punti, la gamba destra dei pantaloni impregnata di sangue all'altezza del ginocchio. Aveva perso cappotto e cappello.
Si mise sulla porta aperta e, a occhi chiusi, lasciò che il vento della corsa, che ora soffiava di nuovo forte, desse refrigerio al suo viso bagnato di sudore. Non si difendeva più. Sapeva di essersi mostrato consenziente
su tutto. Qualsiasi cosa accadesse, sarebbe stato lui ad averla voluta.
Il sole era tanto calato sull'orizzonte che, quando egli si sporse dalla porta, gli accecò la vista: levò una mano a schermarsi gli occhi e cercò di capire cosa fosse ciò verso cui il tram si stava dirigendo. In principio prese la striscia scura all'orizzonte per una lontana catena montuosa. In seguito credette di scorgere un temporale che avanzava e gioì al pensiero della pioggia imminente. Solo quando fu più vicino e vide che quella cosa scura si agitava e respirava, gli parve una foresta sconvolta dalla bufera o una parete di giganteschi tendaggi distesi sopra l'intero orizzonte che sventolavano su e giù lentamente, si gonfiavano, si intrecciavano, per poi disgiungersi.
Solo in ultimo vide i colori: torri di opale, che si innalzavano e scomparivano sempre di nuovo. Pareti orizzontali di trasparente madreperla, incandescenti e limpide come vetro fluido. E il bianco, il bianco che in un primo momento aveva scambiato per lampi nella cortina temporalesca!
Allora, d'improvviso, l'uomo dagli occhi di pesce capì verso che cosa si stava dirigendo... lo capì tanto bene, che il cuore gli si fermò:
Il mare.




IL palazzo del bordello sulla montagna risplendeva quella notte di un freddo bagliore. Migliaia e migliaia di serpenti di luce guizzavano e ovunque correvano festoni di lampadine che lo illuminavano come per una grande sagra e irradiavano il loro chiarore fino ai vicoli tetri e ai cortili poveri della città bassa - la città delle puttane - che altrimenti, priva di luci proprie, rimaneva al buio. Negli angoli sporchi, nei portoni, sulle porte delle case e nelle orbite delle finestre si pigiavano innumerevoli visi, spettrali nel riflesso, visi minuti ed enormi, gonfi o dalle guance incavate, che guardavano tutti in alto, verso le torri a forma di spugnola, le doppie cupole e i muri panciuti del gigantesco edificio.
Solo in pochi notarono il cavallo bianco dalla lunga criniera, fastosamente bardato e sellato, che saliva le strade che conducevano al palazzo. Procedeva lento e stanco come se avesse zoccoli di piombo. La testa gli ciondolava pesantemente. In sella stava seduto, curvo in avanti, un mendicante con una gamba sola, vestito di stracci, che portava in testa una corona di carta. Il suo viso era disfatto dalla pena.
« La nostra regina va a nozze », bisbigliarono taluni, « e quello è lo sposo. »
« Ma se ha già un marito », protestarono altri.
« Di questo non deve curarsi », dissero alcuni. « Non per niente è la regina delle puttane. »
E un paio osarono persino chiedere:
« Chi ha mai visto suo marito? Forse non esiste nemmeno »
Ma furono subito fatti tacere. Non era bene fare certi discorsi, la regina veniva a sapere tutto e con lei c'era poco da scherzare.
Quando l'uomo a cavallo giunse di fronte al portale dalla forma di una grande vulva, l'animale si fermò da solo. Nessuno si fece incontro al visitatore, nessun rumore si udì, l'edificio illuminato a giorno pareva come morto. Il mendicante si lasciò scivolare dalla sella, afferrò le due rudimentali grucce di legno appese al pomo e salì zoppicando gli scalini.
All'interno dell'edificio tutto era fatto di un materiale nero-grafite di una lucentezza metallica, ma le forme potevano essere sia di origine tecnica che organica. C'erano pareti e soffitti scanalati come un palato, e nel pavimento correvano nodosi funicoli di vene. C'erano stantuffi giganteschi che scivolavano lentamente avanti e indietro in tubi od orifizi, e altri, più piccoli, che eseguivano lo stesso movimento a folle velocità. Si sentiva un soffiare e un sordo gemere, talvolta anche un acuto cigolare e stridere. Su robuste barre lucide d'olio scorrevano su e giù manicotti azionati da bracci prensili molto articolati, e aggeggi simili a pompe pigiavano grossi pali dentro pozzi profondi. L'aria era pesante per l'odore di metallo caldo.
In altre stanze si trovavano panciuti spruzzatori che, a determinata distanza l'uno dall'altro, proiettavano densi liquidi in incavi o aperture ovali nel muro che poi si richiudevano di scatto. Particolari difficoltà procurò all'uomo con le grucce un lungo corridoio a forma di
tubo con le pareti e il pavimento scivolosi e in continuo movimento peristaltico. Infine si smarrì in una selva di nocchierute colonne che ininterrottamente si gonfiavano, si rizzavano e si contraevano di nuovo. L'uomo non sapeva più dove andare.
All'improvviso si trovò davanti una figura curva, grigia, un vecchio che lo scrutò ben bene a occhi socchiusi e chiese con voce rauca:
« Sei tu quello che è stato chiamato? »
Il mendicante assentì.
« Vieni! » disse il vecchio, e fece strada.
Dopo aver camminato a lungo giunsero in un'enorme sala rotonda, vuota e buia, al cui centro era, fortemente illuminato da riflettori, un podio simile a un ring, alto quasi quanto un uomo, anch'esso rotondo. Nel mezzo era posta una poltrona ginecologica nichelata su cui giaceva la regina delle puttane.
Nessuno mai aveva visto il suo viso, perché era coperto da una maschera d'acciaio. La sua testa era calva e anche il corpo nudo era completamente glabro. Le membra lisce come avorio, il tronco, il seno erano di immacolata bellezza, eppure la sua nudità produceva un effetto clinico, come quella di un corpo in una sala anatomica.
Quando i due furono davanti al podio, l'ometto grigio tossicchiò.
Lei sollevò la testa, le sue palpebre d'acciaio si aprirono, e osservò il mendicante con i suoi occhi di giada.
« Avvicinati! » esclamò pigramente. « Vieni su da me! »
La sua voce era carezzevole e morbida e inspiegabilmente artificiosa.
L'ometto grigio voleva aiutare il mendicante a salire sulla pedana, ma questi lo respinse con un gesto della mano e restò immobile.
« Diffidi ancora di me? » Lei si alzò e si portò al bordo del podio. Si fermò proprio di fronte al mendicante e guardò, da sopra il suo seno, in basso, verso di lui. L'odore di metallo caldo che emanava era inebriante.
« Chi ha fatto marcire in carcere la tua adorata moglie? » chiese con dolcezza.
« Tu, regina. »
« Chi ha corrotto i tuoi figli e li ha aizzati contro di te? »
« Tu, regina. »
« Chi ti ha fatto perdere la gamba? » continuò lei con tenerezza. « Chi ha fatto di te un mendicante? Chi ti ha spogliato di tutto e coperto di vergogna e di fango? »
« Sempre tu, regina. »
Lei annuì e rise sommessamente.
« E tuttavia diffidi ancora di me. »
Egli alzò la testa e la guardò negli occhi.
« Io ti ho procurato il tuo regno », disse piano, « io ti ho difesa dai tuoi nemici. Te ne ricordi? »
L'ometto grigio tossicchiò. Con un imperioso cenno del capo lei gli ingiunse di allontanarsi. Egli obbedì e scomparve silenzioso nell'oscurità della sala.
« Non me ne ricordo », disse lei, « ma è possibile sia andata così. In ogni caso non hai fatto altro il tuo dovere. »
Il mendicante scosse la testa.
« L'ho fatto, perché ho prestato un giuramento. Tanto
tempo fa, quando eravamo entrambi ancora giovani. »
« Non sei molto gentile », osservò lei, beffarda.
« Allora », proseguì lui, « credevo ancora in te. »
« E ora non credi più in me? »
« No. »
« Perché non hai rotto semplicemente il giuramento? »
« Su un giuramento non si può mercanteggiare. Ciò che ne deriva è volontà di Dio. »
« Si può mercanteggiare su tutto », disse lei. « Tutto può essere comprato e venduto. Tutto. Questo vale anche per Dio. Anche lui ha i suoi prezzi, no? E non sono davvero bassi. »
Rimasero per un momento in silenzio, poi lui chiese:
« Perché porti la maschera d'acciaio? Mostrami il tuo viso! »
Lei rise, come se le avesse fatto una proposta oscena. « Non sai che ho anch'io il mio pudore?.. anche se opposto al tuo. »
Saltò giù dal podio e gli si mise, vicinissima, di fronte. Poiché lui voltò il capo, gli alzò il mento con l'indice e lo costrinse a guardarla ancora negli occhi.
« Mi hanno detto che ieri sera hai chiesto l'elemosina sui gradini della chiesa di Nostra Signora. È vero? »
« È vero, regina. »
« Ho sentito che hai avuto molte offerte. A palate, non è cosi? L'intera città è accorsa. Poveri e ricchi, per regalarti qualcosa. »
Egli annuì.
« Quanto hai avuto? »
« Molto », rispose. « Verso sera erano cinque sacchi pieni »
« Oro e gioielli? »
« Anche »
La regina gli voltò d'improvviso le spalle e disse quasi impercettibile:
« Ti amano, vero? »
Egli tacque.
« Perché ti amano? Spiegamelo! »
« Non lo so. »
« Ma io lo so », fece lei, d'un tratto dura.
« Tu non lo dirai, regina... per generosità. »
« Generosità... » ripeté lei con stupore. Gli girò attorno e si fermò alle sue spalle.
« Tu pensi », gli sussurrò all'orecchio, « che dovrei lasciarti almeno quest'illusione. Hai paura che ti faccia fuori questa tua ultima colombella. La mia lingua è il coltello e ora le taglio la testa: hanno agito così dietro ordine. »
Lo abbracciò da dietro e premette il corpo nudo a quello di lui.
« No, no », bisbigliò, « non è vero. Ho mentito. Niente paura, non ti faccio niente. Sono stanca. Ho sete. Sono malata. Aiutami! Aiutami ancora una volta, l'hai giurato! »
« Nessuno può aiutarti, regina. Neppure tu stessa. »
D'un tratto lei si lasciò scivolare a terra, gli avvinghiò la gamba e gli coprì il piede e persino le grucce dei baci della sua bocca d'acciaio, mentre singhiozzava:
« Tu potresti farlo! Tu, soltanto tu puoi aiutarmi. Dammi qualcosa di quello che hai avuto in elemosina!
Spartiscilo con me! Abbi pietà! Ho tanto freddo. Sono così sola ».
Egli abbassò lo sguardo su di lei, voleva toccare la pelle d'avorio della sua testa calva, ma ritrasse la mano.
« Non essere crudele! Un tempo mi hai amato », urlò quasi lei. « Ti prego in ginocchio. Vedi, io non ho mai supplicato un uomo, ma ora ti supplico: dammi il regalo più piccolo, quello che ha meno valore fra i tanti che hai ricevuto. Lasciami partecipare una sola volta a qualcosa che viene dato gratuitamente! »
Per un po' non si udì altro che il suo singhiozzare convulso, poi l'uomo disse:
« Hai preso troppo, regina, perché tu possa ricevere ancora qualcosa. Ma ora non puoi prendermi più nulla, ne io posso darti più nulla, perché ho regalato tutto ».
Lei balzò in piedi e indietreggiò« A chi? »
Il mendicante sorrise, il suo viso disfatto parve quasi ringiovanire.
« Ai poveri. A chi, sennò? »
Lei si volse lentamente e sedette sul pavimento, le spalle al podio. Egli la osservò. Si rannicchiò in se stessa, come se avesse freddo e dondolò per un po' il busto avanti e indietro.
« I poveri », disse amaramente, « sempre questi tappabuchi dell'amore per il prossimo! Puoi spiegarmi che cosa hanno fatto per conquistarsi questo meraviglioso privilegio? Perché in cielo e in terra sono sempre loro i favoriti? Com'è facile per voi, per te, per Dio e per tutti quelli come voi! Come se non esistesse miseria più grande della povertà! Cosa si compreranno, i tuoi poveri, con quello che gli hai dato? Si riempiranno la
pancia per un giorno o due o andranno a ubriacarsi all'osteria più vicina, e il resto lo sperpereranno con le mie puttane. E allora sarà come se non avessero mai avuto nulla. Non lo sai che la povertà è insanabile? »
« Sì », rispose lui, « come una gamba che manca. »
Visto che lei non replicava, chiese:
« E tu che cosa ne avresti fatto? »
« Ah, io! » disse lei, e la sua voce risuonò piena d'ira. « Ma io sono soltanto una regina! Sai che cosa ne avrei fatto? Avrei tenuto la tua elemosina sul corpo, mi sarei riscaldata, essa avrebbe fatto luce nella mia oscurità »
« Povera regina! » esclamò lui.
La regina lo guardò, ma il suo viso era impenetrabile come la maschera che lei portava. Si alzò.
« Il freddo non è dentro di me », gridò nell'oscura sala. « Io sono una stella di lava incandescente, ma il cosmo intorno a me è vuoto e freddo. E tra le mie braccia tutto si riduce in cenere. »
L'eco rimandò le sue parole e le ripeté lontano, sempre più lontano. Il mendicante aspettò che si fosse spenta, quindi disse a voce bassa:
« Due cose le ho conservate. Puoi sceglierne una ». Lei si accostò esitante. Di nuovo lui fu avvolto dall'odore di metallo caldo.
« Fa' vedere! » sussurrò la regina.
« Ecco, la mia ciotola di legno per mendicare. » La tirò fuori dalla sua giacca rappezzata. « L'avevo persa molto tempo fa, ora me l'hanno riportata. »
Gliela porse col braccio teso. La ciotola era logora per l'uso. Sul bordo erano marcate a fuoco parole ormai
quasi illeggibili. La regina le decifrò: « Pazienza e umiltà ». Scosse la testa.
« Non fa per me. È tua. E l'altra? »
Il mendicante rimise via con cura la ciotola e prese da sotto la camicia una catenina con appeso un medaglione d'oro. Pareva un piccolo ostensorio al cui centro si trovava una perla di vetro di forma irregolare. Una goccia di liquido scuro tremolava al suo interno.
« Non so che cosa sia », disse il mendicante, « ma forse è miracoloso. »
Con un gesto brusco lei gli strappò la catenina dal collo, poi restò a lungo immobile a fissare la perla.
« Ecco finalmente la risposta », sussurrò. Quindi cominciò a ridacchiare, più forte, sempre più forte, finché non si scosse tutta come un' ossessa prorompendo in stridule risa e grida. Di colpo la sua risata si interruppe, si arrampicò nuovamente sul podio.
Il mendicante levò gli occhi verso di lei. « Perché ridi, regina? »
« Rido per uno scherzo di Dio! È un formidabile burlone, lo sapevi? Questa perla me la regalò un giorno il diavolo, quando ancora io credevo in lui. Allora ero una bambina. Cercai di liberarmene tanto tempo fa, la gettai dentro un vulcano in ebollizione. Ed ecco che ora torna a me... come a te la tua ciotola. »
« Che cos'è? »
Lei sedette sul suo trono automatico e si stiracchiò voluttuosamente.
« Per niente miracoloso, mio povero amico. Almeno non come credi tu. In questo piccolo involucro di vetro c'è qualcosa che non è di questo mondo e che perciò può distruggerlo. Questa minuscola goccia basta a
spegnere ogni forma di vita sulla terra. Tanto fragile è l'universo, che è sufficiente rompere questa perla. »
Fece ciondolare il medaglione appeso alla catenina, davanti a sé, osservandolo con occhi ardenti.
« Toglie la fertilità alla terra. Nessun ventre partorirà più e tutti i semi moriranno. E quando tutto sarà divenuto sterile, sparirà anche la razza umana. Forse resterà un ultimo uomo, forse diventerà molto vecchio, magari sarà proprio lui a scoprire finalmente il segreto dell'immortalità terrena. Sarà solo e invocherà la morte che però non verrà. E scriverà l'ultimo capitolo nel libro dell'umanità, che dirà così: Alla fine l'uomo distrusse il cielo e la terra. E la terra era desolata e vuota ed era buio nell'abisso. E l'ultimo uomo gridò: Sia la luce! Ma tutto rimase buio. Così una sera senza mattino divenne l'ultima notte. »
Fece roteare intorno al suo dito il medaglione alla catena. Per un momento ci fu silenzio, poi lei disse:
« Comunque ti ringrazio per il regalo ».
Il mendicante stramazzò a terra e restò lì, come morto. Lei lo osservò. La luce violenta dei riflettori scintillò sopra la sua maschera d'acciaio.
« Lo farai? » chiese lui, con i denti che gli battevano.
« Dato che ce l'ho », rispose lei, « sì. »
« Quando? »
« Quando sarà venuto il momento. »
« Qualcosa potrebbe trattenerti? »
Lei smise di giocherellare con la catenina e riflette un attimo. « Mi ami? » domandò poi.
« Questo è impossibile, nessuno può amarti. »
Lei si passò teneramente la mano sul corpo d'avorio. « E Dio? »
« Neppure Dio. Sennò non saresti quello che sei. » La regina fece udire una breve risata di scherno.
« Anche lui dunque è un amante così mediocre da rinunciare tanto presto? »
Il mendicante si strappò di testa la corona di carta e l'appallottolò.
« Stai bestemmiando Dio! »
« Non potrebbe essere invece », replicò lei, « che sia Dio a bestemmiare me? »
Il mendicante tentò con sforzo di rimettersi in piedi. Più volte gli scivolarono le grucce e ricadde a terra. Quando infine si fu alzato, disse:
« Ora vorrei congedarmi, regina ».
« Non ancora », rispose lei con dolcezza. « Voglio sapere ancora una cosa da te. Tu sei l'unico che mi abbia tenuto testa, anche adesso. Non sei sparito, sei rimasto realtà. Non ti sei ucciso. Come hai potuto? »
Egli non seppe che cosa rispondere. Infine disse: « Dio mi ha aiutato ».
« Sì, sì », fece lei un po' spazientita, « lo so che credi. Lo so che soffri. E so che io sono incapace di soffrire. Questo intendi dire, vero? Perciò voglio ora confidarti il mio segreto... soltanto a te. D'ora in poi lo porterai con te, e così io me ne libererò. Tremi? »
« Sei terribile, regina! »
« Non più terribile del tuo Dio », ribatte lei. « Ma ora congederò entrambi, te e lui, col quale ti ostini a scambiarti. Congederò questa città e questo regno dal mio letto nel quale essi si sono carbonizzati. Mi rivolgo a un amante migliore, più esperto, capace di soddisfare le mie esigenze. Abbraccerò il Nulla, me lo tirerò in grembo, ed esso non mi deluderà, poiché è infinito. Voi
potrete dimenticarvi di me, perché io mi dimenticherò di voi.
« Ascolta, la scorsa notte l'ho sognato. Si, ho sognato che Dio e il Diavolo lottavano per conquistarmi. Era uno spettacolo, credimi. Lottarono per tutta la notte mentre io dal mio palco stavo a guardare. Mi interessava veramente vedere chi di loro sarebbe stato il vincitore.
E chi credi che abbia avuto la meglio quando infine si è fatto giorno? Taci? Stai diventando saggio, mio povero amico!
Te lo dirò. Dio, naturalmente. »
Il mendicante annuì. La regina pure.
« Dio resta il vincitore. Era prevedibile, non è vero? » Fece una pausa. Poi concluse: « Solo che io non sapevo più quale dei due all'inizio fosse Dio. Uno di loro era soltanto l'immagine riflessa dell'altro. Ma ho dimenticato chi ».
Visto che il mendicante non rispondeva, lei aggiunse:
« Ora puoi andare ».
Rimasta sola, stette seduta per lungo tempo immobile e sollevò lo sguardo solo quando l'ometto curvo, vestito di grigio, apparve davanti a lei e tossicchiò.
« Spegni le luci! » gli ordinò. « Tutte! »
E dopo un breve momento di riflessione, aggiunse:
« E per sempre ».
« Che cosa vuoi fare? » domandò lui con voce roca. Lei rispose: « Aspettare ».
Il vecchietto grigio si fermò e la guardò.
« Che cosa? »
La regina non rispose. Allora lui si allontanò.
Una dopo l'altra si spensero tutte le lampade del bordello, finché esso e l'intera città delle puttane scomparvero nel buio.




IL giramondo decise di porre fine alla sua passeggiata per i vicoli della città portuale. E in questo modo pose fine anche al suo peregrinare attraverso i bassifondi e i palazzi di tutte le altre città, i paesi, gli accampamenti e gli eremi, i deserti e le foreste vergini della terra. Si sedette sugli sporchi gradini di pietra che conducevano alla porta di una casa alta e stretta - evidentemente un bordello cinese, a giudicare dalla lampada appesa sopra la porta -, congiunse le mani sul pomo del suo bastone da passeggio, ci appoggiò sopra il mento e fissò lo sguardo, senza vedere nulla, sulle auto e i tram che gli sfrecciavano davanti strepitando. Da un momento all'altro aveva perduto tutta la curiosità, tutta la voglia di continuare il suo lungo viaggio. Ormai non se ne riprometteva più niente.
Aveva visto tutti i prodigi e i misteri del mondo. Conosceva la colonna di pietra lunare che si libra nel tempio di Tiamat e le torri di vetro di Manhattan; aveva bevuto dai geyser di sangue nell'isola di Hod e parlato dell'essenza del destino con il signore cieco della biblioteca di Buenos Aires; aveva portato al dito l'anello della regina Mrabatan che conferisce il potere sui ricordi dell'umanità e aveva camminato - mai a nessuno straniero prima di lui era stato consentito di accedervi - sulle strade fiammeggianti della città di Eldis; lo avevano condotto in una portantina d'acciaio per le sale macchine
di Detroit, ed era riuscito a trascorrere una notte nei meandri della Cloaca Massima di Roma, senza smarrire la ragione in mezzo a tutte le apparizioni del passato e del futuro che lì combattono le loro spettrali battaglie notturne. Innumerevoli cose aveva visto, ma di tutti quei misteri non gli importava niente. Il suo non vi era compreso. E poiché il suo non l'aveva scoperto, anche tutti gli altri non gli avevano detto nulla.
Se non avesse intrapreso quel viaggio, gli sarebbe almeno rimasta l'illusione che da qualche parte al mondo ci fosse il segno che valeva per lui, che parlava in una lingua che lui solo capiva, che era la chiave per sciogliere l'enigma della sua esistenza. Adesso doveva invece ammettere che non c'era nulla di simile. Se era vero che la terra, come una lucida sfera d'argento, rifletteva soltanto le infinite forme e forze del cosmo, allora era uno sbaglio credere che patria dell'uomo fosse l'universo, perché non c'era niente che legasse la sua natura a quella universale. Se invece, fin dall'inizio e per sempre, egli era un estraneo in esso, allora l'universo era troppo piccolo... troppo, troppo piccolo!
Il viaggiatore si voltò trasalendo, perché una ragazza asiatica di carnagione scura con un semplice vestito grigioazzurro chiese, con voce bassa e umile, se le era consentito pregare l'eminente signore di accogliere i miseri servigi della sua indegna persona. Così dicendo, gli indicò con un gesto invitante della mano un piccolo carretto piatto che aveva spinto fuori della porta fin quasi sul bordo del gradino più alto. Il viaggiatore, un po' imbarazzato ma anche stizzito per lo spavento che la ragazza gli aveva provocato, spiegò bruscamente che
la visita a una casa di piacere non rientrava affatto nelle sue intenzioni.
La ragazza, minuta e di una gracilità di bambina, lo fissò con i suoi occhi di luna nuova, non parve aver capito, s'inchinò profondamente e così rimase davanti a lui, mentre, con fare timido, continuava a indicargli, invitante, i comodi cuscini finemente ricamati del suo carretto. Il viaggiatore, al quale dispiaceva di averla forse offesa, prese posto con un sospiro sul piccolo veicolo e si lasciò condurre all'interno della casa.
Cominciarono percorrendo un lungo vestibolo con le pareti, i pavimenti e i soffitti rivestiti di una lucida pietra venata di molti colori. I pezzi impiegati sembravano essere stati scelti con cura in base a una caratteristica comune, perché ovunque la fine marezzatura invitava la fantasia dell'osservatore a scorgere nelle forme casuali visi e ghigne, decorazioni floreali, Dei e Demoni, animali su trampoli, ballerine fiammeggianti, processioni di figure a cavallo di insetti, interi paesaggi di corpi, mari in tempesta pieni di navi e di mostri, palazzi di galaverna e città in rovina ricoperte di muschio gigante. L'attenzione del viaggiatore era però ancora bloccata a causa della sua profonda svogliatezza. Egli continuava a non vedere niente.
Ma a poco a poco, nelle sale successive, il suo animo sbarrato si risvegliò e cominciò, incerto e ancora incredulo, a decifrare l'alfabeto dei segni che lui stesso creava e pure non creava. Le forme, fino a quel momento piane, andarono sempre più assumendo una configurazione tridimensionale. Bizzarre masse di roccia, stalattiti e stalagmiti, radici, ceppi di alberi, rigagnoli di lava e grumi di metallo fuso erano sparsi tutt'intorno,
plasmati dalle forze spontanee della natura in modo sempre più perfetto fino a produrre le figure più sorprendenti e insieme più plausibili. Era difficile credere che tutto ciò fosse dovuto soltanto ai capricci del caso, tuttavia non c'era altra forza, salvo quella operante nell'osservatore stesso, a creare da quelle forme casuali le più straordinarie opere d'arte. Sempre più il viaggiatore sentiva svanire il confine fra il proprio mondo interiore e l'esterno, fra ciò che era lui stesso a creare e quello che realmente gli stava dinanzi, finché non riuscì più a distinguere l'uno dall'altro e iniziò ad avvertire il proprio animo come un qualcosa di esterno e gli oggetti esterni come il suo mondo interno. D'improvviso fu come se vedesse se stesso, la propria figura rannicchiata sopra il carretto, dall'interno e dall'esterno contemporaneamente, come se anch'essa non fosse altro che una forma dovuta al caso nella quale il suo spirito creativo scorgeva qualcosa di essenziale. Ma proprio grazie a ciò, questo qualcosa diveniva realtà. Egli ne fu spaventato, ma era uno spavento gradevole.
Dal momento in cui aveva finalmente iniziato a vedere, egli non avrebbe più saputo dire se quello che scorgeva dipendeva ancora da ciò che gli stava di fronte. Gli pareva piuttosto che, di sala in sala, gli oggetti esterni si facessero sempre più semplici e comuni, ma che la misteriosa forza, che in lui aveva spiegato le ali, sempre più si accrescesse e mutasse l'immagine di tutte le cose. Da una foglia appassita, un uovo bianco o una piuma d'uccello gli venivano incontro mondi su mondi ai quali era profondamente affine: il loro creatore e, al tempo stesso, la loro creatura. Comprese che soltanto allora, rinunciando a tutto quanto fino a quel momento
aveva chiamato realtà, cominciava ad accostarsi a essa.
Quando la sua silenziosa accompagnatrice lo condusse davanti a una parete di un blu-lapislazzuli scuro, quasi nero, gli si offrì la seguente vista: attraverso innumerevoli fenditure di diversa ampiezza che si aprivano nella parete si vedevano in rilievo altrettanti paesaggi in miniatura di indescrivibile grazia e leggiadria. C'erano montagne, laghi e cascate simili a nastri di taffettà blu, di cui vedeva realmente precipitare e spumeggiare le acque. Le minuscole cascate si gettavano e scorrevano sopra rocce in proporzione, quindi molto lentamente. Anche la luce degli scenari pareva mutare. Chiarore lunare, ora oscurato ora ravvivato dal passaggio di nubi, albe e sere violette. E là, dove la luce del sole colpiva la nebbiolina di acqua polverizzata, si formavano giochi di arcobaleni. Infine il viaggiatore si rese conto di sentire persino l'argentino mormorio e lo scroscio delle cascatelle, anche se certo molto lieve e lontano. Quanto più ascoltava quel suono, tanto più chiaramente percepiva una specie di musica, dolce e cristallina.
« Che cos'è? » chiese, e di nuovo si spaventò un poco, stavolta per la propria voce che gli parve alta e rozza.
La ragazza sorrise e rispose soavemente: « Quelli che ode l'eminente signore sono teneri germogli della sua futura esistenza ».
Il viaggiatore non comprese la risposta, ma non provò il bisogno di fare ulteriori domande, si abbandonò invece all'ascolto dei suoni che gli aleggiavano attorno. In una maniera per lui stesso del tutto nuova, il
suo cuore si colmò di una tenerezza quasi dolorosa, addirittura un'intensa gioia.
« Dunque », sussurrò, « soltanto io posso sentire questa musica? »
« A parte te e me, signore, nessun altro al mondo », rispose la ragazza, accostando le labbra al suo orecchio.
Lui la guardò. « Perché anche tu? »
« Io », disse abbassando lo sguardo la ragazza con voce tanto sommessa che egli la udì appena, « sono nessuno »
Molto più tardi si fermarono di fronte a una parete di un giallo-pallido, quasi bianco, sulla quale si trovavano quattro lastre rotonde, tre in fila l'una accanto all'altra, la quarta un po' più in alto.
La prima comunicò a colui che la osservava l'impressione di guardare dall'alto, a perpendicolo, verso uno specchio d'acqua agitata. Ininterrottamente scorrevano, come bianche linee irregolari, le argentee creste delle onde. Esse venivano tagliate di sbieco da un'anguilla nera che sembrava muoversi in avanti a serpentina, mentre invece restava sempre al centro dell'immagine. Stupito, il viaggiatore osservò la scena sempre mutevole e tuttavia sempre uguale. Voleva infine volgersi al disco seguente, quando dal primo uscì una voce bisbigliante, non proprio umana, ma quasi che dal fruscio delle onde si formassero delle parole:
« Mi ha creato il mare ».
L'inaspettato messaggio spaventò di nuovo un poco il viaggiatore. Sentiva che qualcosa nel profondo del suo animo ne aveva compreso il senso, solo che non riusciva a portare tale comprensione fino alla soglia della coscienza. Guardò la sua accompagnatrice con aria
interrogativa, ma costei si limitò a chinare il capo sorridendo. Egli intuì che a una domanda diretta non avrebbe avuto risposta, perciò anche lui tacque e rivolse la propria attenzione al secondo disco appeso alla destra del precedente.
Dapprima vi riconobbe qualcosa come la cima innevata di una montagna che verso il basso sfumava in sempre più densi vapori di nebbia. Soltanto a un più attento esame si avvide che la montagna era invece una testa umana rivolta verso di lui, ma col viso di poco abbassato. La parte superiore del capo era insolitamente alta e da entrambi i lati scendevano lunghi capelli candidi come la neve. Il viso sembrava tuttavia quello di un bambino, non si poteva dire se di un fanciullo odi una fanciulla. Il senso di calma che emanava da quel volto era così profondo che l'osservatore non volle turbarlo neppure col più lieve batter di ciglia. Rimase perciò immobile, finché, senza udire voce alcuna, percepì le parole:
« Io sono Vegliardo-Bambino ».
Di nuovo alla destra di quest'ultimo e alla sua stessa altezza si trovava il terzo disco. Quando il viaggiatore lo contemplò, ebbe l'impressione di guardare attraverso una parete di vetro un paesaggio sottomarino immerso nel chiarore dorato del crepuscolo con piante che fluttuavano qua e là. In primo piano vide la testa di un castoro che si dirigeva dal basso a sinistra verso l'alto a destra, mentre di tanto in tanto perle d'aria gli sgorgavano dalle narici, come se fosse quasi sul punto di emergere. Dopo che il viaggiatore ebbe osservato a lungo, in raccoglimento, anche questa scena, dall'antichissimo crepuscolo dorato percepì le parole:
« Io creerò il lago ».
Durante tutto il tempo trascorso in quella casa, a quanto pareva immensa, nel viaggiatore era avvenuto un cambiamento di cui solo adesso cominciava a rendersi conto. Ciò che più volte e anche ora, di fronte a quei dischi, aveva avvertito come una sorta di leggero timore era nel frattempo diventato una condizione permanente, un lieve rapimento. Era per lui una sensazione del tutto nuova e inusitata, eppure non esitò ad abbandonarvisi senza riserve, perché aveva l'impressione che qualcosa dentro di lui venisse, con estrema delicatezza, rimesso al suo posto e in equilibrio.
Il quarto disco si trovava anch' esso alla destra degli altri, ma più in alto di almeno l'intero diametro. Inoltre il suo bordo non era rotondo, ma ondulato e arcuato irregolarmente, senza un criterio, così almeno sembrava, come una pietra erosa. Sulla superficie non c'era nulla da vedere, era vuota.
Il viaggiatore l'osservò comunque con la stessa attenzione che aveva dedicato ai tre precedenti, ma l'unica cosa che riuscì a scorgere dopo parecchio tempo fu un non meglio definibile cambiamento statico, press'a poco come se del fumo si alzasse e si abbassasse avviluppandosi. Contemporaneamente fu colto da un certo timore, perché sentiva che la forza appena destatasi in lui veniva risucchiata dal vuoto di quell'immagine, e che essa vorticava come in un abisso senza fondo, del tutto impotente. Tuttavia non desistette e attese con pazienza che anche quel disco gli parlasse, ma invano. Alla fine afferrò la mano della ragazza, come ad aggrapparvisi, e sussurrò: « Perché tace? »
« Ha già parlato », rispose lei.
« Perché non l'ho sentito? »
« L'hai sentito, signore. Ma lo troverai soltanto nel tuo ricordo. »
« Ma io desidero sentirlo adesso! »
« Signore », disse la ragazza a bassissima voce, « come potrebbe accadere fintanto che tu lo desideri? Non avere desideri significa non fare differenza. Non fare differenza significa vedere l'invisibile e udire ciò che tace. Perché dunque vuoi rendermi infelice? »
Allora il viaggiatore provò vergogna, senza sapere bene perché.
« Il molto che tu sai da dove viene? » le domandò. La ragazza sorrise. « È dovuto al fatto che io vengo considerata, a mio disdoro, l'indegna proprietaria di questa raccolta di cose che non possono avere un proprietario. »
Il viaggiatore tacque e la guardò a lungo in tralice. Lei lo lasciò fare, o non se ne accorse, dato che teneva gli occhi abbassati. Egli ammirò le linee straordinariamente nobili della sua fronte, del suo naso, delle sue labbra. Soltanto ora avvertiva la rara bellezza dei suoi tratti. Dopo un po' lei si nascose il viso con la manica del vestito e pregò l'uomo di accordarle il permesso di mostrargli i suoi veri tesori, affermando che quanto egli finora aveva visto era stato appena degno della sua attenzione. Il viaggiatore si alzò dal piccolo carretto, s'inchinò profondamente, anche se in maniera un po' goffa, di fronte a lei, così come lei aveva fatto di fronte a lui, e rispose che, avendo la gentilissima signora dei segni e dei prodigi intenzione di abbassarsi a mostrare a lui, barbaro e incolto, gioielli ancora più riservati, egli avrebbe accettato l'offerta con rispetto e
gratitudine; solo doveva insistere per non essere più oltre portato da lei in quanto, sapendo di quale insigne signora fosse l'ospite, reputava già come il massimo, se pure immeritato onore il poterle camminare dietro o addirittura al fianco.
La ragazza contestò le sue affermazioni e s'inchinò, s'inchinò a propria volta e insistette, finché ebbe partita vinta. Il piccolo carretto si arrestò, la ragazza prese delicatamente per mano, solo con le punte delle dita, il suo ospite ben più alto di lei, e così, l'uno accanto all'altra, in silenzio, si diressero verso le sale più interne, incontro a continenti vergini e oceani immersi nella luce dell'alba.




QUELLA sera il vecchio navigante non ce la fece più a sopportare il vento ininterrotto. I suoi occhi erano quasi accecati dalla salsedine e dal mirabile splendore di orizzonti sempre lontani. Ma ciò non significava niente, dato che comunque non appariva mai terra in vista. Fu il vento incessante a far maturare in lui la decisione di lasciare per sempre la coffa.
Mise il cannocchiale di pesante ottone al sicuro fra il petto e la giacca e cominciò a scendere lungo l'interminabile albero. Di tanto in tanto si fermava per riprendere fiato e soffregarsi le dita intirizzite dal freddo, mentre dava un'occhiata verso il basso per vedere se già si scorgeva il ponte di coperta, ma le gigantesche vele gli impedivano la vista. Sotto, sopra e da ogni parte null'altro che tele bianche e gonfie, in mezzo gomene, cavi, funi, corde, spaghi e fili grossi o sottili, fra i quali cantava il vento. Il navigante non ricordava di aver visto durante la salita tutto quell'intrico di attrezzature. Ma in quel momento si rese conto di non rammentarsi affatto della salita; ma solo del lungo, solitario periodo trascorso in vedetta.
Come se ciò non bastasse, cominciava già a farsi buio rapidamente, e la sua discesa divenne più difficile. Considerando l'altezza alla quale ancora si trovava, non avrebbe raggiunto il ponte prima che fosse notte inoltrata. Probabilmente a quell'ora avrebbe trovato
soltanto una guardia. Il capitano, al quale pensava di presentare le proprie lagnanze, sarebbe stato a dormire già da un pezzo, in piedi, appoggiato alla porta della sua cabina, come si diceva, poiché soffriva di disturbi al cuore. E non voleva essere svegliato.
Il vecchio navigante cominciava a chiedersi sul serio se non sarebbe stato più opportuno rinviare al giorno dopo la visita al capitano e arrampicarsi di nuovo sulla coffa - che comunque già appariva lontanissima sopra di lui -, quando un inaspettato incontro interruppe il corso lento dei suoi pensieri.
Sopra il pennone della vela più grande, ballonzolando e oscillando e venendo incontro orizzontalmente al percorso verticale del navigante, si avvicinava un funambolo con una maglia colorata, molto aderente, una parrucca rossa con tre grotteschi ciuffi di capelli in testa e nelle mani un pesante e lungo bilanciere. Alle estremità dell'asta erano appese, come piatti di una bilancia, due grandi ceste contenenti grosse ali di uccello o di angelo. Il funambolo pareva del resto stupito di quell'incontro non meno del vecchio navigante.
Il caso volle che i loro percorsi s'incontrassero nel punto in cui il pennone incrociava l'albero e nessuno dei due poteva passare davanti all'altro. Uno di loro doveva cedere e lasciare il passo, ma nè l'uno nè l'altro diedero segno di volerlo fare.
« Da dove vieni? » chiese il navigante.
Il funambolo lo guardò per un momento, pensieroso, poi rispose: « Sono caduto dal cielo. Lei capisce, signore: non sono dunque un maestro ».*
[* Un proverbio tedesco dice: « Nessun maestro è mai caduto dal cielo ».]
« E dove stai andando? » domandò il navigante.
« Laggiù », rispose il funambolo, e indicò con un cenno del capo l'altra estremità del pennone. « E si può sapere da dove viene lei, caro signore? »
Il navigante additò col pollice, senza parlare, verso l'alto.
« Ah! » fece il funambolo. « Allora lei vorrà andare giù. »
« Sì », esclamò il navigante, d'un tratto di nuovo fermamente deciso a farlo. « Togliti di mezzo! »
« Sarebbe molto più ragionevole », notò il funambolo, « se fosse lei a farmi largo, carissimo signore. Lo vede, io non posso tornare indietro. »
In effetti era riuscito, chissà come, a portare il bilanciere dall'altra parte dell'albero, così che adesso lo cingeva con ambedue le braccia.
Il vecchio navigante, sospeso un poco più in alto, puntò il piede contro il petto del funambolo e spinse con tutte le forze, ma invano. Il funambolo ridacchiò.
« Ma via! » gridò. « La smetta con queste sciocchezze, caro signore! Che cosa vuol fare? »
« Uno di noi deve cedere », disse il vecchio navigante infuriato, « e non sarò certo io a farlo. »
« Neppure io », replicò il funambolo, sorridendo con grazia. « Allora che si fa? »
« Si lotta! » esclamò il vecchio navigante.
Si afferrarono e cominciarono a battersi. Ma di lì a poco si tenevano avvinghiati con una presa tanto ferrea che nessuno dei due poteva più fare il minimo movimento. Dopo essere rimasti per qualche istante aggrovigliati in quel modo, il funambolo, che aveva le labbra all'orecchio del navigante, iniziò a bisbigliare.
L'altro rispose, e così il sussurrio corse per un po' da una parte all'altra.
« Vuoi rompermi la schiena,* caro? »
« Mi piacerebbe, ma sei come una serpe. »
« Sei deluso? Tu cercavi un'altra croce. »
« Tutte le notti l'ho cercata in cielo. In centoquarantaquattro viaggi intorno al mondo. Non l'ho mai vista. »
« I tuoi occhi non erano forse abbastanza buoni? » « Io conosco tutte le stelle, le più grandi e le più piccole. Ma non la croce. Per questo voglio rompere la tua. »
« Perché vuoi tormentare me e te stesso? Non serve a niente. La verità è che ti sei sentito troppo pesante...lassù, solo nella coffa. Volevi un contrappeso in cielo. »
« E tu, che sei tanto bravo a indovinare, tu che cosa cerchi? »
« Io cerco l'equilibrio. »
« Lo hai perso? Ce l'avevi prima? »
« È il mio mestiere, quello di perderlo in continuazione per ritrovarlo sempre di nuovo. È questo che si chiama danzare. Possederlo per me sarebbe la fine. »
« Ma allora perché continuiamo a batterci? »
Si lasciarono andare contemporaneamente e si guardarono. Constatarono che durante la zuffa il navigante aveva strappato l'asta al funambolo, mentre a questi era rimasto fra le mani il cannocchiale di pesante ottone.
« Addio, fratello! » disse il funambolo ridendo, e cominciò a scendere lungo l'albero.
« Ehi, ma come ti chiami? » gli gridò dietro l'altro, ma il funambolo era già sparito. Così il vecchio navigante, il pesante bilanciere fra le mani, oscillando e ancora privo di destrezza, se la filò per il percorso orizzontale sopra il grande pennone e presto scomparve in mezzo alle gigantesche vele bianche.

[ La corrispondente parola tedesca das Kreuz ha come primo significato quello di « croce ». {N.d.T.}]




SOTTO un cielo nero si estende un paese inabitabile. Uno sconfinato deserto di crateri di bombe, foreste pietrificate, letti prosciugati di fiumi e sterminati cimiteri di auto.
In mezzo a questo deserto c'è una città senza uomini. Una città piena di ombre e di nere orbite di finestre, lo scheletro di una città.
In mezzo a questa città c'è una fiera, qui il silenzio è più profondo che mai. Le navicelle arrugginite della ruota gigante dondolano nel vento freddo e i cavallini della giostra sono grigi di polvere.
Nulla si ode, all'infuori del tonfo regolare di una gigantesca goccia d'acqua che cade, in continuazione, forte e insistente.
Oppure è il battito di un cuore? Ma se è un cuore, quello che batte, di chi è questo cuore? Di un uomo? Di un animale? Di un angelo, forse?
Al centro della fiera deserta c'è un bambino. Sta di fronte a un baraccone dipinto a colori vivaci con tantissime figure che promettono risate, commozione e prodigi. Dopo un po', visto che non c'è nessuno a impedirlo, il bambino si arrischia a entrare nel baraccone. Lì vede un paio di panche di legno tirate a lustro davanti a un sipario chiuso, tutto rattoppato, mosso leggermente nella penombra dalla corrente d'aria. All'improvviso fra le sue pieghe risplendono, come per magia, le luci della ribalta. Il bambino si siede proprio in fondo, sull'ultima panca, e aspetta.
Dopo un momento si ode una voce. Proviene, almeno così sembra, da dietro il sipario e risuona un po' rauca, come se da tempo non avesse parlato o come se parlasse per la prima volta.
« Signore e signori! » dice. « Il nostro spettacolo sta per incominciare, dobbiamo pregarvi però di avere ancora un poco di pazienza. Il nostro teatro non è come gli altri teatri, non si lascia dirigere meccanicamente come un piroscafo, somiglia piuttosto a un tre alberi, soggetto alle alte e basse maree, ai venti e alle correnti marine. E dovete convenire, signore e signori: in confronto alla brutale e ottusa risolutezza di un piroscafo, un tre alberi è bello e sensibile, anche se naturalmente un po' antiquato come tutto ciò che è nobile.
« Quanto vi mostreremo, signore e signori, non servirà a rendervi più intelligenti o più virtuosi, perché il nostro teatro non è ne una scuola nè una chiesa. La miseria del mondo non verrà alleviata dal nostro spettacolo... comunque nemmeno aumentata, e questo è già qualcosa! Noi non ci proponiamo alcun fine, neppure quello di imbrogliarvi. Noi non argomentiamo. Non vogliamo nè provare, nè denunciare, nè spiegare qualcosa. Sì, non vogliamo neppure convincervi della realtà del nostro spettacolo, qualora preferiate considerarlo frutto della fantasia. Potrebbe quasi sembrare che non abbiamo affatto bisogno di voi, signore e signori, ma non è così. »
Subentra una pausa durante la quale si sente sussurrare concitatamente dietro il sipario. Il bambino
sull'ultima panca ha poggiato il mento sulla mano e aspetta.
« Eccoci qua, dunque », prosegue la voce, ora di nuovo forte « voi là sotto e noi qui sopra. E voi, forti del diritto di chi ha pagato il biglietto d'ingresso, cominciate a poco a poco a chiedervi: perché e per che cosa?
Volete sapere, signore e signori, perché il nostro spettacolo non può ancora iniziare? Posso darvi la lieta notizia, nessuno ne ha colpa.
« Ciò che in tali circostanze presenta qualche difficoltà è l'incarnazione. Già da ore il nostro mago sta sudando le sette camicie, cercando con le più potenti formule magiche da Agrippa a Einstein di addensare la figura dietro questo sipario fino a renderla visibile.
Ciò nonostante, fino a questo momento essa è soltanto bidimensionale e sempre in pericolo di disgregarsi di colpo in un mucchietto di lettere. Ma forse ciò accade anche perché prima dev'essere fatto sparire quello che è rimasto dei nostri precedenti spettacoli e che ora ostruisce il palcoscenico. Abbiamo bisogno della vostra collaborazione, signore e signori. Se dunque vorrete essere così gentili da venirci in aiuto, noi vi ringraziamo di cuore a nome della direzione. Attenti ora, per favore.
« Il vostro compito consiste nel pensare il più intensamente possibile a un funambolo. Lo vedete? Là, in alto, fra due alberi, rilucente, dai piedi sensibili, con niente sotto di sé all'infuori di un pezzetto di corda oscillante e l'abisso. No, signore e signori, nessuna rete! Il dovere di un vero funambolo consiste nel rischiare la pelle. La propria pelle, si capisce, dato che un funambolo non è un generale.
« Ma per che cosa?
« Egli vuole andare da un capo all'altro della corda tesa. Potrebbe farlo anche comodamente e senza pericolo restando a terra, il risultato sarebbe lo stesso... ma no, deve scegliere a ogni costo il percorso sopra la corda sospesa. Perché?
« Non certo per la paga, è troppo misera. La sua audacia non reca vantaggio a nessuno, tanto meno a lui stesso. L'ammirazione del pubblico conta poco, se confrontata al rischio di una caduta. E inoltre un vero funambolo compie il suo dovere anche se nessuno lo guarda.
« E per lui è davvero così importante andare da un capo all'altro della corda? I due capi non possono addirittura essere scambiati? Per quale motivo allora, pensateci bene, per favore, egli rischia, sempre e poi sempre, la sua vita già di per sé tanto precaria? »
A questo punto il sipario logoro, pieno di toppe colorate, comincia lentamente, a strappi e cigolando, ad aprirsi.
« Bravo! » grida la voce, « non sappiamo chi di voi laggiù abbia appena pensato la risposta esatta, ma grazie a lui l'incarnazione è riuscita. Allez-hop! Et voi là! Eccolo! »
Sul palcoscenico, nella semioscurità, c'è un uomo che porta un grande, singolare cappello. Indica con la mano sinistra verso l'alto e con la destra in basso. Resta così immobile per qualche istante. Poi d'un tratto si presenta alla ribalta, si toglie il cappello e si inchina profondamente, quasi fino a terra, di fronte al bambino seduto sull'ultima panca.
« Grazie! » dice. « Sei stato molto bravo. »
« Chi sei? » domanda il bimbo.
« Il bagatto », risponde l'uomo; si siede sulla ribalta e ciondola le gambe.
« E che cosa sei? » chiede il bambino.
« Un mago », risponde l'uomo, « e un giocoliere. Tutte e due le cose. »
« E come ti chiami? » vuole sapere il bambino.
« Ho un sacco di nomi », risponde il bagatto, « ma all'inizio mi chiamo Fine. » *
« È un nome buffo », esclama il bimbo, e ride.
« Sì », dice il bagatto. « E tu come ti chiami? »
« Io mi chiamo soltanto bambino », risponde il bambino, in imbarazzo.
« Grazie comunque », dice l'uomo col cappello. « Grazie per avermi immaginato. In questo modo posso ora presentarmi a te. E con questo la recita è finita. » ** Gli strizza l'occhio.
« Di già? » domanda il bambino. « E ora che facciamo? »
« Ora », risponde l'uomo sulla ribalta, mentre accavalla le gambe, « ora cominciamo a fare qualcosa. »
« Posso restare con te? » chiede il bimbo.
« Qualcuno ti cercherà », osserva il bagatto, serio. Il bambino scuote la testa.
« Dove abiti? » s'informa il bagatto.
« Non si può più abitare da nessuna parte », risponde il bambino, « almeno io no. »
« Allora neppure io », dice il bagatto, pensieroso.
« Dunque che facciamo? »
« Potremmo andarcene insieme », propone il bambino « a cercare un mondo nuovo dove tu e io possiamo abitare. »
« Buona idea! » esclama il bagatto, rimettendosi in testa il suo strano, grosso cappello. « E se non lo troviamo, ne creiamo uno con la magia. »
« Puoi farlo? » chiede il bambino.
« Non ho ancora provato », risponde il bagatto, « ma se tu mi aiuti... Del resto penso che anche a te spetti un nome.
Ti chiamerò Michael. »
« Grazie », dice il bambino, e sorride. « Ora siamo pari »
Quindi lasciano il baraccone, la fiera, la città. Sotto il cielo nero si dirigono, intensamente assorti a parlare fra loro, verso l'orizzonte e si fanno più piccoli, sempre più piccoli. Si tengono per mano, e non si sa bene:
chi dei due guida l'altro?
[ * In tedesco Ende, come il cognome dell'autore. {N.d.T.}]
[ ** Gioco di parole intraducibile tra vorgestellt {immaginato}, vorstellen {presentarsi scomponibile e ricomponibile} e Vorstellung {recita, rappresentazione}. {N.d.T.} ]




MANO nella mano, due scendono lungo una strada: una figura alta e scura che ne guida una piccola e chiara. La figura alta è un ginn in una lunga tonaca bruna. Il suo viso di rame, ricoperto di una patina verde, spunta malinconico da sotto il cappuccio e pare quello di una vecchissima scimmia. La sua mano è nera e squamosa, le dita simili ad artigli sono deformate, tuttavia stringono dolcemente un'altra mano, una mano piccola, delicata e bianca, quella di un bambino, un gracile fanciulletto che porta un vestito bianco alla marinara con i pantaloni al ginocchio e neri stivaletti a bottoni. Il berretto rotondo, spostato all'indietro, incornicia il suo volto infantile come un'aureola.
La strada per la quale i due camminano senza alcuna fretta corre dritta e sempre in discesa fino all'orizzonte. L'intera superficie della terra è inclinata. Le file degli edifici a destra e a sinistra della strada mostrano facciate che una volta dovevano essere state magnifiche, ornate di balaustre e figure, ma che ormai, già da tempo, sono in rovina, disfatte dal fungo delle case e coperte da chiazze di muffa. Un odore di putredine e sterco, miasmi sono sospesi nell'aria tersa. Nel silenzio si ode soltanto l'eco dei passi del bambino. Il ginn non fa alcun rumore, scivola a fianco del fanciullo come un'alta colonna di insetti che turbinano.
Il fanciullo si ferma e dice: « Torniamo indietro! Non ho più voglia ».
Il ginn annuisce, triste. « Si, non è davvero divertente qui. Ma noi non siamo venuti per tuo divertimento. Tu devi andare a scuola... e questa è la tua prima ora di lezione. »
« Ma io non voglio! » grida il bimbo, caparbio.
« voglio andarmene da qui. »
Sulla tumida fronte del ginn s'ingrossa una vena.
« Noi restiamo! » dice con voce bronzea. Poi, dopo un attimo, aggiunge più dolcemente: « Questa volta non durerà a lungo ».
Stupito, il fanciullo inarca le sopracciglia, che prendono l'aspetto di un uccello in volo, e squadra il viso del suo gigantesco accompagnatore. « Non vuoi obbedirmi? » domanda incredulo. « Non sai chi sono io? Non hai paura di me? »
« Se avessi paura, avrei anche speranza », mormora il ginn, e il metallo della sua voce risuona incrinato.
« No, non ho paura di te, piccolo. Di quello che sei, non ancora; e di quello che sarai, non più. Quello infatti mi darà ragione. »
» vuole sapere il bimbo. « Quando avverrà? » vuole sapere il bimbo. « Quando sarò grande? »
Sullo sconsolato viso di scimmia si disegna quasi un sorriso. « Ce ne vuole ancora del tempo, piccolo. Ancora tante vite e tante morti, perché tu diventi davvero grande. »
Prosegue, simile a una nuvola di fumo, e il fanciullo gli trotterella a fianco, assorto nei propri pensieri. Dopo un lungo silenzio la voce di bambino chiede: « E tu rimarrai sempre nel male fino ad allora? »
Il ginn si raddoppia, i suoi contorni si dissolvono per un momento, poi ricompone la propria figura e resta fermo di fronte al fanciullo come un blocco di impenetrabile oscurità.
« Male? » domanda con labbra pesanti. « Male? Che cos'è? Forse un giorno potrai insegnarmelo. Ma prima devi farlo ben tuo, per poterlo trasformare. È un lavoro lungo e difficile quello che ti attende, piccolo. Non è un gioco da ragazzi. »
« Per te forse », ribatte pronto il bambino. « Per me è facile. Non è niente, è soltanto un errore che va corretto. Tutto sarebbe in ordine senza il male. »
Il ginn alza lentamente le spalle nebulose, come se dovesse sollevare un peso enorme. « Molte Cose sono necessarie! » ronza adirato dallo sciame d'insetti. « Chissà quante! »
« E va be'! » esclama il bambino conciliante, « proseguiamo! »
« No », replica il ginn, « siamo arrivati. »
Il fanciullo si guarda intorno incuriosito. « Aspettiamo qualcuno? »
« Sì », mormora il ginn, « aspettiamo qualcuno. »
« Dobbiamo aiutarlo? » chiede il bambino, pieno di zelo, e subito si corregge: « Devo aiutarlo? »
Il ginn lo osserva da sotto palpebre grevi di millenni. « Non è così semplice come pensi. »
« No », dice il bimbo, un po' imbarazzato. « Lo So bene che non è facile aiutare qualcuno. »
Il ginn scuote la testa, solenne come un albero nel vento. « Sei tu », stormisce la sua voce, « sei tu, piccolo, quello che deve essere aiutato. »
Il fanciullo arrossisce violentemente. « Io non sento
alcun bisogno di aiuto », dice in fretta, pieno d'orgoglio, folgorando con un'occhiata il gigante.
Il gigante sospira, è come se magma fuso facesse bollicine. « Lo vedi, piccolo, lo vedi che ancora capisci ben poco? »
« E chi dovrebbe aiutarmi? » vuole sapere il fanciullo. « E perché? »
« Tutti », risponde il ginn, « tutti quelli che tu aiuterai un giorno. Perché dovrai ringraziare loro se sarai capace di farlo. »
« Anche te? »
« Forse sì, penso di sì. »
Il fanciulletto si irrigidisce. « A te non voglio dover niente. Non voglio, capisci? »
Dall'interno del fumo nero giunge una risata, è come se legna fresca crepitasse e gemesse nel fuoco.
« Tu vuoi, invece, tu vuoi! Come potrei guidarti, altrimenti? »
Adesso il bambino si spazientisce sul serio. « Ma allora chi aspettiamo? Vuoi prendermi in giro? Tu sei già qui! Chi devo aspettare ancora? »
Il ginn si passa stancamente la mano artigliata sopra il viso di rame. È come un rumore di vetro calpestato. « Calma, mio piccolo signore, calma! Io non sono qui. O credi davvero che potrei condurti per mano senza che il tuo caldo cuoricino si raggelasse? Ma ora smetti di fare domande in continuazione e sta' attento a ciò che accade. Per questa volta non ti viene chiesto di più. »
E il ginn si abbassa il cappuccio sul volto: sembra ora un abete coperto di neve nera.
D'un tratto si ode un urlo rauco, quasi un ululato,
che si spegne pian piano, straziante come quello di un grosso cane che pianga la morte del suo padrone. Il fanciullo rabbrividisce e si guarda intorno. Gli pare che sia venuto da una delle case accanto, ma a causa di una strana eco che vaga qua e là non riesce a capire bene quale sia. Quando lentamente si volta, scorge dietro di sé una figura grigia, un po' curva, del cui arrivo non si era accorto. Tira un respiro di sollievo, perché ha tutta l'aria di trattarsi soltanto di un vecchio spazzino che, appoggiato alla sua ramazza, ha ascoltato i discorsi dei due visitatori. Quando lo sguardo del bimbo incontra il suo, sorride, fa un cenno col capo e si tocca con le dita la tesa del berretto.
« Buon mattino! » esclama con voce roca. E visto che il fanciullo non risponde e lo squadra invece ben bene, prosegue: « Non è così, non è davvero un bel mattino quello in cui sei venuto? »
Il fanciullo continua a non rispondere e si volta a guardare il ginn, ma questi si limita a starsene lì, gigantesco, oscillando leggermente come un vortice di oscurità.
« D'altronde », di nuovo si fa sentire la voce frusciante dell'ometto grigio, « per quanto mi possa ricordare, qui si è sempre avuto un mattino come questo. E anche ora è lo stesso mattino di sempre. Qui esiste un'unica ora, quella prima dell'alba. Non è mai mezzogiorno, mai sera, mai notte. Queste ore del giorno qui non sono state ancora inventate. È l'ora più lunga, un pezzo d'eternità, ecco perché. » Ride un poco o fors'anche tossisce. Scruta la coppia tanto disuguale con occhi stretti e segnati da mille rughe.
« Questo bimbo », chiede, improvvisamente brusco,
rivolto al ginn, « perché te lo sei trascinato dietro, qui da noi, nella strada delle puttane? »
Ma il ginn resta muto, come una torre d'impietrita malinconia.
« E a te che importa? » grida il bambino con arroganza. « Credi forse che io non sappia chi sono le puttane? Lo so già da un pezzo! »
« Ah sì? » Lo spazzino china la testa e si appoggia pesantemente alla scopa. « Allora si può sentire che cosa sai? »
« Sono donne », spiega il fanciullo, « che vendono l'amore in cambio di denaro. E questa è una cosa molto brutta.»
Lo spazzino annuisce brevemente. « Guarda, guarda! » Poi, con un lieve sorriso amaro, continua: « Ma forse questo non sarebbe poi così brutto, bambino mio. Vedi, qui non c'è denaro... e neppure amore. Le consolatrici nella nostra strada vendono qualcos'altro e ricevono in cambio qualcos'altro, ecco com'è ». E di nuovo tossisce o ride piano.
Il fanciullo è stupito e si avvicina allo spazzino di due, tre cauti passi. « Che cosa, allora? »
Il vecchio grigio riflette un attimo su come fare a spiegarglielo. Infine ha trovato e chiede: « Certamente conosci un sacco di favole, vero? »
« Le conosco tutte », risponde il bambino, pieno di orgoglio, « tutte quelle che esistono. C'è uno che me le racconta e lui sa tutte le fiabe del mondo. »
« Questo è bello. E naturalmente sai pure che sono vere »
« Sicuro! »
Lo spazzino annuisce ancora una volta. « Benone. Io
non dico che non siano vere. Se uno sa raccontarle nel modo giusto sono tutte vere. Però, vedi, sono soltanto e sempre le storie dei vincitori, finiscono sempre bene, in una maniera o nell'altra. Ma anche le storie degli sconfitti sono vere, solo che vengono dimenticate alla svelta. Forse perché gli stessi sconfitti le dimenticano. Sì, ecco perché. »
« Gli sconfitti? » chiede il bambino, avvicinandosi ancora un poco. « Non ne ho mai sentito parlare! Esistono davvero? »
Lo spazzino allunga la mano per carezzare la guancia del fanciullo, ma questi si ritrae con un movimento brusco. Lo spazzino sorride come per chiedere scusa.
« Ho l'impressione, nonostante tutto », dice con voce roca, « che in realtà tu conosca una storia sola, bambino mio, soltanto la storia del centesimo principe, colui che riesce a sciogliere l'enigma, ma non quella dei novantanove prima di lui, che vanno in rovina perché a loro non è andata bene. E quasi tutte le loro storie terminano qui, in questa strada. »
Il vecchio volge il capo e guarda in lontananza, là dove le file delle case convergono in un punto. « A ogni modo, io non ho ancora visto nessuno, di quelli arrivati qui, raggiungere l'altra estremità della strada, perché essa cresce sotto i loro piedi e diventa tanto più lunga quanto più lungo è il cammino che hanno già percorso. Per questo, alla fine, tutti rimangono lì dove si trovano, in questa casa o nell'altra, ci si ambientano e vivono assieme alle consolatrici... finché vivono. »
« Anche tu? » domanda il bambino, spaventato.
Lo spazzino non dà risposta. Ride soltanto o tossisce brevemente, ed è come se qualcosa si spezzasse. Dopo
un attimo dice: « Ma in realtà questa strada è molto corta. È lunga al massimo una vita. Puoi ben credermi».
In quell'istante il fanciullo avverte, pesante come un'ombra, la branca del ginn sopra la spalla. Vorrebbe girarsi verso di lui, ma il ginn gli tiene la testa e gli volta la faccia nella direzione dalla quale sono venuti.
Là si scorge, ancora molto lontana, una figura. Come una marionetta mossa da mani inesperte, scende barcollando lungo la strada, si piega sulle ginocchia, si rialza e continua a vacillare. Di tanto in tanto, china in avanti, si appoggia con una mano al muro di una casa e così resta per un po', come per riprendere fiato. Sebbene strada sia in discesa, ogni passo sembra costarle una gran fatica.
« Guarda, guarda! » bisbiglia la voce roca. « Eccone un altro. »
E ora in un baleno la strada e le case si animano. Si aprono le porte e qua e là anche qualche finestra.
Ovunque appaiono femmine che fissano il nuovo arrivato. Si somigliano tanto fra loro che sembra si tratti di una sola donna la cui immagine si ripeta in una
serie infinita di specchi. Questa donna, che è tutte loro, porta un abito di stoffa grigia, putrida, che aderisce al suo corpo scarnito lasciando scoperto il seno flaccido e minuto dai capezzoli lunghi come quelli di animali. Capelli di un grigio smorto attorniano la testa e le spalle come fumo, e nel viso bianco come la calce la bocca spicca simile a una grossa ferita nera.
La figura barcollante si è avvicinata. Si tratta di un uomo con una informe tuta argentea da astronauta. Solo il casco ha gettato via, o forse l'ha perduto. I suoi
capelli sbiaditi e radi sono tutti arruffati. I suoi occhi senza ciglia sono rossi e il viso è come gonfio per via di un sorriso forzato. Quando scorge il gruppo dei tre in attesa in mezzo alla strada, si ferma titubante. Solleva una mano, poi crolla a terra e resta lungo disteso, a faccia in giù.
Il bambino vorrebbe correre da lui, ma sente, fredda come la mano di uno spettro notturno, la branca del ginn che lo trattiene.
« Ora no! » stormisce la voce d'albero. « Taci e fa' attenzione! »
Una delle femmine si accosta all'uomo caduto a terra, lo volta sulla schiena e osserva il suo viso sporco di fango, su cui è ancora scolpito il sorriso tirato. Lentamente una sottile lingua nera le esce dalla bocca, si lecca le labbra che sembrano quasi di sangue rappreso. L'uomo guarda il viso chino sopra di sé e, senza che il ghigno scompaia dalle sue labbra, i suoi occhi assumono pian piano un'espressione terrorizzata. « Chi sei? » chiede.
La femmina sorride, gli occhi le brillano di bramosia. Si accovaccia accanto a lui e prende la sua testa in grembo. Unghie d'argento nero passano tenere e crudeli fra i suoi capelli. L'uomo geme: « Sei muta? Che cosa stai facendo? Lasciami! »
« Sì », sussurra lei, mentre continua a spidocchiarlo, « sono muta. »
L'uomo la lascia fare, incapace di reagire. La sua fronte è bagnata di sudore. « E io », mormora, « sono cieco. »
« Non si direbbe. »
« No, non in questo senso. Non sono gli occhi. »
« Anche in me non è la bocca a essere muta. »
L'uomo tenta di rialzarsi. « Che cosa mi fai? Lasciami! Voglio andarmene. » Ma lei lo risospinge a terra, ed egli cede, ormai quasi di sua volontà.
« Sei arrivato », gli sussurra all'orecchio, « finalmente sei arrivato. Lo vedi, il dolore sta passando. »
L'uomo chiude gli occhi, respira profondamente e a scatti, sembra quasi un singhiozzo immaturo. « Tu cerchi di ingannarmi. Il perché mi è indifferente. È tutto un grosso imbroglio. »
« Lo dicono tutti quelli che arrivano », bisbiglia la femmina. « È la prima volta che vieni qui, vero? Ma anche tu sei come tutti gli altri. Hai ingannato te stesso, per questo pensi che anch'io voglia ingannarti. Ma io ti dirò la verità. Credi che faccia differenza se tu ti trascini in giro ancora per un giorno, un anno o cento anni luce? Niente può più cambiare. Più avanti di così non puoi arrivare, per quanta strada ancora tu faccia. Perché dunque vuoi andartene? Resta da me, io ti farò del bene, vedrai. »
L'astronauta la fissa senza vederla. « Non ti conosco. Chi sei? »
« Visto che tu sei come tutti, anch'io sono come tutte », risponde lei, e il suo riso sommesso risuona come grida lontane. « Per questo ti lascerai aiutare da me. »
Per un po' l'uomo getta qua e là la testa come in preda a un attacco di febbre. Sotto l'azione delle dita esperte della donna fra i suoi capelli, si calma gradatamente. Il suo viso, sempre gonfiato dal ghigno, si è fatto pallido quasi come quello di lei. Se di tanto
in tanto non respirasse con affanno, lo si crederebbe morto.
Il fanciullo rabbrividisce. « Che cosa fa lei? Lo aiuterà davvero? » Leva gli occhi verso il ginn, ma è lo spazzino a rispondergli:
« Sì, a modo suo, ragazzo. Lei è una consolatrice. Osserva le sue dita! Gli toglie il dolore! Lui non soffrirà più e lei se ne sazierà. Almeno per un po'. Alla fine lui non sarà più nessuno ».
L'uomo giace ora immobile. I suoi occhi cercano quelli del bambino. Le sue labbra sorridenti rimangono ferme, tuttavia il fanciullo sente la voce dell'uomo dire: « Ho cercato il paradiso ».
Subentra un lungo silenzio e il ragazzo non ode altro che il battito del proprio cuore. Infine la puttana sussurra: « E naturalmente non l'hai trovato, visto che non esiste. E ora hai perso ogni speranza, non è così? »
L'uomo tiene lo sguardo del bambino avvinto al proprio. La sua voce risuona quasi pacata d'infelicità. « Se non lo avessi trovato, non avrei mai perso la speranza ».
Le unghie d'argento nero continuano a frugare tra i suoi capelli. « Parla! Raccontami tutto! »
E il bambino, imprigionato nello sguardo dell'uomo come in una trappola, sente la voce di questi dire: « Avrei continuato a cercare fino alla fine dei miei giorni. E sarei morto felice, senza dubitare che da qualche parte esista un luogo dove tutto è bello e tutto è perfetto. E mi sarebbe parso giusto che nessuno potesse trovarlo ».
La voce della consolatrice è dolce come il morso di una sanguisuga. « Perché allora lo hai cercato? »
Quasi fosse stato lui a porgli la domanda, l'uomo
risponde, rivolto al fanciullo: « Era la nostalgia, ed era tanto grande che non mi restava altra scelta. Non mi importava arrivarci, ma solo gettare un unico sguardo alla bellezza assoluta. La certezza della sua esistenza mi sarebbe bastata per l'eternità ».
« Però lo hai trovato, il paradiso », sussurra la puttana, mentre continua a frugare tra i suoi capelli. « Ti hanno lasciato entrare, vero? »
L'uomo si solleva a sedere così di scatto che la femmina grigia si ritrae spaventata; la sua voce però è fredda e indifferente come prima. « In mezzo all'universo », dice dentro lo sguardo grande del bambino,« c'è un muro di cinta di impenetrabile gravità. Sopra la porta è scolpita la parola: 'Eden'. Toccai le sbarre del cancello ed esse mi si sgretolarono fra le mani riducendosi in un mucchietto di ruggine e putridume.
Entrai e mi vidi davanti una sterminata distesa di cenere e scorie, al cui centro si levava un gigantesco albero pietrificato che ghermiva con i suoi rami il cielo nero. E mentre ancora stavo lì a guardare, sentii muoversi qualcosa accanto a me, e da un buco nero nella terra strisciò fuori un essere come un enorme ragno. Potei solo notare che era terribilmente rinsecchito e terribilmente vecchio, e strascicava dietro di sé un paio di ali imponenti. Quell'essere arrancava verso di me gridando senza posa: 'Tornate! Tornate, figli dell'uomo!' E intanto si strappava manciate di piume e me le gettava contro. Io indietreggiai, allora prese a strillare e a ridere e urlò ancora: 'Non c'è più nessuno all'infuori di me! Sono solo, solo, solo!' Allora sono fuggito, non so come né dove, se per un'ora o per mille anni. »
L'uomo resta seduto, immobile, le gambe allungate davanti a sé, sempre col solito sorriso maligno sulle labbra, ma ora fissa a terra liberando il bambino dal suo sguardo. Di nuovo subentra un silenzio così definitivo che pare che ogni suono sia scomparso dal mondo. Ma poi, quando già il fanciullo pensa di non poter più respirare, la consolatrice dice: « Vieni! Farò in modo che tu dimentichi per sempre la tua nostalgia. Così smetterai di soffrire ».
L'uomo si alza, lei lo prende per mano e insieme si dirigono verso una porta. Il bambino si divincola dalla stretta del ginn e sbarra loro la strada. « Non puoi! » urla infuriato. « Non puoi dimenticare la tua nostalgia. Lei ti prenderà tutto! Ti prenderà te stesso! »
Improvvisamente il bambino sente la mano dura dell'uomo sulla sua guancia e barcolla all'indietro. Lo ha colpito.
« Lascia perdere », dice la femmina grigia, « lui non può sapere. Non ancora. »
E trascina l'uomo in casa.
« Non può dimenticare », balbetta il fanciullo, « altrimenti il paradiso è perduto per sempre... » e ora gli spuntano le lacrime.
Lo spazzino sembra aver trovato qualcosa nella cunetta. È un cerchio d'oro grande quanto una corona. Lo solleva e, mentre lo rigira fra le mani, dice: « Si, piccolo, questa è la tua prima ora di lezione. E tutto il male inizia con l'oblio di una nostalgia. »
« Ma perché mi ha picchiato? »
Il vecchio non risponde. Gira e rigira il cerchio fra le mani.
« Ehi, spazzino! » grida una delle femmine grigie, « che cos'hai lì? »
« Pare una corona », mormora il vecchio. « Qualche povero diavolo l'avrà persa o gettata via. Qui tutti diventano irriconoscibili. »
La femmina tende la mano, senza però avvicinarsi« Dammela! Dammela! » lo supplica.
Il vecchietto scuote la testa. « Non posso. E tu sai perché. »
« E tu? Che ci farai? »
« La porterò a mia moglie. »
« Ah! Persino tu hai moglie? Possibile? È bella? » Le altre femmine ridacchiano, pare quasi uno squittio di ratti. Il vecchietto grigio non si scompone. « Con la corona sì, penso », dice con voce roca.
« Non hai paura? » chiede un'altra consolatrice. « La nostra regina ha ordinato di portarle tutti gli oggetti smarriti. Con lei non si scherza, vecchio. »
Lo spazzino socchiude gli occhi e tossisce oppure ride, un po' imbarazzato. « Se mi prometti di non tradirmi, ti confiderò un segreto, bella mia. »
« Va bene, te lo prometto. »
« La vostra regina », dice lo spazzino lentamente, « è mia moglie. »
Di colpo la strada si fa deserta come lo era all'inizio. Tutte le porte e le finestre si chiudono. Il vecchio grigio appende la corona alla scopa che si mette in spalla. Fa un cenno al bambino, dà un colpetto col dito alla tesa del berretto e il suo grigiore si perde fra il grigiore dei muri delle case.
Il fanciullo guarda il ginn con aria interrogativa« Era il vero paradiso quello che ha trovato l'uomo? »
« Che ne so », risponde la voce bronzea. « Proprio a me lo chiedi? »
Dalla casa in cui l'astronauta è scomparso assieme alla consolatrice giunge ora il lungo, rauco ululato di cane che si spegne pian piano, disperato e straziante, nell'aria tersa. Il fanciullo tende l'orecchio, pallido in viso, solo su una guancia rosseggia ancora l'impronta della mano.
La branca squamosa del ginn afferra di nuovo con delicatezza la mano di bambino. « Vieni, piccolo. La tua prima ora di lezione è terminata. »
Quando già hanno percorso un buon tratto della strada in salita, il fanciullo si ferma ancora una volta e si volge indietro. « È vero quello che ha detto lo spazzino? Che tutto il male comincia quando si dimentica una nostalgia? »
« Comincia prima », risponde il ginn. « Comincia sempre con una speranza perduta. » E più tardi, molto più tardi, quando già il bimbo pensa ai giochi che lo aspettano, il ginn, da tempo di nuovo solo e rinchiuso dentro la sua torre di ghiaccio, mormora ancora una volta fra sé: « Nessuno può immaginare fino a che punto può giungere uno che ha perso la speranza ».




NELL'AULA pioveva ininterrottamente. Vi regnava un odore di palude, il pavimento di legno a causa dell'eterna umidità si era quasi decomposto in torba, le pareti ammuffivano e in alcuni punti crescevano grosse, candide ragnatele di salnitro. I vetri delle tre alte, sottili finestre erano opachi, affinché gli alunni non venissero distratti dalla possibilità di guardare fuori.
La porta che dava sul corridoio era stata tinta e ritinta più volte e aveva un aspetto grumoso e un colore di spinaci vecchi e stantii. Sulla lavagna si potevano ancora leggere le tracce di una qualche formula: ...è un punto nel vuoto... parte al tempo t un impulso di luce... d... dt...
Sopra la cattedra alta e nera come catrame giaceva, come composto nella bara, il corpo immobile di un fanciullo di forse quattordici anni. Aveva indosso un attillato costume da funambolo rattoppato qua e là. La benda bianca che gli avvolgeva il capo mostrava una macchia rossa e tonda sulla fronte. Evidentemente si trattava di un segno, perché era troppo regolare per poter essere sangue filtrato.
Ai banchi erano seduti soltanto sei alunni - due uomini, due donne, e due bambini - ognuno lontano dall'altro, ognuno per conto suo. Tutti stavano curvi sotto i loro ombrelli, leggevano, scrivevano o guardavano fisso davanti a sé. Proprio nella prima fila era seduto sotto un ombrello nero un uomo di età imprecisabile, impeccabilmente vestito. Sotto il duro cappello nero il suo viso appariva molto pallido e, salvo che per gli occhi un po' sporgenti e acquosi, del tutto senza tratti. Davanti a lui, sopra il banco, era posata una cartella. Vicino alla porta era seduto un uomo con la barba e gli occhiali, che portava un camice bianco. Reggeva un ombrello di materiale plastico trasparente e guardava in continuazione, a intervalli regolari, il suo orologio da polso. Dalla parte della finestra una donna anziana molto grassa si era infilata a stento nel banco troppo piccolo per la sua mole, così che il grosso seno poggiava sul ripiano davanti a lei. Il suo ombrello era a fiori. Alcune file dietro di lei era seduta una giovane alta e slanciata in abito da sposa sotto un ombrello bianco con una ruche di pizzo. Proprio in fondo, nell'ultima fila, stavano i due bambini. La ragazzina teneva aperto un ombrello di carta oleata. Aveva lunghi capelli neroblu e occhi a mandorla scuri come la notte. Il fanciullo seduto all'altra estremità aveva un aspetto assai trasandato. Era piccolo, dalle guance incavate, e molto sporco. I suoi vestiti erano stracciati, il naso gli gocciolava e lui se lo puliva tutti i momenti sulla manica. Nella schiena aveva ali bianche, troppo grandi, molli di pioggia e arruffate, che ricadevano giù pesantemente. Del suo ombrello era rimasta soltanto l'armatura dalla quale pendevano alcuni brandelli di stoffa celeste.
Tutti tacevano, perché chiacchierare era rigorosamente proibito. Solo la pioggia cadeva incessante.
Infine, dopo un'ennesima occhiata al suo orologio, l'uomo in camice bianco si chinò verso quello vestito in modo impeccabile e in un bisbiglio domandò:
« Mi scusi, lei sa forse quando viene il signor maestro? »
L'interpellato si mise un dito sulle labbra. Poi scosse la testa e dopo un poco mormorò:
« Non si sa mai quando viene o se addirittura non viene. Ma guai se uno manca nel caso lui arrivi ».
L'uomo in camice bianco annuì con un sospiro.
« L'avevo immaginato. Posso chiederle perché lei è qui? »
L'altro fece cenno di no col capo e si guardò intorno. Di nuovo lasciò trascorrere alcuni minuti prima di rispondere:
« Voglio completare le mie conoscenze nel campo della matematica. Io sono un impiegato ».
« Ah », fece l'uomo con la barba e il camice bianco, ma era evidente che quella risposta non lo soddisfaceva troppo.
Dette una rapida occhiata al suo orologio, poi scrisse qualcosa su un foglietto e lo spinse verso il suo interlocutore.
Questi vi lesse: Allora lei è venuto qui di sua spontanea volontà? Voltò il foglietto e scrisse sul retro: La sua domanda non vale per me. Io faccio il mio dovere.
Quando l'uomo in camice bianco ebbe letto la risposta disse a mezza voce e con una punta di insofferenza:
« Io non sono qui di mia spontanea volontà. Sono medico, ma a causa di una stupida inezia mi hanno ritirato la licenza. E ora devo ricominciare tutto da capo. Per me è tremendo ».
« Tutto ricomincia sempre da capo », rispose brusco l'uomo impeccabilmente vestito. « La vita è ripetizione.
Con quale diritto lei presume di essere l'unico a venire promosso? »
« Non parlate così forte! » esclamò la sposa a mezza voce, rivolta ai due. « Qualcuno potrebbe sentirvi, e così saremmo tutti castigati. »
« A mio parere », interloquì la grassona, « faremmo bene ad andarcene a casa. Ho fame. »
L'impiegato si volse verso di lei e la fissò col suo sguardo vuoto.
« Questo è impossibile », disse in tono freddo, « la porta è chiusa. »
Di nuovo ci fu un lungo silenzio, solo la pioggia cadeva incessantemente.
« Vorrei sapere », mormorò fra sé il fanciullo con le ali bagnate, « che tempo fa fuori. Forse fuori è già vacanza. »
La ragazzina dagli occhi a mandorla gli sorrise e sussurrò, tenendo la mano davanti alla bocca:
« Fuori c'è il paradiso, ma non si può aprire la finestra ».
« Che cosa c'è fuori? »
« Il pa-ra-di-so. »
« Non lo conosco. Che cos'è? »
« Non lo conosci? »
« No, non ne ho mai sentito parlare. »
La ragazzina ridacchiò.
« Non ci credo. Non sei un angelo? »
« E anche questo che cosa sarebbe? »
La ragazzina dagli occhi a mandorla fissò per un attimo pensosa davanti a sé, poi sussurrò:
« In realtà non lo so nemmeno io cos'è il paradiso ».
« E allora che cosa dici? » esclamò il fanciullo.
« Però so che è sempre accanto », proseguì la ragazzina. « Questo lo sanno tutti. A dividerci c'è soltanto una parete, ora di pietra, ora di vetro o di carta velina. Ma è sempre accanto. »
« E non si potrebbe rompere i vetri? » propose il fanciullo e arrossì per la propria audacia. « Voglio dire, se davvero ne vale la pena. »
La ragazza lo guardò con occhi tristi e bisbigliò:
« Non servirebbe. Resta sempre accanto, non è mai dove siamo noi. Se fossimo fuori, non sarebbe più là. Ma ora c'è. Di sicuro ».
« State un po' zitti! » esclamò la sposa con voce soffocata. « Credo stia venendo qualcuno. »
Tutti si misero in ascolto, ma non si sentiva altro che la pioggia.
Il medico si alzò e si diresse alla cattedra sulla quale il ragazzo in costume da funambolo giaceva come su un catafalco. Dovette salire sopra la sedia della cattedra per poterlo osservare.
« Non sarebbe meglio se lei facesse i suoi compiti? » domandò l'impiegato, inarcando le sopracciglia.
« Forse è questo il mio compito », rispose il medico stizzito.
Visitò il ragazzo in silenzio, sentì il polso, gli aprì cautamente col pollice e l'indice uno degli occhi, premette qua e là, infine scosse avvilito la testa, ridiscese e tornò al proprio posto.
La grassona, che lo aveva osservato con crescente curiosità, gridò così forte che tutti trasalirono spaventati: « Che malattia! Ci dica almeno di che cosa è morto! »
« Di pioggia », rispose il medico seccamente.
« Forse », sussurrò la ragazzina dagli occhi a mandorla
al fanciullo con le ali fradice, « forse il paradiso è là dove non piove mai. »
« O almeno non sempre », disse il fanciullo, come se parlasse a se stesso. « Solo di tanto in tanto. »
« Ti rammenti ora? » bisbigliò la ragazza.
Ma il fanciullo, che fissava pensoso davanti a sé, non rispose.
La ragazzina si alzò e si diresse a timidi passi verso la cattedra. Si arrampicò sopra la sedia e da lì accanto al ragazzo in costume da funambolo. Gli si accoccolò al fianco, prese il suo capo in grembo e lo riparò col suo ombrello di carta. Tutti rimasero a guardare stupiti.
« Ma se viene il maestro... » strillò la sposa, impaurita.
« Forse è proprio lui il maestro », disse il fanciullo con le ali, alzandosi. Tutti si voltarono verso di lui.
« Potrebbe anche essere », mormorò, e arrossì di nuovo. Si fece avanti strascicando le ali, si arrampicò a sua volta con decisione sulla cattedra e tenne lo scheletro del suo ombrello sopra il corpo disteso del ragazzo.
« Assurdo! » esclamò l'impiegato in tono sprezzante. « Niente affatto! » rimbeccò il fanciullo, cocciuto.
« Comincia già a respirare. »
Il medico balzò in piedi, salì di nuovo sulla sedia, posò la mano sul petto del ragazzo, si chinò sulla sua bocca e ascoltò attentamente.
« Due non bastano », gridò poi. « Ancora più ombrelli! »
Tutti si fecero avanti e alzarono i loro ombrelli sopra il ragazzo. La ragazzina dagli occhi a mandorla gli
s'era chinata sul viso e gli tolse con gran cautela la benda con la rossa macchia tonda. I suoi lunghi capelli neri coprirono i volti di entrambi.
All'improvviso il ragazzo in costume da funambolo mandò un profondo respiro, tossì un paio di volte e si sollevò a sedere.
« Grazie! » disse, guardando le facce che gli si pigiavano intorno. « Stavolta è andata un po' per le lunghe. Che cosa fate qui? »
« Aspettiamo il maestro », rispose la sposa,
« Per caso sei tu? » chiese il fanciullo con le ali.
« Ma senti! » esclamò il ragazzo. « Ho forse l'aria di un maestro? »
« Noi non sappiamo com'è », spiegò il medico.
« La prego di non parlare a nome di tutti! » lo redarguì l'impiegato. « Io sono qui da molto più tempo di lei. »
Il ragazzo in costume da funambolo si soffiò via un paio di gocce di pioggia dalla punta del naso e sorrise. « L'importante è che ora lui non ci sia. Dobbiamo cercare di andarcene da qui. Oppure vi piace rimanere qui dentro? »
« Non si tratta di questo », ribatté l'impiegato. « Esiste anche qualcosa come il senso del dovere. Nessuno ha il diritto di sottrarsi alla realtà, tanto meno quando essa è spiacevole. »
Il ragazzo in costume da funambolo lasciò penzolare le gambe dalla cattedra.
« Avete già notato », chiese con dolcezza, « che è sufficiente chiudere per un paio di minuti gli occhi?
Quando si riaprono, si è già in una realtà diversa. Tutto si trasforma in continuazione. »
« Se si chiudono gli occhi », disse il fanciullo con le ali fradice, « si muore. »
« Sì », esclamò il ragazzo dalla cattedra, « è la stessa cosa. Anche noi ci trasformiamo. Tutto qua. Fino a un attimo fa ero un altro e ora di colpo sono questo qui. »
La donna grassa assenti col capo.
« Bene, ragazzo mio. E che cosa ci guadagni? »
« Niente », rispose il ragazzo. « Perché uno dovrebbe guadagnarci qualcosa? »
« In ogni modo », precisò l'impiegato, « io resto qui e riferirò al maestro punto per punto tutto ciò che accade. »
« Come vuole! » esclamò il ragazzo e saltò giù dalla cattedra. « Io sono qui soltanto di passaggio. »
« Ma non si può uscire », strillò la sposa. « La porta è chiusa. »
« Si può uscire da qualsiasi luogo », obiettò il ragazzo, « se si è capaci di cambiare sogno. »
« Come si fa? » domandò la ragazza dagli occhi a mandorla. E il fanciullo con le ali aggiunse:
« Che cosa significa cambiare sogno? »
« Sono tutte sciocchezze! » esclamò l'impiegato.
« Cambiare sogno », disse il ragazzo in costume da funambolo, « significa inventare una storia nuova e poi saltarci dentro. Che vi insegnano in questa scuola, se non sapete neppure questo? »
« E tu dove l'hai imparato? »
« Da un cambiatore di sogni, che io stesso ho inventato », rispose il ragazzo.
« E sei davvero capace di cambiare sogno? » chiese senza fiato la ragazzina. « E puoi insegnarcelo? »
« Certo! » esclamò il ragazzo. « Del resto da soli è più difficile. In due va già meglio, e se poi siamo in tanti a farlo, allora riesce sempre. Questo tutti i veri cambiatori di sogni lo sanno! »
« E come si fa a inventare una storia nuova? » s'informò la sposa.
« La cosa più semplice », spiegò il ragazzo, « è mettere in scena tutti insieme uno spettacolo teatrale. »
« Oddio », gemette la grassona, « io non riesco a tenere a mente un testo. »
« Davanti a chi dobbiamo recitare? » chiese il medico.
« Davanti a noi stessi. Noi siamo spettatori e attori contemporaneamente. E quello che recitiamo è realtà. »
« Ma cosa dovremmo recitare? » volle sapere il fanciullo con le ali.
« Questo non si sa mai prima », rispose il ragazzo. « Si comincia e basta. »
« Ma può anche andare tremendamente storta », osservò la sposa. « E allora che ne sarà di noi? »
Il ragazzo fece spallucce.
« Chi pretende di saperlo prima non potrà mai cambiare sogno. »
« Ma non ci serve un palcoscenico? » chiese la ragazzina dagli occhi a mandorla. « E un sipario? »
« Certamente! » esclamò il ragazzo in costume da funambolo. Prese la sua benda zuppa di pioggia e, mentre la ragazzina lo riparava col suo ombrello, andò alla lavagna e cancellò accuratamente con essa le ultime tracce della formula. Poi si voltò verso gli altri.
« Potete asciugarla? »
« Non servirà a molto », osservò il medico. « Presto la pioggia l'avrà bagnata tutta di nuovo. »
« Bastano un paio di minuti », spiegò il ragazzo. Aprì il cassetto della cattedra e vi trovò alcuni pezzetti di gesso colorato. Nel frattempo gli altri avevano asciugato alla meglio la lavagna usando i fazzoletti o le maniche delle loro giacche. Il medico si era persino tolto il camice per usarlo come strofinaccio.
« Così va bene », disse il ragazzo. Poi disegnò in pochi tratti sulla lavagna un palcoscenico; il sipario era sollevato ai lati e l'apparato scenico dietro di esso mostrava un lungo corridoio pieno di porte.
« Bisogna lasciarsi aperta ogni possibilità », disse il ragazzo, mentre tracciava le ultime linee. « Dietro una di queste porte troveremo pure qualcosa che ci vada bene. »
E con un salto s'infilò dentro l'immagine che aveva appena disegnato. Gli altri stettero a guardarlo entusiasti mentre camminava avanti e indietro sul palcoscenico.
« Venite! » gridò. « Fate presto! La pioggia! »
Per primo si arrampicò sopra il palcoscenico il fanciullo con le ali, poi fu la volta della ragazzina dagli occhi a mandorla. Dopo di lei venne la sposa. La donna grassa dovette essere sospinta dal medico e tirata su da quelli che già si trovavano dentro, poi salì anche il medico. Soltanto l'uomo impeccabilmente vestito era rimasto giù, sotto il suo ombrello nero, e non sapeva decidersi.
Il ragazzo in costume da funambolo si sporse ancora una volta dal disegno e gli tese la mano.
« Non vuol venire anche lei? » domandò.
L'uomo scosse la testa.
« Non ci credo. »
« Non ce n'è bisogno. Lo faccia e basta! »
« Ma... » L'impiegato indietreggiò di un passo, « non so che cosa possa importarvi di me. Io non sono adatto al vostro spettacolo. »
« A noi non importa niente di lei », rispose il ragazzo, « ma per la nostra recita va bene chiunque. »
Sopra l'immagine scorrevano già ovunque gocce di pioggia che la rendevano indistinta.
« È meglio di no », disse l'uomo.
« Peccato », esclamò il ragazzo, poi fece un inchino come un artista di circo. « Addio! »
Il sipario si abbassava lentamente da entrambi i lati. Allora, all'ultimo momento, l'uomo raccolse tutto il suo coraggio, chiuse l'ombrello, s'infilò la cartella sotto il braccio, si resse il cappello in testa e saltò dentro la fessura del sipario, che si chiuse dietro di lui.
La pioggia incessante cancellò a poco a poco l'immagine dalla lavagna.




NEL corridoio degli attori trovammo alcune centinaia di persone in attesa. Stavano sedute o in piedi lungo le pareti, immobili e pazienti.
Molte erano a torso scoperto, altre del tutto nude. C'erano anche donne e bambini fra loro. I corpi dei più testimoniavano un lungo periodo di stenti. Erano secchi e debilitati fino a essere ridotti allo stremo.
Nessuno di loro alzò la testa, quando passammo in mezzo alle loro file. Alcuni tenevano gli occhi chiusi e muovevano le labbra, come se ripetessero la parte, altri guardavano fisso nel vuoto in lontananza o sul pavimento.
Ci fermammo di fronte a un vecchio avvolto in una rozza coperta che stava seduto su uno sgabello e gli chiedemmo per quale motivo si trovasse lì.
« Aspetto il mio costume », rispose con un sorriso imbarazzato, « lo stanno ancora cucendo. Appena sarà pronto entrerò in scena. Non ci vorrà ancora molto perché aspetto già da più tempo di tutti gli altri. »
Noi desiderammo sapere di che costume si trattasse. « La veste di un re », disse. « La cosa principale è naturalmente la corona, all'inizio una vera, d'oro, poi una di carta. Per l'ultimo atto ho bisogno anche di un arco e di una faretra con frecce. E grucce... si, mi daranno anche delle grucce, perché avrò una gamba sola, come ben saprete. »
Gli spiegammo che noi non sapevamo niente di niente e che tuttavia avevamo l'impressione di aver visto quel costume già da qualche parte.
« No, no », fece il vecchio, scrollando la testa come un bambino caparbio, « questo è impossibile. Non è ancora pronto, altrimenti lo avrei già indosso. È il mio costume! »
Lo pregammo di raccontarci della sua parte.
« È molto bella », esordì, « e la principale, si capisce. Io sono il Sovrano felice. »
Avanzammo l'ipotesi che si trattasse di un pezzo storico, ma il vecchio scosse di nuovo la testa.
« No, niente affatto. Per qualcosa del genere non sprecherei le mie doti di attore. Si tratta invece di vero teatro, cioè di una favola, o - se preferite - di un mistero. In principio il Sovrano felice siede nella sua qualità di re su un imponente trono di pietra, un trono grande come una montagna. Io, cioè il re, domino su un regno sconfinato... ma non sono libero. Il mio piede sinistro è incatenato al trono di pietra. Ora accade che scoppi un'insurrezione ordita dallo scrivano del re. Questi e altri servitori vogliono spodestarmi per impossessarsi del trono. Ma si accorgono che io - cioè il re - non posso essere deposto, appunto perché sono incatenato al trono e la catena non può essere spezzata. »
Il vecchio tacque e guardò impaziente in direzione di tre uomini che stavano scendendo lungo il corridoio. Portavano con gran cura una veste regale, in modo che due di loro tenevano ognuno una delle lunghe maniche tese, mentre il terzo reggeva lo strascico, così che l'abito pareva quasi una persona sospesa fra loro. Era senza dubbio un abito da donna.
Dopo averlo posato con delicatezza in grembo al vecchio, si allontanarono senza una parola. Questi passò distrattamente la mano sopra i preziosi ricami in oro ma per il resto non sembrò prestare attenzione alla veste.
« Poiché la catena non può essere spezzata », continuò nel suo racconto, « i ribelli tagliano la gamba al re e lo tirano giù dal trono. Allorché egli giace inerme al suolo, un misero mucchietto di dolore e di sangue, gli tolgono anche la corona d'oro e gliene mettono in testa una di carta. Lo credono morto. È notte, fuori mugghia la tempesta. Lo trascinano alle porte della città e lo gettano in un immondezzaio. »
Il vecchio attore si interruppe commosso.
« Alcuni straccivendoli trovano il corpo, scoprono che in esso c'è ancora un filo di vita, lo portano nelle loro stamberghe e lo curano di nascosto, finché l'orrenda ferita si rimargina. Ci vuole molto tempo. Gli sbirri del nuovo sovrano, lo scrivano, sono ovunque e hanno mille orecchi e mille occhi. Perciò gli straccivendoli implorano il re di fuggire nelle zone impervie delle montagne, dove nessuno possa trovarlo. Gli danno dei vecchi cenci per rivestirsi e grucce con cui camminare. »
Di nuovo il vecchio s'interruppe e si raddrizzò, ansioso. Due donne scendevano per il corridoio, reggendo in mezzo a loro un abitino fatto di toppe di ogni genere cucite insieme, con una gamba tagliata all'altezza del ginocchio e fermata alla meno peggio. Si trattava, a giudicare dalla taglia, di un indumento per un bambino di circa sei anni. Le due donne gettarono l'abitino di stracci ai piedi del vecchio, presero dalle sue
ginocchia la veste regale e scomparvero giù per il corridoio.
Dopo aver sorriso come per scusarsi, il vecchio riprese il proprio racconto: « Affinché non sia del tutto indifeso e possa trovare di che nutrirsi, danno al re anche un arco e una faretra piena di buone frecce. Così, per lungo tempo, l'uomo con una gamba sola erra con la sua corona di carta sulla testa per le gole e le terre selvagge di un paese a lui sconosciuto e sul quale tuttavia ha regnato. È un buon tiratore e un cacciatore esperto, le sue frecce non mancano mai il bersaglio quando tira alla selvaggina... eppure, per una misteriosa fatalità, le frecce nella sua faretra si riducono sempre più. Alla fine ne sono rimaste soltanto sette. Un'ira furibonda contro la forza del destino assale il solitario. Una notte, ancora più cupa e sconvolta dalla tempesta di tutte le altre, egli si trascina sulla vetta della montagna più alta e si siede sopra la nuda, fredda rupe. Con una forte risata di scherno scaraventa le sue grucce in fondo all'abisso e, urlando tremende maledizioni e bestemmie, scaglia le frecce che gli sono rimaste contro il cielo che rotola nubi su nubi. A testa alta attende poi la folgore che lo annienti a causa del suo sacrilegio. Ma non accade nulla ».
Per la terza volta il vecchio interruppe il suo racconto. Lungo il corridoio avanzava un bambino, tutto solo, che sorreggeva a fatica un grosso ammasso di stoffa sulle braccia. Quando depose il suo carico di fronte al vecchio, si vide che si trattava di una tuta di cuoio da pilota, completa di occhiali, guanti alla moschettiera e stivali foderati di pelliccia. Senza dire una parola, il bambino raccolse gli stracci da terra e sparì in quella
stessa direzione che avevano preso gli altri prima di lui.
Anche questa volta il vecchio non aveva prestato troppa attenzione all'accaduto. Si alzò e si gettò la coperta attorno al corpo smilzo alla maniera di una toga. Con occhi raggianti e un ampio gesto della mano riprese il racconto interrotto:
« Il re è ancora sulla rupe, la sua barba, i suoi capelli e i brandelli del suo abito ondeggiano nella bufera. All'improvviso ode un nitrire di cavalli. Sette cavalieri si dirigono verso di lui attraverso le nubi. Indossavano vesti di un candore scintillante e di un candore scintillante sono i loro destrieri. Mentre essi avanzano lentamente, il re si accorge che ognuno di loro ha una freccia conficcata nel cuore. Ci siamo, pensa, ecco che giunge la punizione, la vendetta divina. I cavalieri gli sono ora vicini, smontano dai loro cavalli, gli si mettono di fronte... e s'inchinano rispettosamente. Poi si strappano le frecce dal petto e, uno dopo l'altro, le depongono ai suoi piedi. Il re non riesce a parlare. Le sue mani tastano le frecce trasformate in oro lucente. Alza il viso, guarda negli occhi i bianchi cavalieri... e li riconosce... »
A questo punto il vecchio interruppe ancora una volta il racconto, perché di nuovo un gruppo di persone si stava avvicinando lungo il corridoio, ora dalla direzione opposta. Si trattava di uno dei tre uomini, di una delle due donne di prima e di un bambino, però non quello che aveva portato la tuta da pilota. Raccolsero quest'ultima da terra e si allontanarono, niente lasciando in cambio, nella direzione dalla quale erano venuti i gruppi precedenti. Il vecchio attore sedette sullo sgabello,
si strinse con un brivido nella sua coperta e d'improvviso parve esausto.
Lo sollecitammo a finire il suo racconto e a rivelarci chi fossero i meravigliosi cavalieri che il re aveva riconosciuto. Ma il vecchio scosse di nuovo, caparbio, la testa e disse: « Come faccio a saperlo? »
Che non volesse svelarcelo? Era forse un segreto? Egli rispose stancamente: « Quando avrò recitato la mia parte, lo saprò... e voi anche. Altrimenti a che cosa dovrebbe servire l'intero spettacolo? »
D'un tratto il suo viso assunse un'espressione piena di dolore, sì, d'angoscia, e domandò in fretta: « O pensate che sia possibile che nel frattempo qualcun altro abbia recitato la mia parte? È già tanto che aspetto. Credete sia possibile? »




IL fuoco fu aperto di nuovo. La cittadella notturna era un inferno di pallottole sibilanti, uggiolanti colpi di sbieco, stridori di granate, boati di mura e soffitti che crollavano a terra.
Il barbuto dittatore fuggiva a grandi balzi lunghi e lenti per gli oscuri corridoi, per saloni e logge; nel buio inciampò in statue andate in pezzi e rimase impigliato in lampadari caduti al suolo, rotolò giù per una scala di marmo, restò lungo disteso, si rialzò e proseguì vacillante. La sua uniforme di pelle nera lucida era lacera e sforacchiata da molti proiettili, il suo corpo possente trafitto da innumerevoli pallottole, il cuore, i polmoni, il fegato e gli intestini, perfino in mezzo alla fronte un piccolo foro rotondo luccicava di sangue, simile a un terzo occhio malvagio. Era ferito a morte, ma non poteva morire. L'aveva sempre saputo, lo sapevano tutti che era immortale.
Eppure gli davano la caccia. Tutti coloro ai quali fino ad allora era stato lui a dare la caccia. Era immortale, ma non invulnerabile. Sentiva il dolore, che riempiva il suo corpo di un intollerabile vuoto, come se fosse una forma cava e l'aria intorno un granito scintillante di stelle.
Cercò scampo nelle sale dell'archivio di stato, ma vi trovò barricate erette con pile di fascicoli riservati, dietro le quali lampeggiavano centinaia di vampe. Si
gettò a terra, strisciò in avanti, cercò riparo dietro muri di atti processuali, avanzò a quattro zampe lungo camminamenti di dossier, si trascinò con le unghie, s'infilò tra cumuli di mandati d'arresto stracciati e bruciacchiati e restò infine disteso, col respiro sibilante.
Poter dormire, pensò, cinque minuti o cento anni. Ma la guerra non è ancora finita. La guerra non è mai finita. E finché dura la guerra io non sono sconfitto. Usano le mie stesse armi contro di me, per questo non possono sconfiggermi.
Steso a terra, sollevò guardingo la testa. Solo ora si rese conto che lo circondava il silenzio. Era subentrata una tregua, finalmente.
Una penombra dorata regnava tutt'intorno.
Si drizzò a sedere. Il pavimento a mosaico sotto di lui mostrava, per quanto riuscisse a vedere di scorcio, l'immagine di un pellicano che faceva bere la sua nidiata allo zampillo di sangue che gli sgorgava dal petto. Accanto c'era la scritta a lettere d'oro: Amor Amoris Gratias. Il dittatore aveva in bocca sapore di verderame, voleva sputare, ma non aveva saliva.
Un enorme, rotondo salone di marmo si curvava a volta sopra di lui. Egli era seduto, piccolissimo, proprio al suo centro, nel cerchio nero del bersaglio... per così dire. Torse la bocca, si asciugò la barba bagnata di sangue e si alzò. Doveva mettersi al sicuro.
Porte sembrava non ce ne fossero, finestre neppure.
Un chiarore dorato proveniva dall'alto, non si vedeva da dove. Come aveva fatto a entrare? Ma ormai gli era indifferente. L'importante era uscire.
Un imponente scalone di pietra, sorretto da poderose colonne, si lanciava verso l'alto descrivendo un
ampio semicerchio. Lassù sfociava in una galleria che correva tutt'intorno alla parete. Da lì altre scale conducevano in ogni direzione a gallerie situate ancora più in alto che lasciavano intravedere nuove scale, volte e logge, il tutto sfarzoso e splendente d'oro. In mezzo, sparse un po' dovunque, figure di pietra o di bronzo, piccole e grandi, innumerevoli figure umane avvolte in vesti ricche di pieghe, dita protese, mani sollevate, atteggiamenti dignitosi, ammonitori, estatici, severi. Alcuni gridavano verso l'alto o il basso silenziosi messaggi, messaggi importanti evidentemente, poiché quelli che li ricevevano apparivano turbati e scossi, non c'era dubbio. Una muta disputa universale su questioni fondamentali, che non aveva mai fine. Forse trattavano il problema del potere, il problema dei problemi.
Il dittatore prese a salire, lentamente, passo passo. La scala era alta come una montagna. Giunto all'ultimo gradino si mise a sedere e raccolse le proprie forze. Poi riprese a zoppicare per il loggiato che correva a semicerchio lungo la parete, trovò infine l'accesso a una delle tante altre scale, che però era stretta e si attorcigliava a una robusta colonna di pietra verde. I gradini erano lucidi come specchi e non c'era parapetto. Salì tastando la colonna con la mano e senza guardare in basso. Non sapeva a che altezza si trovasse, in ogni caso era in una qualche parte nella cupola.
La scala a chiocciola terminava sotto uno dei cassettoni di cui era composto il soffitto. Il dittatore vi puntò contro le spalle cercando di aprirlo, ma invano. Soltanto quando, trafelato, rinunciò ai suoi tentativi e si rimise a sedere, esso si aprì da solo verso il basso, cadendogli addosso. Si arrampicò attraverso l'apertura.
Davanti a lui si stendeva, immerso in una luce grigia e fosca, un lungo corridoio dritto che pareva arrivare fino all'orizzonte. Su entrambi i lati si trovava, a intervalli regolari, sempre la stessa porta color verde spinacio. Che fosse la stessa porta bastava già a dimostrarlo il numero 401 ripetuto su ciascuna. Gli venne in mente il corridoio impregnato di gelida paura della scuola che da bambino aveva tanto odiato e temuto. Non era una bella cosa capitare di nuovo lì, ma non poteva tornare indietro, la ribalta nel pavimento era introvabile.
Si costrinse perciò a proseguire. Non udiva altro che il rumore del proprio passo greve, zoppicante e irregolare come il battito di un cuore morente. Il corridoio pareva senza fine.
Si fermò, perché da distante gli arrivò all'orecchio un tintinnare di campanelli. Tentò di penetrare con lo sguardo nella luce grigia e fosca. Da lontano, dove le pareti del corridoio convergevano, avanzava lentamente una piccola processione. Il dittatore sfilò la pistola dal fodero e tolse la sicura.
Ci volle del tempo perché si avvicinassero. In testa c'era un bambino di forse sei anni con una camicia di pizzo lunga fino alle caviglie, in ciascuna mano un campanello d'argento. Alle sue spalle camminava un vecchio, anch'egli con una lunga veste di pizzo, ma in più portava un grembiule e un candido, alto berretto da cuoco. In una mano teneva un calice d'oro coperto da un piatto d'argento capovolto, che reggeva prudentemente con l'altra mano. Lo seguivano due bambini con bracieri d'argento dai quali si alzava del fumo. Dietro venivano altri bambini, tutti con la stessa lunga camicia
di pizzo, che portavano forchette, cucchiai, barattoli, colini e altri utensili da cucina.
Il dittatore si piazzò a gambe larghe in mezzo al corridoio e alzò la pistola.
« Alt! Fermi! » disse con voce esangue.
Soltanto allora il vecchio col berretto da cuoco parve notarlo. Sorpreso più che spaventato, sollevò gli occhi dal calice che teneva in mano e li puntò sul dittatore.
I bambini, intimoriti, rimasero indietro, ma il vecchio si avvicinò ancora più alla pistola. Il dittatore alzò il cane.
« Fermo! » esclamò ancora una volta, ora più forte perché gli balenò il sospetto che il vecchio potesse essere sordo. O forse fingeva? Adesso che le cose si erano messe male per lui, il mondo gli pareva pieno di traditori. E per loro tutti i mezzi erano buoni. Be', sì, anche per lui.
« Dove vai? » buttò fuori, puntando la pistola contro il viso del vecchio. Questi guardò pensoso dentro la bocca dell'arma, poi squadrò con calma l'uniforme di pelle lacera e sforacchiata, la barba incrostata di sangue, la ferita d'arma da fuoco sulla fronte di colui che gli stava davanti, e infine lo guardò negli occhi. Se la prese con tutto comodo e il dittatore sentì l'odio, freddo e dolce, montargli alla gola che gli bruciava. Questo lo sollevò, ne fu addirittura grato al vecchio. Era stanco di uccidere a freddo.
L'uomo col berretto da cuoco parve infine aver capito. Abbassò docilmente lo sguardo, fece un piccolo inchino e mormorò:
« Figlio mio... per favore, ci lasci proseguire. Abbiamo fretta ».
Il dittatore sogghignò di fronte a tanta ingenuità. « Pazienza, padre mio, un pochino di pazienza! »
E, seguendo un'idea improvvisa, bussò col calcio della pistola sul calice.
« Mi consideri suo cliente, padre. Non vorrebbe offrirmi un goccetto? Ho sete. »
Il viso del vecchio restò impassibile, probabilmente anche questa volta non aveva capito. Dopo un momento bisbigliò in tono confidenziale:
« La prego, cerchi di capire, si tratta di un estremo servizio ».
« Lei vuole scherzare! » replicò il dittatore, e per la rabbia quasi gli mancò la voce. Inspirò coi polmoni sibilanti e si drizzò ben bene.
« Nel caso lei non l'abbia ancora notato, padre: là fuori c'è un intero mondo pieno di moribondi. Giacciono a mucchi per le strade e nelle piazze. Non riesci neppure più a sentire le tue parole in mezzo alle loro urla. Ti strisciano fra i piedi, ti si avvinghiano alle gambe e non te ne liberi più. Il mondo, padre, è ormai soltanto un mondo di moribondi. Il mondo stesso è in punto di morte. Ma lei, padre, lei deve recarsi di urgenza da un moribondo speciale, per dovere professionale, si potrebbe dire, e non vuole essere disturbato. »
« Sì », rispose il vecchio, guardando il dittatore con occhi tristi, « è proprio così. Che fare? »
« Bene », disse il dittatore dopo aver riflettuto un poco, « l'accompagno. Sono curioso di vedere questo moribondo privilegiato. »
« Io ho parlato soltanto di un estremo servizio, figlio mio », rispose il vecchio, inclinando il berretto da cuoco. Poi fece un cenno ai bambini. Essi si disposero
nello stesso ordine di prima e la piccola processione si rimise in movimento. Il dittatore, l'arma ancora in pugno, zoppicò al fianco del vecchio.
La porta color verde spinacio col numero 401 che a intervalli regolari, sempre uguale, sfilava loro accanto fece sorgere a poco a poco nel dittatore la sensazione che non stessero affatto avanzando, ma che da ore camminassero restando fermi al solito posto.
Dopo molto tempo egli disse:
« Perché dare tanta importanza ai moribondi? Prima o poi sarebbero morti in un modo o nell'altro ».
« Questo è vero », rispose il vecchio, « ma non è lo stesso. »
« Che differenza c'è? » chiese il dittatore.
Il vecchio riflette un poco, prima di mormorare: « Per te almeno c'è una differenza. Perché hai fatto tutto questo? »
« Mi hanno costretto », replicò il dittatore. « Io non mi pento di niente. Non mi dispiace per nessuno. »
E dopo un attimo aggiunse a voce più bassa: « Li invidio, perché possono morire ». Continuarono a procedere lentamente, da una porta all'altra, e di nuovo non si capiva se il vecchio avesse udito o no. Ma dopo una lunga pausa questi ripeté: « Ti hanno costretto? Dunque non eri abbastanza potente, se hanno potuto costringerti? »
« Per prendere il potere », rispose il dittatore, « ho dovuto strapparlo a quelli che lo avevano. E per mantenerlo ho dovuto servirmene contro coloro che volevano togliermelo. »
Il vecchio assentì.
« È una vecchia storia. Si è ripetuta già mille volte.
Ma nessuno ci crede. Per questo si ripeterà per altre mille volte ancora. »
Il dittatore si sentì di colpo stanchissimo, avrebbe voluto sedersi, ma il vecchio e i bambini continuarono a procedere e lui li seguì.
« E tu? » buttò fuori, quando fu nuovamente al suo fianco, « che ne sai tu, del potere? Credi che sulla terra si potrebbe arrivare a qualcosa di grande senza di esso? »
« Io? » fece il vecchio col berretto da cuoco. « Io non so che cosa sia grande o piccolo. »
« Io volevo il potere per fare giustizia », gridò il dittatore, e dalla ferita sulla sua fronte cominciò di nuovo a scorrere sangue, « ma per ottenerlo ho dovuto commettere delle ingiustizie: Tutti coloro che lo vogliono vi sono costretti. Volevo farla finita con la repressione, ma per questo ho dovuto gettare in carcere e liquidare coloro che intendevano impedirmelo. Sono dovuto diventare un oppressore. Per eliminare la violenza bisogna usare la violenza. Per sconfiggere la miseria bisogna provocare miseria. Per impedire la guerra bisogna fare guerre. Per salvare il mondo bisogna distruggerlo. Questa è la verità del potere! »
Ansimava. Aveva sbarrato di nuovo la strada al vecchio e alzato la pistola, pronto a sparare.
« E ciò nonostante ancora lo ami », disse il vecchio, piano.
La voce del dittatore ora risuonò arrochita.
« È la virtù suprema. Ha soltanto un difetto, che però rovina tutto: non è mai assoluto. Per questo è insaziabile. Soltanto l'onnipotenza è il vero potere. Ma
essa è impossibile. Perciò ne sono deluso. Mi ha ingannato. »
« E così », ribatte il vecchio, « sei diventato quello contro cui volevi combattere. E ciò accade sempre di nuovo. Per questo non puoi morire. »
Il dittatore abbassò lentamente l'arma. « Sì », disse, « è così. Che fare? »
« Non conosci », domandò il vecchio, « la leggenda del Sovrano felice? »
« No », rispose il dittatore, « e le tue storie non mi interessano affatto. »
Tuttavia lasciò che egli lo prendesse per mano e lo portasse avanti. Udiva la voce del vecchio parlare e parlare sommessamente al suo fianco, udiva delle frasi, ma non stava ad ascoltare. Cercava di ricordare per quale motivo avesse combattuto per il potere e da quale parte, ma non ci riuscì.
Solo dopo un bel po' di tempo le parole del vecchio si fecero strada nella sua coscienza:
« ...e quando si accinse a costruire l'enorme, misterioso palazzo alla cui progettazione aveva dedicato ben dieci anni della sua vita e al quale, ancor prima che fosse ultimato, i popoli si recavano in pellegrinaggio per ammirarlo pieni di stupore... la notte dopo la posa della prima pietra, quando il cantiere era vuoto e immerso nel buio, egli andò là - nessuno potrà mai dire con sicurezza perché lo fece, se per saggezza o per disprezzo di se stesso - e mise un nido di termiti in una buca sotto la pietra. Quando, vari decenni dopo - era quasi trascorsa la sua intera esistenza, e il sovrano a causa dei molteplici disordini scoppiati durante il suo regno si era già da tempo dimenticato delle termiti -,
l'incomparabile costruzione fu portata a termine e lui, suo committente e artefice, salì per la prima volta sui merli della torre più alta, contemporaneamente anche le termiti avevano completato la loro invisibile opera. Dato che lui e tutti quelli che lo accompagnavano furono sepolti dalla polvere e dalle macerie nel crollo del gigantesco edificio, non ci è stato tramandato se egli avesse lanciato un ultimo grido a spiegazione di quanto era avvenuto, ma la leggenda riferisce con sorprendente ostinatezza che il volto del cadavere, ritrovato più tardi quasi intatto, mostrava un sorriso felice ».
La voce del vecchio tacque. Una delle porte col numero 401 era aperta, la piccola processione svoltò ed entrò in una sala completamente vuota, eccetto una grande poltrona di velluto rosso accostata alla parete di fronte. Il vecchio col berretto da cuoco vi condusse il dittatore, lo sollevò di peso e lo mise seduto. Nell'imponente poltrona egli pareva ora un bimbo, guardava le proprie gambe allungate sopra il cuscino del sedile.
« Come ti senti, piccolo? » chiese la voce del vecchio, « sembra che tu non abbia più una goccia di sangue nelle vene. »
« Non sento più niente », rispose il dittatore, « nè gli arti, nè il corpo, tutto è vuoto. Aiutami! »
Il vecchio annuì.
« Te lo avevo detto che dovevamo andare a un estremo servizio. »
Il dittatore non aveva più la forza di muovere la testa, ma volse gli occhi ardenti per guardarsi intorno nella sala. A parte il gruppetto dei bambini che si pigiavano in un angolino lontano, non vide nessuno.
« Capisco », sussurrò tentando un sogghigno, ma ne uscì soltanto una smorfia piagnucolosa.
« Non capisci affatto, piccolo », udì la voce del vecchio proprio accanto al suo orecchio. « Tu non puoi morire, però puoi divenire un Non-nato. »
Il dittatore annuì e chiuse gli occhi. Avvertì che mani delicate e fredde gli stavano togliendo la pistola di mano e lasciò fare. Poi sentì che il vecchio era indaffarato in preparativi, e udì la sua voce mormorare:
« Su su, così va bene, piccolo mio, bravo, piccolo mio ».
Si costrinse ad aprire ancora una volta le palpebre pesanti come macigni.
Solo con molto sforzo ci riuscì. Si vide davanti il volto del vecchio, ora paurosamente grande. L'uomo si era tolto il berretto da cuoco e lunghi capelli di un grigio pallido gli spiovevano fin sulle spalle. Il dittatore comprese di colpo che in realtà si trattava di una donna vecchissima.
Operosa e piena di premure come una bambinaia, gli fece un cenno col capo. E mentre nell'angolo della sala, adesso molto distante e piccolissimo, il gruppo dei bambini attaccava a cantare in sordina, la donna gli accostò il calice alle labbra.
Egli bevve e bevve a lunghi, avidi sorsi. Quando il calice fu vuoto e gli venne tolto, si ritrovò come un poppante nudo e grinzoso in mezzo alla sua lacera uniforme di pelle nera lucida, posata come una vuota larva d'insetto sopra il cuscino del sedile. Voleva gridare, ma dalla bocca gli uscì soltanto un gracchio strozzato.
« Su, su », canticchiò la vecchia bambinaia, « non
devi aver paura, piccino mio. Fra poco è tutto finito. Non fa male. »
Lo avvolse nel suo grembiule, fece un cenno, e i bambini con le lunghe camicie di pizzo le si avvicinarono, sempre cantando, e insieme uscirono attraverso la parete che si dissolse in una luce grigia e fosca.
La vecchia lo portò in braccio nel parco notturno della cittadella. Per un po' parve cercare un determinato posto fra gli alberi e i cespugli, poi lo trovò. Era una collinetta erbosa spaccata in due da una granata o un terremoto, così da somigliare a un grande grembo. La donna vi entrò con lui in braccio. Quando lo tolse dal suo grembiule, egli rimase in silenzio. Adesso era un minuscolo feto inarcato, con la fronte tumida. Lei lo adagiò delicatamente, nudo così com'era, sul fondo della fenditura nella terra.
« Su, su, piccino mio, dormi ora. »
Egli la vide tornare dai bambini che aspettavano sotto gli alberi. Poi, con un movimento lento, quasi impercettibile, il grembo della terra cominciò a chiudersi. Alle spalle del nero gruppo dei bambini e della vecchia l'enorme cittadella divampò in un'improvvisa fiammata. L'incendio pareva un unico, immane tulipano pappagallo.




IL circo brucia. Il pubblico è fuggito a rotta di collo. Le tribune sono vuote, il tendone è pieno di fumo e di fiamme. Il clown è solo sulla pista, il suo costume di lustrini riluce nel bagliore dell'incendio. Il suo viso è bianco come la calce, sotto l'occhio sinistro brilla la lacrima d'obbligo, il berrettino a cono sghembo sulla testa. Con una tromba lampeggiante suona la grande melodia dell'addio, sublime e ridicola.
Tutto è sogno. Lo so che tutto non è altro che sogno. L'ho sempre saputo, da quando ho iniziato a sognare di esistere: questo mondo non è reale.
Ha terminato la sua melodia, senza fretta e senza pecche. Esce, e dietro di lui crollano le travi e gli alberi in fiamme, il tendone si gonfia di fuoco e si affloscia, il vento della notte sa di cenere e di calore.
Fuori ci sono gli altri e stanno a guardare l'incendio con le braccia penzoloni. Tutti sapevano che sarebbe finita così. Nessuno ha cercato di porre in salvo qualcosa. Nessuno ha chiamato il clown, quando si trovava in mezzo al turbinio di scintille, nessuno era in pena per lui, neppure lui stesso. Nel riflesso i loro visi paiono quelli di dormienti. Ha preso a piovere un poco, ma troppo tardi e non a sufficienza, solo quel tanto che basta perché a tutti ricadano i capelli bagnati sopra la fronte.
Quando in sogno uno sa di sognare, allora è quasi
sul punto di svegliarsi. Mi sveglierò presto. Forse questo fuoco altro non è che il primo raggio di sole dell'alba di un' altra realtà, che si infila sotto le mie palpebre chiuse.
Pian piano si fa buio. L'incendio ricade a poco a poco su se stesso. Nelle case intorno non c'è una finestra illuminata. Se ne stanno lì, nere e con gli occhi infossati, nel crepuscolo. Da lontano giungono grida, poi alcuni spari e il crudele latrare di un mitra. Sono i soliti rumori che annunciano la notte, la notte piena di assassini, tormenti, interrogatori, la notte in cui nessuno si fida di nessuno.
È proibito svegliarsi. Già il desiderio di svegliarsi è ritenuto un tentativo di fuga, alto tradimento. Bisogna tenerlo nascosto.
« Se mi chiedete », dice il direttore nell'oscurità, « se sono stati loro ad appiccare il fuoco per rappresaglia o come avvertimento... »
Fruga nella cenere. Tutti sanno di che cosa parla. Due giorni prima un uomo è stato ucciso in mezzo al pubblico. Era uno della milizia della morte, uno dei supervisori che si trovano ovunque. Quando tutti se ne furono andati, lui stava ancora lì, seduto, con la sua uniforme di pelle nera lucida, ma morto, strangolato. Nessuno aveva notato qualcosa, nessuno aveva voluto notarlo.
« Non è stato nessuno di noi », dice qualcuno.
« No », risponde il direttore, « ma questo non conta, come vedete. »
Dopo un lungo silenzio una voce di donna mormora: « Non può continuare così in eterno ».
« Continuerà così », dice il direttore, « finché non
faremo niente per impedirlo. Si tratta di questo a partire da ora. »
Si tratta di svegliarsi.
« Se non facciamo niente », prosegue il direttore, « andrà avanti sempre così. Dobbiamo deciderci. Dobbiamo lottare. Dobbiamo unirci a quelli che lottano. »
Il clown si allontana e, strascicando i piedi in mezzo alle pozzanghere, si dirige alla sua roulotte. Di colpo si sente stanco morto. Rimane a lungo seduto davanti allo specchio e osserva il suo viso bianco come farina con la lacrima sotto l'occhio sinistro. Poi comincia a struccarsi. Un altro viso viene alla luce. È ancora più irreale, un viso di nessuno, un viso qualunque, gli è del tutto estraneo, gli è sempre stato estraneo, quel viso. Cerca di darsi per un attimo un'aria intelligente o almeno seria, ma subito i suoi tratti ritornano al loro stato di riposo, all'espressione di abituale stupore. È il viso di un vecchio poppante.
Che io ci sia, è già di per sé sorprendente, ma che sia potuto diventare così vecchio, lo è molto di più. Mi sono sforzato, signore e signori, ho fatto quanto potevo. Mi sono detto: Se a sopportare questo mondo ce la fanno tutti gli altri, per i quali non sarà certo più facile che per me... Ho aspettato per tutta la vita e sono invecchiato nell'attesa di svegliarmi, e guardate a che punto mi ritrovo. Li invidio tutti per la loro spensieratezza. Invece io sono oberato di pensieri.
Mentre si sta cambiando d'abito, entra il direttore con impermeabile e cappello e l'immancabile mozzicone di sigaro spento fra le labbra. La lunga frusta da pista col manico corto se l'è infilata sotto il braccio, la corda è arrotolata intorno all'impugnatura. Scuote il
cappello, lo posa sul tavolino per il trucco, la frusta accanto. Poi si siede a cavalcioni della sedia, lo schienale in mezzo alle ginocchia. Questo significa che ha qualcosa d'importante da dire. Il clown se ne sta lì e cerca di assumere un'espressione attenta.
« Dunque », dice il direttore, « sai di che cosa si tratta. »
Si guarda intorno, come nel timore che qualcuno possa ascoltare.
Il clown annuisce.
Si tratta di svegliarsi.
« Noi siamo pronti a collaborare », prosegue il direttore con voce soffocata. « Ormai non ci resta altro da fare. Gli altri sono tutti d'accordo. E tu? »
Il clown annuisce di nuovo.
Il direttore lo afferra alla spalla e lo scuote un poco. « Sta' a sentire, ora non si tratta più del tuo numero. Non si tratta più del circo. È tutto finito da stasera; sono cose per tempi normali. »
Cose per un altro sogno.
« Devi decidere », dice la bocca col mozzicone di sigaro. « Con noi o contro di noi, bianco o nero. Chi cerca di tenersene fuori è un traditore e verrà trattato come tale, da tutti. »
È proibito svegliarsi.
Il clown annuisce per la terza volta.
« Bene », ode la voce arrochita del direttore, « contiamo su di te, vecchio mio. Ti aspettiamo a mezzanotte alla seduta del comitato. Ma sii puntuale, capito? Là saprai tutto il resto. Ecco l'indirizzo. »
Il direttore gli dà in mano un foglietto.
« Leggilo, imparalo a memoria, e poi brucialo! in
nessun caso qualcun altro deve venirne a conoscenza, chiunque sia. Capito? »
Il clown annuisce ripetutamente.
Il direttore gli dà un leggero, amichevole buffetto sulla guancia, prende il cappello e se ne va. Ha dimenticato la frusta. Il clown la osserva, è ancora lì, sul tavolino per il trucco, l'afferra cauto e si sdraia con essa sul letto. La srotola, la riavvolge, la srotola di nuovo.
In fin dei conti non posso essere l'unico ad aver notato qualcosa. Mica sono poi così furbo. Si sono semplicemente messi d'accordo per non parlarne. O magari a loro sta bene così? Che a loro piaccia questo sogno?
Il clown si alza, indossa il suo vecchio cappotto, si avvolge una lunga sciarpa attorno al collo e si mette il cappello. Legge ancora una volta l'indirizzo, poi brucia il biglietto dentro il posacenere. Le fiammelle guizzano e si spengono.
Fuori, oltre la piazza dove stanno le roulotte, comincia un piccolo prato calpestato. Lì incontra un gruppo di suoi colleghi che, in silenzio, guardano tutti in una direzione. Egli si avvicina per vedere cosa c'è.
A una certa distanza, là dove inizia la strada illuminata che porta al centro della città, alcuni soldati della milizia in uniforme nera spingono innanzi una ventina di persone, uomini e donne, che hanno le mani incatenate dietro la schiena. Sebbene nessuno degli arrestati opponga resistenza, quelli in uniforme li colpiscono continuamente con manganelli.
Già il desiderio di svegliarsi è ritenuto un reato.
« Non posso vedere una cosa del genere », esclama fra i denti un'acrobata davanti al clown, « non posso proprio stare a guardare. »
Il partner, che le sta accanto, cerca di trattenerla, ma lei si divincola e corre verso il gruppo degli arrestati. Porta ancora la sua calzamaglia, si è gettata soltanto un mantello sulle spalle. Gira intorno ai soldati un paio di volte, li provoca in tutti i modi possibili, grida loro in faccia degli insulti, perde il mantello. I soldati della milizia non la guardano nemmeno. Invece uno degli arrestati stramazza di colpo a terra come morto. Uno dei soldati gli pianta lo stivale in un fianco. Visto che non serve, colpisce l'uomo col manganello. Gli altri arrestati si sono fermati e stanno a guardare con facce pallide, mezzo addormentate.
L'acrobata ritorna, senza mantello, al gruppo degli artisti del circo.
« Fate qualcosa! » balbetta. « Non state lì come idioti! Fate qualcosa! »
Mi sono sempre sforzato, signore e signori, ho fatto quanto potevo.
Il clown si fa avanti. Carezza la guancia dell'acrobata e mormora: « Lasciate che me ne occupi io ».
Sguardi pieni di stupore si appuntano su di lui. L'acrobata sussurra: « Avete sentito? »
Come si può aver paura, sapendo che fra poco ci si sveglierà? Anch'io non sono altro che un sogno. La mia esistenza è ridicola e incomprensibile.
Nel frattempo altri due soldati con l'uniforme nera e il mitra sotto il braccio sono sbucati tra le roulotte e si dirigono verso il gruppo degli artisti. Il clown va loro incontro. Essi si fermano, le armi spianate. I loro visi sono giovani, infantili e un poco gonfi. Hanno l'aspetto di chi dorme a occhi aperti.
Il clown estrae dalla tasca del cappotto la frusta
arrotolata del direttore e si dà con essa un colpetto alla tesa del cappello in gesto di saluto. I due in uniforme guardano incerti la frusta, si scambiano una rapida occhiata e si mettono sull'attenti.
« Mi conoscete? » chiede il clown in tono aspro, di comando.
Di nuovo i due si scambiano un'occhiata incerta, poi uno di loro dice: « Agli ordini. No ».
« Imparerete a conoscermi », prosegue il clown, « e vi assicuro che vi rincrescerà di avermi incontrato! Avete visto che cosa è successo là? »
« Agli ordini. No », risponde stavolta l'altro soldato. « Che razza di cretino è quello che tiene qui il comando? » li investe il clown. « Nessuno sa niente dell'altro, nessuno sa che cosa accade, ognuno pasticcia per conto proprio, come più gli piace. La parola disciplina pare sconosciuta da queste parti. Laggiù stanno portando via delle persone il cui arresto era riservato a me, soltanto a me! Quegli idioti troppo zelanti hanno così mandato all'aria uno dei nostri piani di capitale importanza! Maledizione, qui non si gioca a guardie e ladri, capito? Farete meglio ad affrettarvi, buffoni che non siete altro, a dire ai vostri compagni laggiù di liberare immediatamente i prigionieri. Immediatamente! avete capito? »
« Sissignore », dice il primo soldato. « Ma che cosa devo riferire, da chi viene l'ordine? »
« Da me! » gli grida il clown. « Dite a quei dannati pazzi che l'ordine viene dall'uomo con la frusta! Spero che loro siano più informati di voi, altrimenti che Dio li protegga! Che aspettate ancora? Alla svelta, forza! »
I due in uniforme corrono via, non molto in fretta,
sono visibilmente confusi. Il gruppo degli arrestati e le loro guardie sono scomparsi da qualche parte nell'oscurità. Il clown si volta verso i colleghi, ma anch'essi sono spariti. È solo nella piazza.
Lentamente si avvia in direzione del centro. C'è ancora tempo alla mezzanotte, ma dovrà cercare l'indirizzo che gli ha dato il direttore e il suo senso dell'orientamento è davvero penoso. Egli cammina e cammina, un piede davanti all'altro, alla cieca, come ha fatto per tutta la vita.
Così come ognuno procede durante la sua vita, senza sapere che cosa gli riserba il momento successivo, se al prossimo passo poserà ancora il piede sul terreno solido o se invece incespicherà già nel Nulla. Questo mondo è così logoro che ogni passo costituisce una decisione.
È proprio questo suo modo di camminare a suscitare fin dall'inizio del numero l'ilarità degli spettatori. Basta che lui arrivi sulla pista, sempre un po' barcollante, come se fosse incerto e a ogni passo vincesse l'incertezza, entrando in scena, si potrebbe dire, per puntiglio, cosi, tanto per provare. Come un bambino testardo.
Nelle strade che percorre ci sono auto ribaltate, alcune bruciano ancora. Molte finestre sono in frantumi, i vetri scricchiolano sotto le sue scarpe. Scavalca un cane morto e più oltre vede in una pozza d'olio un uccello steso sul dorso con le ali aperte. Probabilmente lo ha ucciso il fumo.
La mia esistenza è incomprensibile e ridicola. Ma non ho mai potuto decidere liberamente di scegliermene un' altra. Uno resta quello che è. La libertà esiste solo nel futuro, nel passato non più. Nessuno può darsi
un passato diverso. Tutto ciò che accade doveva avvenire così come è avvenuto. Dopo, tutto è ineluttabile, prima niente lo è. Si tratta soltanto di svegliarsi dal sogno. Ciò nonostante rincorriamo la libertà, non possiamo fare altrimenti, ma la libertà ci precede sempre di un passo come un miraggio, è sempre nell'attimo seguente, sempre nel futuro. E il futuro è oscuro, una parete nera e impenetrabile davanti ai nostri occhi. No, ci attraversa gli occhi, ci attraversa la testa. Siamo ciechi. Accecati dal futuro. Non vediamo mai quello che ci sta davanti, mai l'attimo seguente, finché non ci sbattiamo il naso. Vediamo soltanto quello che già abbiamo visto, cioè: niente.
Il clown entra in una delle case. È illuminata da una luce fosca. Le porte sono fracassate, negli appartamenti trova sedie capovolte, mobili sfasciati, tracce di incendi, tendaggi strappati. Attorno a un tavolo sono sedute delle persone, sembra che siano sedute lì da chissà quanto tempo, perché fra l'una e l'altra i ragni hanno tessuto le loro tele. I visi, disseccati come quelli di mummie, mostrano i denti o hanno le bocche spalancate come in silenziose risa. Tra loro il clown scorge un giovanotto smilzo che dorme col capo appoggiato sulle braccia. Nella polvere sul tavolo sono scritti dei numeri, molti numeri. Il giovanotto dorme come un bambino, e il clown esce senza far rumore, per non svegliarlo.
Arriva in cortili interni e sale sopra muri che si sgretolano e alla fine, come poteva ben prevedere, si è irrimediabilmente perduto. Ma non se ne preoccupa molto.
Poi, d'un tratto, si ritrova in una vasta piazza fin
troppo illuminata. Le molte vetrine di un grande magazzino diffondono luce tutt'intorno.
Il clown passa dall'una all'altra, sono tutte vuote. Solo quando svolta a un angolo, vede un assembramento di persone ferme a guardare una vetrina, ci sono anche parecchi soldati in uniforme tra loro. Non è completamente sicuro, però gli sembra di scorgere anche i due con cui ha parlato... e gli altri, quelli che conducevano via gli arrestati, e anche questi ultimi sono là. Non mostrano più alcun interesse gli uni per gli altri, sono del tutto presi da quello che vedono nella vetrina.
Il clown si alza in punta di piedi e guarda oltre le loro teste. Dietro lo spesso vetro è tutto un frullare di insetti giganteschi, vermi corazzati, lunghi quanto un braccio, che si rizzano su mille zampette tremolanti, onischi grandi come il palmo di una mano e coleotteri neri e grossi come stivali. In alto, sopra quel brulichio, è sospesa una grossa sfera liscia e metallica. A quanto pare, si libra nell'aria, senza un gancio o dei fili, e ruota in tutte le direzioni, ora lentamente ora vorticosamente. Sulla sfera c'è un ratto, un ratto enorme, grande quasi come un cane. Con molta abilità, si porta di volta in volta sempre nella direzione opposta, in modo da non cadere dalla sfera. Chissà da quanto tempo già si trova in quella tremenda situazione. Sembra allo stremo delle forze, il suo pelo è fradicio e arruffato per il sudore, la bocca semiaperta, così che si scorgono gli incisivi lunghi e gialli, il suo respiro è accelerato in modo pazzesco. Non ce la farà ancora per molto, presto scivolerà, piombando in quell'orrendo brulichio che già ora, avido, allunga mille antenne e chele verso di lui.
Questo è dunque lo spettacolo che raccoglie quelle persone davanti alla vetrina.
L'inferno è un brutto sogno che non finisce mai. Ma come ci sono capitato? Cosa devo fare per svegliarmi finalmente?
Il clown getta uno sguardo ai volti di quelli che lo attorniano. I loro occhi sono aperti, ma vitrei come gli occhi di chi dorme. Alcuni di loro hanno la bocca spalancata. Nessuno fa caso a colui che li osserva così da vicino. Si sono anche scordati gli uni degli altri. Ed egli sa che nessuno di quei pupazzi viventi risponderebbe se chiedesse loro della strada. Inoltre non può, non può nominare l'indirizzo, a nessun costo.
Mi rivolgo a te, a colui che mi sta sognando, chiunque tu sia. So di essere impotente contro di te, sei il più forte. Conducimi dunque dove vuoi tu, ma ricorda: non mi dai a intendere più niente.
Senza sapere come, il clown si ritrova poco dopo nelle vicinanze dell'edificio indicatogli dal direttore: si tratta di una pensioncina per artisti che conosceva già da prima. Per strada giacciono cadaveri, rigidi e incredibilmente disarticolati come manichini. In mezzo a loro sono sparse singole membra, persino teste con cappello e cravatta al collo.
Quando il clown svolta nella strada dove si trova la pensione, già da lontano vede che è gremita di persone che fluttuano avanti e indietro, come onde del mare. Davanti alla porta della pensione s'ingorgano, s'infrangono e rifluiscono di nuovo. Ma tutto si svolge senza un solo rumore e con esagerata lentezza. Ci sono anche molti uomini in uniforme nera fra loro e altri con lunghi cappotti di pelle. Sembra che si stiano picchiando
con estrema violenza ma, a causa della lentezza dei gesti, l'insieme dà solo l'impressione di un tetro cerimoniale. Alzando il braccio con un ampio movimento come di danza, ognuno colpisce in faccia col pugno o con ciò che stringe in esso quello che gli è più vicino. Niente si ode, se non un sordo ansimare e il botto e lo schiocco dei colpi.
Il clown si allontana velocemente e alza il bavero del cappotto per nascondere il viso, perché già uno dei tipi rissosi si è accorto di lui e lo addita agli altri. Alcuni volgono i loro visi impassibili e tumefatti, e ora una dozzina di persone avanza a lunghi passi fluttuanti verso di lui. Altri si uniscono. Il clown svolta rapido in un vicolo buio, poi nel seguente e in un altro ancora. Mentre corre, si gira a guardarsi alle spalle e non vede più i suoi inseguitori. Forse se ne è liberato.
Non ha senso fuggire. Non c'è via d'uscita. Ciò che avviene qui avviene anche altrove. Avviene sempre. A maggior ragione chi fugge cade in trappola.
Dopo aver percorso qualche altra viuzza oscura, scopre l'ingresso debolmente illuminato di un locale, una birreria, a quanto pare. L'ingresso consiste in una porta girevole di spropositate dimensioni, davanti e dentro la quale barcollano alcuni ubriachi. Solo man mano che si avvicina gli sorge il dubbio che non si tratti di ubriachi, perché tutti tengono gli occhi chiusi e le braccia protese, come se volessero imitare dei ciechi. Forse sono sonnambuli, perché quando il clown rivolge la parola a uno di loro, questi non risponde, ma continua a gironzolare intorno a braccia innanzi. Forse fingono, forse no. Il clown decide di entrare e di attendere
nel locale il momento di poter fare ritorno alla pensione. Si spinge avanti attraverso la porta.
Il locale si trova in un seminterrato ed egli rischia di ruzzolare da alcuni gradini che non aveva visto. Davanti a lui si apre una stanza assai lunga, a forma di tubo, che verso il fondo si perde nella penombra e in nuvole di fumo. Soltanto poche, nude lampade a incandescenza pendono dal soffitto e diffondono una luce fosca. Nell'angolo più lontano sulla sinistra si innalza una sorta di matroneo cinto da una balaustrata di legno intagliato. Tutti i tavoli del locale, tranne quello sul matroneo, sono pieni zeppi e ricoperti di bicchieri di birra semivuoti, posacenere rovesciati e avanzi di cibo. Gli avventori sono seduti pigiati l'uno contro l'altro, molti hanno appoggiato il viso alle braccia, alcuni hanno la guancia in una pozza di birra, mentre le loro braccia penzolano sotto il tavolo, tutti dormono a bocca aperta. Respiri, schiocchi di labbra e un rumoroso russare riempiono l'aria pesante. Di tanto in tanto uno dei dormienti si muove, gira il capo da una parte all'altra e sospira, come se non riuscisse a trovare la giusta posizione.
Scavalcando molte gambe allungate, il clown cerca di farsi strada in mezzo ai tavoli, fino al matroneo sul fondo, per raggiungere l'unico posto libero. Arriva davanti alla ringhiera di legno e si accorge che è del tutto priva di aperture, non ci sono neppure gradini per accedervi. Allora con gran cautela, in modo da non disturbare nessuno dei dormienti, si arrampica sul tavolo più vicino e da lì sopra alla ringhiera. Con un sospiro si lascia cadere su una delle sedie, appoggia il mento sulla mano e attende.

Sognano di sognare. Sono in un altro sogno. Non bisogna svegliarli. Vorrei poter dormire come loro.
« Ma mi stai a sentire? » domanda piano una voce irritata.
Il clown trasalisce. Soltanto adesso si rende conto che già da un bel po' qualcuno gli sta parlando sommessamente. È il direttore.
« Ma certo », mormora il clown, « sono attento. » Fruga nella memoria annebbiata alla ricerca di qualche parola che ha udito. Il discorso verteva, ora gli sovviene, sul fatto che la riunione del comitato era stata spostata lì all'ultimo momento, perché la milizia, forse a causa di una spiata, aveva avuto sentore della cosa e la pensione era stata bloccata.
« La notizia non sembra colpirti particolarmente », dice il direttore, guardando il clown di sottecchi, con diffidenza. « Hai idea di chi possa essere stato a fare la spia? »
Il clown scuote la testa.
« Come facevi a sapere che eravamo qui? » indaga il direttore, mentre mastica il mozzicone di sigaro spento. « O è stato il caso a condurtici? »
Il clown annuisce.
« Quante coincidenze, non trovi? » chiede il direttore.
Il clown annuisce pensieroso, poi si rigira sulla sedia e grida: « Ma il servizio qui è catastrofico! Quanto bisogna aspettare prima di poter ordinare qualcosa? »
« Zitto! » esclama il direttore con voce soffocata, tappandogli la bocca. Quando lo lascia di nuovo libero, il clown domanda: « Perché? »
Il direttore si appoggia allo schienale.
« Sta' a sentire, io mi sono assunto la responsabilità per te. Garantisco per te. Ma ci sono alcuni tra noi convinti che potresti essere tu il traditore. Io ho detto che ti ritengo incapace di una simile porcheria. Tu che cosa ne pensi? »
Il clown estrae dalla tasca del cappotto la frusta del direttore e gliela mette davanti. « To'! » dice. « L'hai dimenticata. »
Il direttore gira qua e là fra le labbra il mozzicone di sigaro. « Grazie, vecchio mio. Non ne ho più bisogno. »
Di nuovo scruta il clown a occhi socchiusi.
« Nessuno ha sentito quello che hai detto alle uniformi nere. Alcuni di noi ci terrebbero a saperlo. Che cosa gli hai detto? »
« Gli ho ordinato di dire agli altri che dovevano liberare i prigionieri. »
« Cosa? E che ti hanno risposto? »
« Hanno obbedito vedendo la frusta. »
Il direttore si accende il mozzicone e dà due, tre tirate, chiudendo gli occhi. Poi si scuote, batte in segno di approvazione sul ginocchio del clown e sghignazza.
« Ti credo. Ormai ti conosco e ti credo. Sistemeremo la faccenda. Lascia fare a me, vecchio mio. »
Si piega in avanti e guarda con insistenza il clown negli occhi. « Che cosa pensi, devo tenere subito il mio discorso? »
Il clown volge lo sguardo verso quelli che dormono e annuisce.
Non bisognerebbe svegliarli. Sono in un altro sogno. Forse sono proprio loro a sognare questo mondo.
« Senza dubbio », dice, « è il momento adatto. »
Il direttore si alza e va alla ringhiera. Ma di nuovo pare colto dal dubbio e si volta verso il clown.
« Forse sarà meglio chiedere prima al padrone. Sì, è uno dei nostri, ma forse è meglio domandargli se è d'accordo. In fondo il locale è suo. »
« Sì, sarebbe opportuno », riconosce il clown.
Il direttore sta per scavalcare la ringhiera. Vi è già seduto a cavalcioni, quando di nuovo si ferma e sussurra al clown: « Ascolta, tu potresti anche dire due paroline d'introduzione. Capisci: riscaldare un po' il pubblico e così via. Poi io ritorno e comincio il mio discorso ».
Il clown annuisce stancamente. « Lo sai che non mi riesce. Faccio subito una gran confusione. »
« E sforzati per una volta! » sibila il direttore, infuriato. « Ma non capisci? Ti sto dando una chance. Forse è l'ultima per te. »
« Di che cosa devo parlare? » « Di quello che vuoi. »
Il direttore salta a terra, si affaccia tra due colonnine della ringhiera e dice al clown: « L'importante è che tu li metta di buon umore. Di questo si tratta ».
Si tratta di svegliarsi. Solo di questo si tratta.
Il clown segue con gli occhi il direttore che si fa strada in mezzo ai tavoli fino a una porta sulla parete laterale del lungo stanzone. Là si gira ancora una volta e gli fa con la mano un cenno di esortazione. Quando apre la porta, si ode per un attimo un brusio di voci, voci anche di donna che risuonano eccitate, come se fosse in corso una lite. Probabilmente quello è l'ingresso della cucina.

Non voglio parlare. Non voglio dover parlare mai più. Non ho più nulla da dire.
Il clown scavalca rapido la ringhiera, si cala su uno dei lunghi tavoli sottostanti e, attento a non urtare nessuno, corre fra le teste dei dormienti e i boccali di birra verso l'estremità del tavolo. Vuole tagliare la corda.
Non serve a niente fuggire. Non c'è via d'uscita.
Proprio mentre è sul punto di scendere a terra, si spalanca di nuovo la porta della cucina e il direttore fa capolino.
« Hai già cominciato? »
« Non ancora », risponde il clown, avvilito. « Stavo giusto per farlo. »
« Sbrigati! » esclama il direttore. « Conto su di te. » La sua testa sparisce.
Il clown si raddrizza. In piedi sopra il tavolo, si volta in tutte le direzioni, poi incrocia le braccia dietro la schiena come uno scolaretto che deve recitare una poesia.
Stimatissimo pubblico, miei cari sognatori.
Il numero che segue è unico al mondo e richiede la massima concentrazione. Perciò vi chiediamo assoluto silenzio e un rullo di tamburo. Questo è il momento della verità, ma, per essere sincero, io non so che cosa sia un momento, non so niente della verità, e tanto meno so a chi alludo, quando dico « io ».
Quando capitai in questo sogno, che voi chiamate mondo, esso era brutto, ed è rimasto brutto o diventato ancora più brutto. Io non ho memoria. Non posso raccontarvi particolari o circostanze. Dimentico sempre ogni cosa. Pensai di essere capitato nel sogno
sbagliato o nel mondo sbagliato. O forse ero io a essere sbagliato per questo mondo, per questo sogno. Mi hanno picchiato e messo in galera, a volte mi hanno anche elogiato e dato molto denaro, sebbene fossi sempre lo stesso e facessi le stesse cose. Per questo mi sono dedicato a cercare di farvi ridere e piangere. Era quello che meglio mi riusciva.
Il clown è un po' seccato, perché è stato colpito da un sottobicchiere volante. Evidentemente qualcuno ha voluto sceglierlo come bersaglio di uno scherzo. Si volta verso il tipo burlone e vede sul matroneo, dove fino a un momento prima è stato seduto assieme al direttore, un uomo alto, calvo, dal fisico atletico che, guardandolo, ride balordamente e continua a lanciargli i tondini di feltro. È chiaro che si tratta di uno addetto al banco di mescita, perché porta un grembiule verde. Il clown, pensando che il tipo muscoloso agisca così senza cattive intenzioni, gli fa capire con un gesto della mano che per il momento non può partecipare al suo gioco, perché occupato in questioni ben più importanti. E sorride accattivante, per non irritare l'uomo un po' corto di cervello. Ma visto che questi, sghignazzando, continua a dargli fastidio, il clown sale su un tavolo più distante.
Io aspetto e aspetto di svegliarmi, finalmente, ma non ci riesco. Come un nuotatore capitato sotto un banco di ghiaccio, cerco il punto in cui riemergere. Ma non c' è. Per tutta la vita nuoto trattenendo il respiro. Non so come possiate farcela voi.
Il clown deve chinarsi per scansare nuovi sottobicchieri lanciati con infallibile mira. Ma poiché viene nuovamente colpito da alcuni proiettili, prende a propria
volta uno dei dischetti di cartone zuppi di birra che sono sparsi sul tavolo e lo lancia verso il banconiere, naturalmente sempre sorridendo, nella speranza di accontentare così il tipo un po' sciocco e convincerlo a farla finita col suo stupido gioco. E in effetti, sorpreso, l'altro la smette. Il clown si guarda intorno in tutte le direzioni, sperando che il direttore sia finalmente tornato perché prenda in mano lui la situazione. Ma non lo vede da nessuna parte.
Oppure colui che ci sogna non si rende affatto conto di starci solo sognando? Posso io, il suo sogno, farglielo capire, in modo che finalmente si svegli? E spiegatemi una cosa, signore e signori: che cosa accade di un sogno, quando colui che lo sogna si desta? Finisce nel nulla? Non esiste più? Ma io voglio uscire di qua... sul serio! Non voglio più sognare di esserci. Non voglio neppure farmi sognare chissà da chi. O forse non facciamo altro che sognarci tutti a vicenda? Un intreccio di sogni, un groviglio senza confini, senza fondo? Siamo tutti un unico sogno che nessuno sta sognando?
In quell'istante un bicchiere di birra vola a un pelo dalla testa del clown e va a infrangersi con uno schianto contro la parete, alle sue spalle. Non può essere stato il banconiere a lanciarlo, perché è venuto da tutt'altra direzione. Ma il clown non ha visto muoversi nemmeno uno dei dormienti. Mentre ancora, con la mano a visiera sugli occhi, sta scrutando in giro, da un' altra parte arriva in volo una bottiglia che riesce giusto in tempo a schivare. Nuove bottiglie, bicchieri di birra, posacenere di terraglia e altri oggetti seguono a destra e a sinistra da tutte le bande, finché una vera
e propria gragnuola di simili proiettili si scatena intorno a lui. Si ripara il capo fra le braccia e si china, ma in questo modo, non vedendo quasi più nulla, non può continuare a scansarsi con bastante destrezza e viene colpito più volte assai dolorosamente alla schiena, alle spalle e alle braccia.
Dato che l'impeto dei proiettili aumenta sempre, tanto che essi tagliano l'aria con l'acuto stridio dei colpi di sbieco, il clown ritiene opportuno saltare giù dal tavolo. A quattro zampe e sempre alla ricerca di un riparo, striscia fra le gambe di quelli che dormono immobili fino alla porta della cucina. Finalmente la raggiunge, ma non riesce ad aprirla. Non che sia chiusa a chiave, piuttosto è come se qualcuno, al di là, l'avesse barricata con dei mobili pesanti. Egli scuote la maniglia, martella coi pugni la porta, ciò che però in mezzo allo strepito dei proiettili si ode appena, e la spinge con le poche forze che gli sono rimaste. Ma è inutile. Si alza e guarda indietro nella sala. Ora anche il banconiere è sparito, forse anche lui ha cercato di mettersi in salvo dal bombardamento. Il clown è solo con l'esercito dei dormienti e la loro battaglia.
Se è vero che io sono soltanto il vostro sogno comune e che fin dall'inizio voi tutti insieme mi avete sognato e io non sono mai stato altro che il sogno del mio stimatissimo pubblico... allora vi prego, miei cari sognatori, vi prego con tutto il cuore: lasciatemi andare, adesso! D'ora in poi sognate di qualcos'altro, ma non di me! Non ce la faccio più. Non pretendo che vi svegliate. Continuate pure a dormire quanto volete e in pace, ma smettetela di sognarvi di me! Vi ho già
fatto divertire abbastanza, ora, per favore, lasciatemi andare!
In quello stesso istante un boccale di pietra lo colpisce alla fronte con la violenza di una granata e va in pezzi. Il pallido, vecchio viso di poppante del clown si fa d'un tratto rosso di sangue e mostra un'espressione di profonda sorpresa e di piena comprensione. Sorride, come se finalmente avesse capito tutto. Le sue braccia eseguono il cerimonioso gesto con cui ha sempre ringraziato il pubblico per i suoi applausi, poi, rigido come una bambola di cera, crolla in avanti sopra il tavolato coperto di cocci.




UNA sera d'inverno, il cielo è di un pallido rosa, freddo e vasto, sopra una sconfinata pianura coperta di neve. In mezzo a questa pianura si alza un rudere, i resti di un grosso muro. Lì si trova una porta. Una comunissima porta di casa, chiusa, dipinta di un color verde-mela, senza targhetta, e lì conducono tre gradini di pietra molto consumati. La neve davanti agli scalini è pestata da due sentinelle che vanno continuamente avanti e indietro come due pendoli oscillanti l'uno verso l'altro. I loro movimenti danno vita a una sorta di balletto eseguito con un incedere lento, una sosta, veloci passi pesanti, ancora una sosta, un'improvvisa giravolta, una rapido trotterellare e di nuovo un incedere lento: un complicato rituale. Le uniformi dei due uomini sono nere e lucide, come pure gli elmetti e i guanti alla moschettiera. Entrambi portano sotto il braccio un mitra, pronti a sparare. Quando s'incontrano, si scambiano ogni volta le armi con movimenti scattanti. Scambiano anche un paio di parole a mezza voce. In cielo volteggiano stormi di grossi uccelloni neri, silenziosi.
« I corvi! » dice la prima sentinella, indicando solo con lo sguardo verso l'alto. « Che ci fanno qui? Che significhi qualcosa? »
« Non fermarti! » mormora l'altro. « Se ci vede qualcuno... e poi sono cornacchie. »
E al successivo incontro:
« Non scendono mai a terra. Restano sempre in aria. Giorno e notte. Come fanno? E sono corvi, te lo dico io ».
I due si separano, tornano indietro, s'incontrano di nuovo, scambiano le armi.
« Cornacchie! » esclama il secondo soldato a denti stretti. La parola gli sale dalla bocca come una minuscola nuvoletta. « Una volta ho sparato a una di loro, così, tanto per fare. Aveva degli occhi, ti giuro, come lampadine tascabili. »
« Che c'è? » domanda il primo. « Hai paura? »
Al successivo incontro il secondo chiede di rimando: « E tu? »
Il primo si limita ad alzare le spalle.
Per un paio di volte vanno avanti e indietro senza dirsi una parola.
« Se solo si capisse », ricomincia la prima sentinella, « che scopo ha questo balletto da scimmie. »
La seconda tira su col naso che gli gocciola. « Sorvegliamo la porta. Che razza di domande. »
« Perché? Perché nessuno esca? »
« È chiaro. La testa di toro. Lo sai anche tu, è pericolosa. »
« Lì dentro? Dove? Dietro la porta? »
Pausa. Separarsi. Camminare a passi pesanti. Tornare indietro.
« È mai uscito qualcuno da questa porta? »
« Mai. Perché lui li divora tutti. » E con un ghigno ambiguo la seconda sentinella aggiunge: « Un mostro ».
Mentre si scambiano le armi, il primo borbotta:
« Dicono che chi entra non possa più tornare indietro. La porta conduce sempre in un altro luogo, però mai là da dove uno è venuto ».
« Lo vedi », esclama il secondo soldato soddisfatto, mentre si separano, « te lo dicevo, da qui non esce nessuno. »
Tornano indietro, s'incontrano di nuovo.
« Ma allora perché », domanda il primo, ostinato, « perché sorvegliamo la porta? »
« Accidentaccio... » fa l'altro, spazientito, « forse perché nessuno ci entri, che ne so. »
« Qualcuno vuole entrare lì dentro? »
« Di sua spontanea volontà certamente no. A meno che non sia stanco di vivere. »
Separarsi. Dietro front. Scambio delle armi.
Il primo insiste ancora. « Dunque nessuno vuole entrarci? »
« Io non lo farei neppure per un miliardo. »
« E finora mai nessuno c'è entrato? »
« Non ne ho la più pallida idea. Un tempo forse. Prima che io nascessi. Io non me ne ricordo. »
« Allora perché sorvegliamo la porta? »
Ora l'altro alza la voce. « Te lo dico io perché: perché nessuno esca. E poi chi se ne frega. Fa' quello che ti hanno detto di fare e chiudi il becco. »
La prima sentinella annuisce. « Va bene. »
E soltanto dopo aver camminato per lungo tempo avanti e indietro in silenzio, aggiunge come per scusarsi: « È come un dente malato. Uno finisce sempre per metterci la lingua, che lo voglia o no ».
Gli stormi degli uccelloni neri volteggiano e
volteggiano in cielo, senza un rumore. Alla fine il primo soldato non resiste più.
« I corvi », dice a voce bassa fra sé, « sono angeli camuffati. »
L'altro è colto da un attacco di tosse. « Sciocchezze! » butta fuori rauco. « Sono cornacchie, comunissime cornacchie. I corvi sono molto rari. »
« Gli angeli anche », replica il primo, senza guardare l'altro.
« Sciocchezze! » ripete il secondo soldato, ma questa volta la sua voce risuona fiacca e annoiata. « Se davvero esistono, allora sono tanti quanti i granelli di sabbia in riva al mare. Ma non qui, non da noi. »
« E dove, allora? » « In altri tempi. »
Al successivo scambio delle armi la prima sentinella domanda: « Hai già dato un'occhiata dall'altra parte? »
« Dietro la porta? No, a che scopo? »
Una lunga pausa, durante la quale i due eseguono la loro danza cerimoniale. Infine il primo esclama: « proibito non è».
« Ma neppure permesso », replica l'altro. « In ogni modo è contrario al nostro ordine di servizio. »
« Ma non viene mica specificato da che parte della porta devono stare le sentinelle. »
Continuano a camminare, una volta, due volte, tre volte s'incrociano e si guardano negli occhi in silenzio, poi all'improvviso, come per una tacita intesa, cambiano contemporaneamente direzione e ognuno dalla sua parte gira intorno al resto del muro, avanzando con fatica nella neve, lì alta e intatta. Quando s'incontrano,
la seconda sentinella esclama sollevata: « Te lo avevo detto! »
« Non c'è nulla dietro », replica la prima. « Dall'altro lato è identica al davanti. »
« Non conduce in nessun luogo », conferma la seconda. « Ora lo sai. »
Tornano entrambi ai loro posti e riprendono il rituale del servizio di guardia. Ma già al successivo cambio delle armi il primo soldato ricomincia da capo.
« Ma allora perché deve essere sorvegliata? »
« Cribbio! Forse è soltanto una vecchia tradizione dai tempi dei tempi, quando ancora questo era l'ingresso di qualcosa di speciale. »
La prima sentinella lancia uno sguardo dubbioso alla porta verde che gli sembra una normalissima porta di casa e mormora accondiscendente: « Tu credi, quindi, che sia rimasta soltanto perché c'è? »
« Giusto perché c'è », dice il secondo, sfinito, « da prima. »
Per un bel po' di tempo l'altro reprime visibilmente la voglia di porre ulteriori domande, entrambi vanno avanti e indietro, camminano, fanno dietro front, trotterellano e avanzano a passo lento, come prescritto, l'uno verso l'altro. Il primo soldato legge la paura e la rabbia negli occhi del compagno, per questo, al successivo incontro, dice con un ghigno conciliante: « Probabilmente hai ragione tu. Sicuro. Deriva tutto da tempi passati. Anche noi ».
Ma l'altro ha notato qualcosa con la coda dell'occhio. « Zitto! » sibila. « Chiudi il becco! Arriva qualcuno. Passeremo dei bei guai. »
Il primo non osa voltare la testa. « Che ci abbiano osservato? »
« È chiaro, per cosa dovrebbero venire sennò? Finora non è mai venuto nessuno. »
« Chi è? »
« Sono in due. » « Li conosci? »
« È... la figlia del vecchio! » « E poi? »
« Un tipo giovane. Non so chi sia. Cribbio, chiudi il becco ora. »
Le due sentinelle salutano presentando le armi e rimangono lì impalate, bianche in volto come bambole di cera.
Una ragazza in pelliccia si sta avvicinando. È a capo scoperto, i suoi folti capelli rossi sono annodati stretti sulla nuca. Il suo pallido viso è sottile, bello e compatto come una gemma. Calcando le sue orme, dietro di lei avanza a fatica nella neve un giovanotto di pelle scura che indossa sotto un impermeabile aperto il costume aderente e preziosamente ricamato di un matador. Nella mano sinistra tiene la spada avvolta nella cappa di porpora. La ragazza si è fermata di fronte ai resti del muro, senza voltarsi, e ora egli la raggiunge.
« Questa qui? » chiede lui, con lieve affanno, mentre sorride incredulo. « Sul serio? »
« Voi potete andare », dice la ragazza alle due sentinelle senza guardarle.
I due soldati non capiscono se si è rivolta a loro e non osano muoversi. Tirando un po' a indovinare, la prima butta lì: « Abbiamo severe disposizioni ».
La ragazza si volta verso di lui e lo osserva ben bene. La lingua, gelandosi, gli si attacca ai denti.
« Mi conoscete? »
La seconda sentinella saluta ancora una volta. « Agli ordini, Altezza! »
« Bene », dice la ragazza, « potete andare. »
« Ma il suo signor padre, il re, ha dato ordine che noi... »
La ragazza lo interrompe. « Mi assumo io la responsabilità. D'altronde mio padre è informato. Vi chiamerò quando potrete tornare. »
I due soldati si guardano, alzano le spalle e obbediscono all'ordine. Fuori della portata d'orecchio si fermano e restano in attesa, volgendo la schiena alla coppia. Solo di tanto in tanto uno di loro azzarda una veloce occhiata da sopra le spalle.
« Dunque », dice il giovanotto impaziente di agire, « varcando questa porta si arriva... dove? »
« Dipende », risponde la ragazza con noncuranza.
« Da che cosa? »
« Da chi la varca. E da quale parte. E quando. E perché. »
Si siede sui gradini e si stringe addosso ancor più la pelliccia. Egli la osserva, sorridendo, di straforo, poi gira incuriosito intorno al tratto di mura.
« Quei due », dice quando ritorna, indicando col pollice da sopra le spalle le ..sentinelle, « anche loro volevano evidentemente sapere qualcosa di più preciso. »
« Può darsi », mormora la ragazza. « Ma chi vuole saperne di più deve varcare la porta. »
Il giovane le si siede accanto. Le passa un braccio
attorno alle spalle, ma lei se lo scuote di dosso infastidita con un piccolo movimento. Il giovane ride sommessamente.
« Lei mi prende in giro, vero? »
La ragazza si volta verso di lui, ed egli si spaventa, come se la morte lo avesse guardato. Lei scuote appena appena la testa, poi fissa un punto lontano nella candida pianura e chiede:
« Lei di mestiere fa l'eroe? »
Il giovane matador si riscuote e riesce ancora a fare una breve risata. « Ma si, dipende. Cerco soltanto di superare la mia paura. »
« Paura? » chiede la ragazza come se la parola le fosse del tutto estranea.
« Della morte », risponde il giovane. « Io di natura sono vile... come quasi tutti gli uomini. Ho paura di morire. Per questo mi esercito. »
« È già morto qualche volta? » domanda la ragazza. « Quante? »
Il giovane studia il suo profilo, per capire se lei lo stia prendendo in giro, ma non ci riesce. Sospira rassegnato e risponde, come se parlasse a se stesso: « A dire il vero, non ci ho mai riflettuto sul serio ».
La ragazza annuisce e dichiara Con determinazione: « Si, lei può farcela ».
« Vuoi dire che lo sconfiggerò? »
« Sconfiggerlo? » ripete lei, stupita. « Nessuno può sconfiggerlo. È già molto se lei riuscirà a trovarlo, in questo labirinto. »
« E perché crede, principessa, che ci riuscirò? »
« Perché lei è un bambino », risponde la ragazza; e non c'è niente di offensivo nel modo in cui lo dice.
« Un bambino crudele e stolto forse, ma per l'appunto un bambino. Questo esercita su di lui un'irresistibile forza d'attrazione. Credo che si farà trovare da lei. »
« E che forza », domanda il giovane, « esercita su di lei? »
La ragazza guarda per un attimo davanti a sé, come in ascolto, prima di rispondere: « Nessuna ».
Il giovane tace e guarda anch'egli davanti a sé. Infine inspira profondamente e annuisce con aria grave. « Lei mi ritiene uno stupido, non è vero? Forse ha ragione. Però mi sembra che uno debba essere in qualche maniera stupido, se vuole fare una qualsiasi cosa. E vede, principessa, a me interessa più fare qualcosa che giustificarmene. »
La ragazza lo osserva con attenzione e non senza simpatia.
« Quanti anni ha di preciso? » domanda.
« Ventuno. Sono quindi maggiorenne. E lei? »
« Tremila », risponde la ragazza senza un sorriso.
« Mi trova bella? »
Egli resta per un po' senza parole, deglutisce. « Senta, vorrei pregarla di una cosa. Se io ora vado là dentro... voglio dire, potrebbe anche essere che io... »
« Oh si », dice la ragazza gelidamente, « potrebbe essere. Finora nessuno è tornato indietro. »
Il giovane matador pare d'un tratto confuso, addirittura impacciato. « Non mi fraintenda, principessa, o piuttosto... Il fatto è che io non ho niente che mi leghi al mondo qui fuori, non una famiglia, non... un'amante. E immagino che potrebbero verificarsi situazioni in cui sapere di essere aspettati da qualcuno potrebbe dare forza e coraggio. »
La giovane scuote la testa. « Mio povero ragazzo », dice, « crede davvero che il mondo qui fuori non appartenga già al labirinto? L'esistenza di questa porta fa sì che non ci siano"più un davanti e un dietro. Anche questo mondo non è altro che uno dei tanti sogni che lei ha sognato e sognerà ancora. »
Il giovane matador la guarda turbato e balbetta: « Eppure quasi tutti gli eroi di cui ho sentito parlare avevano con sé un qualche ricordo, un pegno d'affetto, d'amore, un talismano... »
La ragazza non fa niente per aiutarlo a uscire dal suo imbarazzo. Lo guarda a occhi sbarrati, come da molto lontano.
« Non ha mai pensato », chiede lentamente, « che è il mio fratellastro quello che lei intende ammazzare? »
Al giovane sale il sangue al viso. « No, a questo in effetti non avevo pensato. Nessuno al suo seguito ne parla e così credevo... Mi perdoni, la mia preghiera è stata indelicata e rozza. »
« Pensava », prosegue la ragazza, « che fosse così semplice essere un eroe? Pensava fosse sufficiente non riflettere, per fare il giusto ed evitare il falso? Se si trattasse soltanto di uccidere, allora il mondo sarebbe pieno di eroi. »
« Ma in fondo in fondo », ribatte il giovane, perplesso, « è una testa di toro, un mostro, una malformazione della natura, uno che richiede sacrifici umani! »
« Lei come fa a saperlo? » domanda la ragazza con dolcezza.
« È una voce che corre. Lo dicono tutti. Anche suo padre. Perfino sua madre, che pure lo ha generato. »
« Ma sì, sempre le vecchie storie », risponde lei
stancamente, « con cui si cerca di distinguere il bene dal male. Ma nella memoria del mondo tutto è Uno e Necessario. »
E dopo un breve silenzio aggiunge: « E dove vanno a finire tutti i ricordi del mondo, quando noi uomini già da tempo li abbiamo dimenticati? »
« Ma quelli che hanno varcato questa soglia prima di me », grida il giovane sconcertato, « quelli però li ha divorati! »
« Noi non ci ricordiamo di nessuno, come dovremmo perciò sapere quello che è stato di loro? »
Il giovane matador si alza, si è fatto pallido sotto la pelle bruna, gli occhi gli brillano come se avesse la febbre. « Lo scoprirò io, quello che è stato di loro! »
Ma la ragazza scuote nuovamente la testa. « Neppure tu diventerai un eroe, povero ragazzo. Un eroe è una persona di cui si può narrare, per questo deve rimanere nello stesso sogno, nella stessa storia di quelli che raccontano di lui. Ma la nostra memoria si arresta davanti a questa soglia. Colui che la varca ha lasciato il nostro sogno. »
« Io, invece », esclama il giovane, intrepido, « racconterò di te al tuo fratellastro, quando lo trovo. Non ti dimenticherò. »
Sale i tre gradini consunti e appoggia la mano sulla maniglia. Ma indugia ancora e si volta.
« Davvero », dice a voce bassa, « non vuoi darmi proprio niente? »
Per la prima volta la ragazza sorride e per la prima volta, proprio per questo, appare triste. « Vuoi dire un gomitolo di filo da poter seguire per tornare indietro, una volta compiuta la tua impresa? Non ti
servirebbe a niente, amico mio, perché appena questa porta si sarà richiusa alle tue spalle, tu non saprai più nulla di me, ne io di te. Non sapresti neppure che cosa potrebbe significare l'inutile gomitolo che tieni in mano e lo getteresti via. Passerai attraverso molte trasformazioni, da un'immagine all'altra. E ogni volta crederai di svegliarti e non ti ricorderai più del sogno precedente. Precipiterai dall'interno nell'interno dell'interno e sempre più oltre, fino nell'interno più interno, senza ricordarti, attraverso la vita e la morte e sempre sarai un altro e sempre lo stesso, là, dove non esistono differenze. Ma colui che vuoi uccidere non lo raggiungerai mai, perché quando lo avrai trovato, ti sarai trasformato in lui. Tu sarai lui, la prima lettera, il silenzio che tutto precede. Allora saprai che cos'è la solitudine. »
Si interrompe, come se avesse detto troppo, ma dopo un breve momento aggiunge piano: « No, non posso darti niente, neppure questo bacio ».
Sale da lui e lo bacia. Egli rimane inerte, le braccia penzoloni, e ha l'impressione di essere già null'altro che un nome da tempo dimenticato.
« E tu? » chiede. « Ti ricorderai almeno di questo bacio che nessuno ha ricevuto da te? »
« No », dice lei, « va'! »
Allora lui si volta rapido, preme la maniglia, la porta si apre facilmente ed egli la varca. La ragazza resta lì immobile, finché essa non si è richiusa.
La prima sentinella dà un colpetto all'altra. « Che cosa fa lei? La porta si è aperta e poi richiusa. »
« Non lo so », esclama l'altro.
Vedono che la ragazza fa loro un cenno, corrono da lei e presentano le armi.
« Mi dispiace per lui », dice la ragazza con voce sommessa.
I soldati si guardano perplessi.
« Per chi le dispiace, Altezza? » chiede il primo.
« Per nessuno », risponde. « Pensavo a mio fratello là, dietro la porta, a Hor, il mio povero fratello. »
E, mentre si volge e si allontana, mormora ancora una volta: « Povero, povero Hor ».





INDICE
cap.1 Scusa, non posso parlare più forte pag. 9
cap.2 Sotto l'esperta guida del padre e maestro pag. 14
cap.3 La cameretta nella mansarda è celeste pag. 20
cap.4 La cattedrale della stazione si ergeva su un grosso lastrone pag. 33
cap.5 Un pesante drappo nero pag. 50
cap.6 La signora scostò la tendina nera del finestrino della carrozza pag. 54
cap.7 Il testimone afferma: si sarebbe trovato in un prato notturno pag. 59
cap.8 L'angelo, di un pallore marmoreo, sedeva quale testimone fra il pubblico pag. 62
cap.9 Scuro come torba è il viso della madre pag. 73
cap.10Lento come un pianeta gira il grande tavolo rotondo pag. 75
cap.11L'interno di un volto, con gli occhi chiusi, e niente più pag. 83
cap.12Il ponte, al quale lavoriamo già da molti secoli pag. 92
cap.13È una stanza e contemporaneamente un deserto pag. 95
cap.14Fiamme danzanti erano gli invitati alle nozze pag. 108
cap.15Sull'ampia superficie grigia del cielo scivolava un pattinatore pag. 111
cap.16Questo signore è fatto solo di lettere pag. 113
cap.17In realtà si trattava solo delle pecore pag. 115
cap.18Marito e moglie vogliono visitare un'esposizione pag. 122
cap.19Al giovane medico era stato consentito pag. 133
cap.20Dopo la chiusura dell'ufficio pag. 141
cap.21Il palazzo del bordello sulla montagna risplendeva quella nottepag. 152
cap.22Il giramondo decise di porre fine alla sua passeggiata pag. 164
cap.23Quella sera il vecchio navigante non ce la fece più a sopportare il vento ininterrotto pag. 174
cap.24Sotto un cielo nero si estende un paese inabitabile pag. 179
cap.25Mano nella mano, due scendono lungo una strada pag. 186
cap.26Nell'aula pioveva ininterrottamente pag. 203
cap.27Nel corridoio degli attori trovammo alcune centinaia di persone in attesa pag. 215
cap.28Il fuoco fu aperto di nuovo pag. 221
cap.29Il circo brucia pag. 234
cap.30Una sera d'inverno pag. 255





INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
(EDGAR ENDE, 1901-1965)
Il toro e il grappolo d'uva (litografia, 1953)
Un angelo e l'uomo con le ali (disegno a china)
Dialogo in profondità (litografia, 1953)
Testa di Giano (litografia, 1953)
L'uomo-pianta (disegno a china e gessetto, 1947)
La liberazione (litografia, 1960)
Amore armato (litografia, 1960)
Il bagno materno (litografia, 1953)
Il carro-gabbia (litografia, 1960)
La verticale ben radicata (litografia, 1953)
Nudi davanti al negozio di frutta (litografia, 1953)
Il demone del bosco (litografia, 1960)
Orfico proliferare (litografia, 1960)
Il viso-foglia (litografia, 1953)
Peccatrice (litografia, 1953)
Il tempo malato (litografia, 1960)
Lazzaro aspetta (litografia, 1960)
Il re mendicante (acquaforte, 1936)






OPERE:

Der Wunschpunsch
Die unendliche Geschichte
Momo
Jim Knopf und Lukas der Lokomotivführer
Jim Knopf und die Wilde 13
Das Schnurpsenbuch
Die Geschichte von der Schüssel und vom Löffel
Lenchens Geheimnis
Der lange Weg nach Santa Cruz
Tranquilla Trampeltreu
Das Traumfresserchen
Der Lindwurm und der Schmetterling
Filemon Faltenreich
Norbert Nackendick
Ophelias Schattentheater
Die Schattennähmaschine
Das Gefängnis der Freiheit
Der Rattenfänger
Das Gauklermärchen
Der Goggolori
Trödelmarkt der Träume
Die Jagd nach dem Schlarg
Der Spielverderber
Phantasie/Kultur/Politik
Die Archaologie der Dunkelheit