La comunicazione
Una cosa è una cosa
Alberto Moravia
Da qualche tempo, alcune immagini mi
perseguitano. E' l'iceberg o montagna di ghiaccio galleggiante,
che emerge sulla superficie del mare con poco più che
un'escrescenza, mentre la parte più grande, colossale chiglia di
ghiaccio glauco, sta sott'acqua, invisibile e insospettata. E'
l'orifizio angusto, nascosto dai rovi, ostruito, introvabile, che
dà adito alla grotta o meglio al sistema di grotte, con
stalattiti e stalagmiti, laghi e fiumi sotterranei e saloni e
corridoi e passaggi. E' la piccola casa con una sola porta e una
sola finestra, dalla quale si scende in un'immensa cantina in cui
sta chiusa, nera e lucida, una macchina enorme, che pulsa, batte
e ferve. Le immagini sono molte ma l'idea è pur sempre la stessa:
la piccolezza e semplicità di ciò che si vede; l'enormità,
potenza e complicazione di ciò che non si vede. Ciò che si
vede, a dirla in breve e fuori di metafora, sono io,
insignificante impiegato in uno dei tanti istituti bancari della
città: ciò che non si vede sono ancora io o meglio, come dire?
la mia forza vitale, la mia energia psichica di
cui ho una consapevolezza insieme precisa e impotente. Purtroppo
però, tra queste due parti ineguali di me stesso non c'è
rapporto, e la maggiore non fornisce alcun impulso alla minore. A
tal punto che talvolta mi viene il sospetto che la parte
invisibile è più grande e non mi appartenga veramente, e io ne
sia soltanto il guardiano e, come tutti i guardiani, non possa
farne uso e debba limitarmi a custodirla intatta fino alla mia
morte.
Questa sensazione di non essere che il
depositario della mia vitalità mi avvilisce e mi deprime.
L'altro giorno, sospinto da un comprensibile bisogno di
confidenza, ne ho parlato a Bella, graziosa
dattilografa del mio stesso ufficio. Naturalmente non ho fatto
parola dell'iceberg, della grotta, della macchina: mi vergognavo.
Mi sono limitato ad accennare alla mia timidezza e al mio
isolamento. Bella mi ha sogguardato in silenzio con i suoi
occhioni un po' strabici, ha masticato con forza, per un poco, la
gomma americana che aveva in bocca, quindi ha detto con decisione:
"il tuo guaio, Girolamo, lo sai qual è? Che non comunichi."
"E cioè?"
"Ti ho osservato quando stai con noialtri: non parli, non partecipi, non intervieni, te ne stai lì, appartato, schivo: insomma, non comunichi."
"Non ho niente da dire."
"Che c'entra, comunicare non vuol dire aver qualcosa da
dire."
"E che cosa vuol dire allora?"
"Comunicare vuol dire.. comunicare."
"Ah si. Ma insomma come
si fa, secondo te, a comunicare?"
Di nuovo ha meditato, masticando con forza
la gomma e socchiudendo gli occhi. Alfine ha risposto: "Non
lo so, sono di quelle cose che facciamo senza rendercene conto,
come respirare o camminare. Un'idea. Domani andiamo al mare, no?,
insieme con Luciano, Giuliano e Cara. Beh, tu osserva come fanno
gli altri e quindi fa come loro."
Ho seguito il suo consiglio. Appena ci
siamo messi in macchina in direzione di Fregene, meta della gita,
ho preso ad osservare i miei compagni, con un'attenzione quasi
scientifica, un po' come un entomologo che, non visto, spii il
comportamento di un gruppo di insetti. Allora, quasi subito, ho
fatto una scoperta. I due ragazzi e le due ragazze parlavano con
grande vivacità mettendo nei loro discorsi tutta la gioia, il
sollievo, l'allegria, lo scatenamento della giornata di vacanza,
dopo sei giorni di lavoro. Comunicavano, insomma. Ma non già
attraverso qualcosa di personale, che premeva loro davvero, che
li riguardava direttamente e profondamente; bensì attraverso uno
scambio di informazioni sui più diversi argomenti: sport,
scienza, cinema, moda, politica, passatempi, economia e via
dicendo. Questa informazioni, poi avevano due caratteristiche a
dir poco sconcertanti: benché propinate con grande enfasi non
dicevano niente di nuovo su nulla, essendo tutte note e risapute;
e per lo più non erano ascoltate: mentre uno parlava, l'altro
aspettava con impazienza, senza ascoltarlo, che avesse finito,
per parlare a sua volta. Per esempio : "Da Roma a Milano, in
autostrada, ci vogliono soltanto cinque ore"
"Anche quattro con una macchina veloce"
"Io ho fatto il tratto Roma-Firenze in
due ore."
"Io quello Firenze-Bologna in mezz'ora."
"Bisogna rallentare ogni tanto, specie
con le macchine piccole."
"Il pericolo maggiore dell'autostrada
sono i tamponamenti."
"Anche la monotonia."
"Di notte soprattutto."
"E di giorno, dove lo metti il
riflesso del sole?"
Eccetera, eccetera. Ho guardato l'orologio,
hanno parlato dell'autostrada per mezz'ora filata, sceverando
l'argomento in tutti i suoi aspetti, dando e ricevendo tutte le
informazioni possibili, con un brio, un fuoco, manco avessero
fatto, ad ogni parola, una scoperta fondamentale. Li ho guardati:
erano accesi in volto, con gli occhi umidi di simpatia,
scintillanti, animati. Non ho potuto fare a meno di pensare:
"Che diavolo. Tutto questo per essersi scambiati qualche
notizia generica sul funzionamento dell'autostrada."
Ho voluto tentare a mia volta.
Nell'automobile stavamo seduti in questo modo: il guidatore e
Bella, davanti; Luciano, Cara ed io, dietro. Mi sono voltato
verso Cara, altra dattilografa, una bruna piccola e formosa, e ho
visto che fumava. Allora ho attaccato: "Io fumo venti
sigarette al giorno."
Mi ha risposto
prontamente: "Io ne fumo
soltanto dieci."
"Le sigarette di tipo orientale sono
le più leggere."
"Le sigarette di tipo americano sono
le più forti."
"Le sigarette francesi hanno il
tabacco molto scuro."
"Le sigarette inglesi hanno il tabacco
molto chiaro."
"Il tabacco può far venire il cancro."
"Il filtro ha eliminato il pericolo
del cancro."
"Un mio amico fuma sessanta sigarette
al giorno."
"Mio padre ne fuma fino a ottanta."
E così via. Abbiamo approfondito
l'argomento del tabacco, fino al tabacco da fiuto, fino alla pipa
e al sigaro. E quando ci siamo taciuti mi sono accorto che,
almeno per quanto riguardava Cara, la comunicazione c'era stata: mi guardava con occhi languidi, mi stava addosso con tutto un fianco, la sua mano
sfiorava la mia. Bella se n'è accorta e voltandosi ad un tratto
ha sibilato: "Le migliori sigarette sono le Transatlantiche",
con voce così furibonda che, d'istinto, Cara ed io ci siamo
tirati indietro, ciascuno dalla parte opposta.
Ecco Fregene. Ecco le file delle cabine
dipinte di verde e, in fondo, la striscia del mare azzurro. A
tutta prima, sono entrate in cabina per spogliarsi, Bella e Cara.
Aspettando di fuori le ho udite che si scambiavano
informazioni sui diversi costumi da
bagno: "Il costume a due pezzi è più comodo."
"Il costume a un pezzo solo è di moda."
"Il bikini mette in valore i fianchi."
"Il costume a un solo pezzo rende la
figura più slanciata."
"Per portare il topless ci vuole un
bel seno."
"Il topless è proibito."
Anche questa volta ho avuto l'impressione
che le due ragazze comunicavano. Ma che cosa veniva comunicato?
Almeno a giudicare dalle parole che avevo udito: un bel nulla.
Finalmente Bella è uscita e senza degnarmi
di uno sguardo si è avviata verso il mare. Mi sono spogliato in
gran fretta, mentre i miei due compagni si scambiavano delle
informazioni sugli orologi da polso, subacquei e normali, d'oro e
di metallo, con il cinturino di cuoio o a maglia d'acciaio,
quadrati o tondi; e mi sono precipitato dietro Bella. L'ho
raggiunta che camminava neghittosamente, facendosi lambire a ogni
passo i piedi dalle ondicelle del mare calmo. Le ho detto,
afferrandola per un braccio: "Bella, che hai?"
Non mi ha risposto, mi ha lanciato uno
sguardo obliquo e ha tirato via il braccio. Ho insistito :"Bella,
che ti ho fatto? Tu mi avevi consigliato di comunicare ed ho
comunicato."
"Sì, sì, me ne sono accorta, non
temere."
"O meglio, Bella, Cara si sarà forse
illusa di comunicare con me; ma io certo non ho comunicato con
lei. Bella io ti voglio bene e voglio comunicare soltanto con te
e non voglio comunicare come fanno loro, dando e ricevendo
informazioni; voglio comunicare dicendoti la verità sopra me
stesso, parlandoti di me. E voglio prima di tutto che tu sappia
che io, dentro di me, sono fatto come un iceberg, come una grotta
profonda, come una macchina sotterranea: la maggior parte di me
non si vede, quello che si vede è niente. Ed io, Bella, voglio
che tu conosca la parte nascosta di me, la quale, se tu mi
amerai, finalmente si manifesterà, si esprimerà."
Ho taciuto, fradicio di sudore: non ero mai
stato così sincero né avevo mai parlato tanto di me stesso. Ho
taciuto e ho guardato Bella con speranza. L'ho vista gettarmi di
sbieco un'occhiata valutatrice, quindi torcere la bocca spessa
con espressione di disprezzo. Ha detto alfine: "Non ti
capisco."
"Ma io..."
"Non ti capisco e non desidero capirti.
Al solito, tu non comunichi, Girolamo, almeno con me, Con Cara sì,
con lei, poco fa, in automobile, hai comunicato, Va, va con Cara."
"Ma bella..."
"Va con Cara e lasciami in pace."
In quel momento c'è stata nel cielo sereno
l'esplosione secca di un aeroplano militare ancora invisibile che
varcava la barriera del suono. Ho avuto un'ispirazione; e mentre
l'aeroplano passava sulle nostre teste con un fragore assordante,
ho gridato a Bella: "Un aeroplano militare supersonico."
L'ho vista alzare gli occhi a seguire con
lo sguardo l'aeroplano che si allontanava, tirandosi dietro una
lunga striscia di fumo. Quindi ha risposto con malagrazia: "Presto
ci saranno gli aeroplani supersonici anche sulle linee civili."
"Sì, andremo da Roma a Nuova York in
due ore."
"Il problema dell'aeroplano
supersonico è il fracasso al momento dell'atterraggio."
"Inoltre dovranno allungare le piste."
"L'aeroplano supersonico costerà di
più."
"L'aeroplano supersonico costerà di
meno."
E così via. Intanto mi sono avvicinato, le
ho preso una mano, me l'ha ceduta. Mi ha guardato con occhio
languido, mi ha sorriso, ha proposto: "Vogliamo andare a
fare un bagno?"
"Andiamo."
La mano nella mano, le dita tra le dita, ci
siamo avviati insieme verso il mare.