Lo specchio nello specchio

Michael Ende

"O forse non facciamo altro che sognarci tutti a vicenda? Un intreccio di sogni, un groviglio senza confini, senza fondo? Siamo tutti un unico sogno che nessuno sta sognando?"
"Il circo brucia", cap.29

What's called now the children literature goes back to the beginning of the 19th century. Before then fable had already existed, but it was not only for children: Fables were more significant than today and both children and adults lived in the fables' world.
"Civilization Desert", Michael Ende

indice

indice delle illustrazioni

opere




SCUSA, non posso parlare più forte.
Non so quando riuscirai a sentirmi, me che ti parlo.
Ma riuscirai mai a sentirmi?
Il mio nome è Hor.
Ti prego, accosta l'orecchio alla mia bocca, per quanto tu possa essere lontano, ancora adesso o sempre. Altrimenti non posso farmi capire da te. E, anche se ti degnerai di esaudire la mia preghiera, resteranno tanti silenzi che dovrai riempire da solo. Ho bisogno della tua voce, quando la mia viene meno.
Questa debolezza è dovuta forse al modo in cui Hor vive. Per quanto possa ricordare, egli ha sempre vissuto in un edificio gigantesco, completamente vuoto, in cui ogni parola pronunciata ad alta voce provoca un'eco destinata a non spegnersi.
Per quanto possa ricordare. Che cosa significa?
Nei suoi giri quotidiani attraverso le sale e i corridoi, Hor s'imbatte a volte nell'eco errabonda di un qualche grido che lui stesso ha un tempo sbadatamente lanciato. Siffatto incontro col proprio passato gli procura gran pena, tanto più che la parola allora sfuggitagli ha nel frattempo perso forma e sostanza fino a diventare irriconoscibile. A quello stupido balbettio, adesso Hor non ha più intenzione di esporsi.
Si è abituato a usare la voce - quando la usa - solo al di sotto di quel limite oscillante oltre il quale essa
produce un'eco. Tale limite supera di poco il silenzio assoluto, dal momento che la casa ha un udito crudelmente fine.
Lo so che pretendo molto, ma dovrai addirittura trattenere il respiro se vorrai udire le parole di Hor. Gli organi della lingua gli si sono atrofizzati per il troppo tacere... si sono modificati.
Hor non potrà parlarti con chiarezza maggiore di quella che hanno le voci che odi poco prima di addormentarti. E tu dovrai mantenerti in equilibrio sul filo sottile che separa il sonno dalla veglia, oppure galleggiare come coloro per i quali il sotto e il sopra sono la stessa cosa.
Il mio nome è Hor.
Meglio sarebbe dire: io mi chiamo Hor. Perché chi, a parte me, mi chiama per nome?
Ho già spiegato che la casa è vuota? Voglio dire, completamente vuota. Per dormire Hor si raggomitola in un angolo o si sdraia per terra là dove già si trova, anche al centro di una sala, nel caso che le pareti siano troppo distanti.
Hor non ha problemi di alimentazione. La sostanza che compone le pareti e le colonne è commestibile.. almeno per lui. È una materia giallastra, un po' trasparente, la cui ingestione placa subito fame e Peraltro, a questo riguardo, le esigenze di Hor sono davvero minime.
Egli non si cura dello scorrere del tempo. Non ha modo di misurarlo, se non attraverso il battito del proprio cuore, che però è mutevolole. Non conosce il giorno e la notte, lo circonda una perpetua luce crepuscolare. Quando non dorme, gira di qua e di là, senza meta. Lo fa semplicemente per un impulso, un bisogno la cui soddisfazione gli procura piacere. Solo di rado gli accade di entrare in una stanza che crede di riconoscere, che gli sembra familiare, come se un tempo vi fosse già stato. D'altro canto, spesso, sicuri indizi gli fanno capire di passare da un posto in cui è già stato una volta: lo spigolo mangiucchiato di una parete, per esempio, o un mucchietto di escrementi secchi. La stanza gli è comunque estranea al pari delle altre. Forse in sua assenza le stanze cambiano, crescono, si allargano o si restringono. Forse è proprio il suo passaggio a provocare tali mutamenti, però non ama questo pensiero.
Che, a parte Hor, qualcun altro abiti in questa casa lo escludo. Certo, vista l'incredibile ampiezza dell'edificio, non è dato provarlo. È tanto poco probabile quanto impossibile.
Molte stanze hanno delle finestre, ma a loro volta queste danno soltanto su altri locali, in genere più vasti. Sebbene l'esperienza finora non gli abbia insegnato altro, di quando in quando Hor si trova a immaginare di giungere un giorno a un'ultima, estrema parete, le cui finestre offrano la vista di qualcosa di completamente diverso. Hor non sa dire di che cosa potrebbe trattarsi, ma talora si lascia andare a lunghe meditazioni sull'argomento. Sarebbe falso affermare che egli addirittura brami una tale vista: è soltanto una specie di gioco, l'invenzione fine a se stessa delle più svariate possibilità. Nei suoi sogni, comunque, ha goduto a volte di tali vedute, senza però averne conservato, al risveglio, qualcosa da poter comunicare. Sa solo che si è trattato appunto di questo e che quasi sempre si è
destato col viso inondato di lacrime. Ma Hor attribuisce poca importanza alla cosa, la ricorda soltanto per la sua singolarità...
Mi sono espresso male. Hor non sogna e non ha neppure ricordi propri. E tuttavia la sua intera esistenza è piena dei terrori e delle estasi legati a esperienze che assalgono la sua anima a mo' d'improvvisi ricordi.
Certo non sempre. Talvolta, per lungo tempo, la sua anima resta quieta come un immobile specchio d'acqua, mentre in altri momenti queste esperienze lo aggrediscono da ogni lato, angustiandolo, abbattendosi su di lui come lampi, ed egli fugge per i corridoi deserti, barcolla finché, stremato, cade a terra e lì resta, vinto. Perché contro di esse è privo di difese.
A mo' d'improvvisi ricordi. Ho detto così? Mi chiamo Hor.
Ma chi è questo: io - Hor? Sono soltanto una persona? Oppure sono due persone contemporaneamente e possiedo le esperienze della seconda? Sono molte persone contemporaneamente? E tutte le altre persone che io sono vivono là fuori, oltre quell'ultima, estrema parete? E non sanno nulla delle loro esperienze, nulla dei loro ricordi, dato che essi non trovano dimora presso di loro, là fuori? Ah, ma da Hor restano, vivono con la sua vita, lo assalgono senza pietà. Si uniscono a lui, che se li tira dietro come uno strascico, già ora interminabile, che scivola attraverso le sale e le stanze e sempre più cresce, cresce.
Oppure qualcosa di mio arriva fino a voi là fuori, a quell'uno o a quei molti che siete tutt'uno con me come le api e la loro regina? Mi sentite, membra del mio corpo sparso? Sentite le mie impercettibili parole, ora o fuori del tempo?
Per caso cerchi me, oh mio altro io? Cerchi Hor, che sei tu stesso? Cerchi il tuo ricordo che è presso di me? Forse che, come stelle, ci avviciniamo l'uno all'altro attraverso spazi infiniti, passo dopo passo, immagine dopo immagine?
E arriveremo mai a incontrarci, un giorno o fuori del tempo?
E cosa saremo allora? O non saremo più? Ci annulleremo a vicenda come il sì e il no?
Ma di una cosa puoi essere certo: io avrò serbato tutto con cura.
Il mio nome è Hor.




SOTTO l'esperta guida del padre e maestro, il figlio aveva desiderato ardentemente di possedere le ali. Per molti anni, in lunghe ore di lavoro nei suoi sogni, era andato fabbricandosele, penna dopo penna, muscolo dopo muscolo, ossicino dopo ossicino, finché esse avevano pian piano assunto forma. Le aveva fatte crescere nella giusta posizione dalle scapole (era particolarmente difficile percepire con esattezza la propria schiena in sogno), e a poco a poco aveva imparato a muoverle nella maniera adeguata. Aveva messo a dura prova la propria pazienza continuando a esercitarsi finché, dopo innumerevoli tentativi falliti, era riuscito per la prima volta a sollevarsi per un breve istante da terra. Ma poi aveva acquistato fiducia nella propria opera, grazie all'incrollabile benevolenza e severità con cui il padre lo guidava. Col passare del tempo si era talmente abituato alle ali che le considerava in tutto e per tutto una parte del suo corpo, al punto da avvertire in esse sensazioni di dolore o di benessere. Infine aveva cancellato dalla memoria gli anni trascorsi senza possederle. Le aveva avute fin dalla nascita, al pari degli occhi o delle mani. Era pronto.
Non era affatto proibito lasciare la città-labirinto. Al contrario, chi vi riusciva veniva considerato un eroe, un uomo di grande talento, e della sua leggenda si continuava a parlare a lungo. Ma ciò era consentito solo
alle persone felici. Le leggi cui sottostavano gli abitanti del labirinto erano paradossali, ma immutabili. Una delle più importanti diceva: Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne.
Però le persone felici erano rare nei millenni.
Chi era disposto a tentare doveva prima sottoporsi un esame. Se non riusciva a superarlo, la punizione cadeva su di lui, ma sul suo maestro, ed essa era dura e crudele.
Il viso del padre si era fatto estremamente serio, allorché gli aveva detto: « Ali di questo tipo portano soltanto chi è leggero. Ma è solo la felicità a rendere leggeri». Poi aveva fissato a lungo il figlio con sguardo indagatore e infine gli aveva chiesto: « Sei felice? » Oh, se si trattava di quello non c'era alcun pericolo.
Era tanto felice che pensava di potersi librare in aria anche senza ali, dal momento che amava. Amava con tutto l'ardore del suo giovane cuore, amava senza riserve e senza ombra di dubbio. E sapeva che il suo amore era corrisposto altrettanto incondizionatamente.
Sapeva che la sua amata lo stava aspettando e che al termine del giorno, dopo aver superato l'esame, sarebbe andato da lei nella sua stanza celeste. Allora, leggera come un raggio di luna, si sarebbe adagiata fra le sue braccia e, uniti in quell'interminabile amplesso, si sarebbero librati sopra la città lasciandosene alle spalle mura come un giocattolo per il quale erano diventati ormai troppo grandi; avrebbero volato sopra altre città, sopra foreste e deserti, mari e montagne, avanti, sempre più avanti, fino ai confini del mondo.
Sul corpo nudo egli non portava altro che una rete
da pesca che lo seguiva, come un lungo strascico, per le strade e i vicoli, i corridoi e le stanze, secondo il cerimoniale prescritto per quell'ultimo, decisivo esame. Era certo di riuscire ad assolvere il compito che gli era stato assegnato, sebbene non lo conoscesse. Sapeva solo che esso si confaceva sempre alla natura dell'esaminando. Perciò non era mai uguale a quello di un altro. Si poteva dire che il compito consisteva proprio in questo, nell'indovinare, in base a un'effettiva conoscenza di sé, in che cosa consistesse. L'unica rigida norma alla quale doveva attenersi era quella di non entrare, per nessun motivo, per la durata dell'esame, cioè fino al tramonto, nella stanza celeste della sua amata. Altrimenti sarebbe stato subito escluso da tutto il resto.
Sorrise, ripensando all'espressione grave, quasi furente, con cui il suo adorato, benevolo padre gli aveva comunicato il divieto. Non provava in sé la benché minima tentazione di trasgredirlo. A questo riguardo non c'era alcun pericolo, poteva stare tranquillo. In fondo non era mai riuscito a capire bene tutte quelle storie in cui qualcuno, proprio a causa di un tale divieto, si era sentito irresistibilmente spinto a violarlo. Camminando per le strade e gli edifici ingannevoli della città-labirinto, era già passato più volte davanti al fabbricato a forma di torre al cui ultimo piano, quasi sotto il tetto, abitava la sua amata, e due volte persino davanti alla sua porta, al numero 401. E aveva proseguito, senza neppure fermarsi. Ma il vero esame non poteva consistere in questo. Sarebbe stato troppo, troppo semplice.
Ovunque gli capitasse di andare, si imbatteva in infelici che lo seguivano con occhi pieni di ammirazione,
di rimpianto o anche d'invidia. Molti li conosceva già, sebbene gli incontri fra le persone non potessero mai essere provocati intenzionalmente. Nella città-labirinto la posizione e la disposizione delle case mutavano di continuo, cosicché era impossibile darsi appuntamenti. Ogni incontro era casuale o voluto dal destino, a seconda di come lo si volesse intendere.
D'un tratto il figlio avvertì che qualcosa tratteneva la rete dietro di lui e si voltò. Seduto sotto l'arco di un portone, vide un mendicante con una gamba sola, che aveva infilato una delle stampelle nelle maglie della rete.
« Che fai? » gli chiese.
« Abbi pietà! » rispose il mendicante con voce roca. « Per te non sarà un gran peso, mentre a me darà molto sollievo. Tu sei un uomo felice e potrai sfuggire al labirinto. Ma io resterò qui per sempre, perché non sarò mai felice. Perciò ti prego, porta via con te almeno un po' della mia infelicità. Così prenderò anch'io un minimo di parte alla tua salvezza. Sarebbe una consolazione per me. »
Raramente le persone felici sono dure d'animo: propendono alla compassione e desiderano far partecipi anche gli altri della propria ricchezza.
« Bene », disse il figlio, « sono contento di poterti rendere un favore per così poco. »
Già al successivo angolo di strada incontrò una donna dal volto emaciato, vestita di stracci, assieme a tre bambini mezzo morti di fame.
« Non vorrai certo negarci quanto hai concesso a quello là », gli disse, piena d'odio.
E attaccò alla rete una piccola croce da sepolcro.
Da quel momento la rete si fece più pesante, sempre più pesante. Di infelici ce n'erano in gran quantità nella città-labirinto e ognuno di loro, imbattendosi nel figlio, attaccava qualcosa alla rete, una scarpa o un gioiello prezioso, un secchio di latta o un sacco colmo di denaro, un capo di vestiario o una stufetta di ferro, una ghirlanda di rose o un animale morto, un utensile o addirittura, in ultimo, il battente di una porta.
Si avvicinava la sera e con essa la fine dell'esame. Il figlio, piegato in avanti, procedeva a fatica, passo dopo passo, quasi dovesse lottare contro una bufera violenta e silenziosa. Il suo viso grondava sudore ma egli era ancora pieno di speranza, perché credeva di aver capito in che cosa consisteva il suo compito e, nonostante tutto, si sentiva abbastanza forte per portarlo a termine.
Poi venne il crepuscolo e ancora nessuno era comparso per dirgli che quanto aveva fatto bastava. Senza sapere come, era arrivato, con l'infinito carico che si trascinava dietro, alla terrazza sul tetto dell'edificio a torre in cui si trovava la stanza celeste della sua amata. Non aveva mai notato che da lì si scorgeva in basso una spiaggia, ma forse fino a quel momento non era mai stata in quel luogo. Il figlio divenne profondamente inquieto nel rendersi conto che il sole si stava già immergendo dietro l'orizzonte caliginoso.
Sulla spiaggia c'erano quattro persone che, come lui, avevano le ali, e, sebbene non potesse vedere colui che parlava, udì chiaramente che venivano dichiarate libere. Gridò verso il basso chiedendo se lo avessero dimenticato ma nessuno gli prestò attenzione. Con mani tremanti armeggiò attorno alla rete, ma non riuscì a togliersela di dosso. Gridò ancora a lungo, chiamando ora il padre perché venisse ad aiutarlo, mentre si sporgeva il più possibile dal parapetto.
All'ultima, morente luce del giorno, vide laggiù la sua amata completamente avvolta in veli neri venire fuori della porta. Apparve quindi, tirata da due morelli, una carrozza nera il cui tetto era costituito da un unico grande ritratto, il viso colmo di dolore e di disperazione del padre. L'amata salì nella carrozza e il veicolo si allontanò fino a sparire nell'oscurità.
In quel momento il figlio comprese che il suo compito era stato quello di disubbidire e che non aveva superato l'esame. Sentì le sue ali create in sogno avvizzirsi e cadere a terra come foglie d'autunno, e capì che non avrebbe più potuto volare nè essere felice e che per il resto della sua vita sarebbe rimasto nel labirinto.
Perché adesso vi apparteneva.




LA cameretta nella mansarda è celeste, celesti sono le pareti, il soffitto, il pavimento e i pochi mobili che vi si trovano. Lo studente sta seduto al tavolo e si tiene la testa fra le mani. Ha i capelli arruffati, le orecchie in fiamme, le mani fredde e umide. Freddo e umido è l'intero stanzino. E ora è andata via anche la corrente elettrica.
Egli avvicina il libro e ricomincia da capo. Deve, deve risolvere a ogni costo quel problema. Fra una settimana ha l'esame.
« ...La teoria della relatività ristretta si basa sulla costanza della velocità della luce... P è un punto nel vuoto... P' un punto infinitamente vicino, la cui distanza da P è uguale a d sigma... un punto infinitamente vicino... da P parte al tempo t un impulso luminoso che raggiunge P' nel tempo t+dt... »
Lo studente si sente gli occhi duri e secchi come bottoni di corno. Se li stropiccia con le dita finché iniziano a lacrimare. Appoggiandosi allo schienale della sedia, dà uno sguardo in giro alla mansarda, un tramezzo di truciolato che lui stesso ha costruito due anni prima in un angolo dell'ampio solaio. Allora gli piaceva il celeste, adesso non più. Ma non ha tempo di cambiare alcunché. Ne ha perso anche troppo, di tempo.
Gli permetteranno di continuare ad abitare lì? Paga l'affitto, certo, ma ben poco. Proprio per questo si è
stabilito lì. Chi è senza soldi non può avere molte pretese. Ma ora che è morto il vecchio proprietario forse gli aumenteranno l'affitto. E allora dove andrà? E proprio in quel momento, prima dell'esame. Come fa uno a concentrarsi se non sa neppure dove sarà l'indomani? Se soltanto gli eredi si mettessero una buona volta d'accordo! Almeno saprebbe che pesci pigliare!
Allontana il libro e si alza. È pallido e alto, anche troppo alto. Per non urtare il soffitto deve incassare la testa fra le spalle. Vuole sapere come stanno precisamente le cose, ora, subito, in modo da poter continuare a lavorare senza preoccupazioni.
L'immenso solaio che attraversa è stipato degli oggetti più impensabili, mobilia, vasi giganteschi, animali impagliati, bambole a grandezza naturale, macchine e ingranaggi misteriosi. Scende le ampie scale e percorre la lunga galleria dove sono appesi migliaia di specchi ciechi, specchi grandi e piccoli, piani e curvi che riflettono mille volte, ma sfocata, la sua immagine.
Finalmente arriva in una delle grandi sale. Ha l'aspetto di un museo etnologico dopo un saccheggio. Le vetrine sono per lo più infrante, i gioielli e gli oggetti di valore che vi erano esposti sono stati scaraventati fuori. Sarcofaghi da mummie sono stati forzati, sul pavimento giacciono ammucchiati cocci di vasellame, le armature sono messe tutte sbilenche e vestiti da festa aztechi composti di piume di colibrì cadono in pezzi, rosi dalle tarme.
Lo studente si ferma guardandosi attorno stupito.
Come può essere andato tutto così in rovina dall'ultima volta che è stato lì?
Ma quando è stato lì per l'ultima volta? Era ancora
vivo il vecchio proprietario? Probabilmente si. In realtà lui non ha mai avuto modo di vederlo in viso. Solo il suo vecchio domestico, un uomo dal volto severo e un contegno dignitoso e solenne.
Proprio mentre lo studente sta ancora pensando, il domestico fa il suo ingresso nella sala. Tiene un grosso piumino da spolvero sotto il braccio, ha la livrea sudicia e lacera e i capelli bianchi in disordine, e - sì, davvero! - vacilla un po' nel camminare, fa gesti scomposti con le mani e borbotta fra sé.
« Buon giorno! » dice lo studente, cortese. « Per favore potrebbe dirmi... »
Ma il vecchio domestico gli passa accanto gesticolando e non sembra accorgersi di lui. Lo studente lo segue.
« Assurdo! » mormora il domestico con un gesto risolùto. « Iniziare è del tutto assurdo. Buon di, mio caro giovane. »
Lo studente è alquanto confuso. « Che cosa intende dire? »
« Non ha importanza che cosa! » grida il domestico. « Un inizio è sempre un'assurdità mostruosa. Perché? Perché non esiste! Forse che la natura conosce un inizio? No! Dunque iniziare è contro natura. E nel mio caso? È altrettanto assurdo. Una prova? Gliela do subito. »
Sfila una bottiglia di tasca, si rovescia un sorso in gola, si scuote, rutta e rimette via la bottiglia con cura. Lo studente sta per porgli la sua domanda, ma già il vecchio riprende a parlare:
« Bisogna pensare » - si batte più volte la fronte - « bisogna pensare con obiettività! È chiaro, giovanotto? E se io penso con obiettività, allora devo dire a me
stesso che non esiste la benché minima possibilità che
io, un uomo solo e debole, possa fare qualcosa per cambiare la situazione. Chi sono io per avere il coraggio di farlo? Un vecchio snervato dallo sforzo incessante di pensare, ecco chi sono. Non mi contraddica! »
Ritira fuori la bottiglia, beve e si asciuga la bocca con la manica. « Bisogna vivere basandosi sull'intelletto, capito, giovanotto? Basandosi sulla conoscenza! Ma non è affatto semplice. Meno che mai nella vita di tutti i giorni. Anche supposto che io mi getti nella lotta inutile contro il predominio di tutta questa massa sonnecchiante di polvere... cosa otterrò? Nulla, assolutamente nulla, questo mi dice la logica. A parte forse un peggioramento della situazione già di per sé disperata. Un esempio: ora aprirò quella tenda e vedrà che si strapperà subito. »
Tira la pesante tenda alla finestra ed essa subito si strappa, cadendo a terra in una nube di polvere.
« Un altro esempio », continua il vecchio, imperterrito. « Proverò ad aprire la finestra e mi cadrà subito addosso. »
Prova ad aprire la finestra e subito gli cade addosso. I vetri s'infrangono con un gran tintinnio al suolo.
Il domestico guarda lo studente con aria trionfante. « Come le avevo detto, questo dimostra tutto. Il caos cresce a ogni nostro tentativo di dominarlo. La cosa migliore sarebbe starsene quieti e non fare più nulla. »
Beve ancora un sorso.
« Ah », esclama lo studente, guardandosi attorno distrattamente, « lei vuole mettere ordine qui dentro? »
« Spolverare! » lo corregge il vecchio domestico.
« Spolverare, come ho fatto per tutta la vita. Ma lei stesso può vedere quello che resta di tutta la nostra fatica e della pena che ci siamo dati: polvere. O meglio: cenere. Polvere all'inizio e cenere alla fine. Non cambia niente. In ogni caso è come se uno non fosse mai esistito. Uno se ne va senza lasciare alcuna traccia di sé, questa è la cosa peggiore. »
« Comunque », fa lo studente, gentile, tanto per dire qualcosa di incoraggiante, « un po' d'aria fresca entra anche qui dentro. Dalla palude giunge il fischio dei beccaccini che vi si vanno a posare. È già qualcosa. »
Il vecchio ridacchia e tossisce. « Sì, sì, la cara natura. Non fa che seguire il suo corso, se ne frega dei nostri problemi. Non ha neppure bisogno di prendere delle decisioni, come invece devo fare io. Ma no, l'uomo non è un uccello, non ha ali. L'uomo deve vivere basandosi sulla conoscenza obiettiva delle cose, per questo ha il cervello, mio caro giovane! Questa è la morale. Morale significa: le cose non sono così semplici. Se ne ricordi, giovanotto! lo devo ricominciare da capo a riflettere sul problema. »
« Vedo che lei non si lascia scoraggiare con tanta facilità », dice lo studente. « Ma prima non potrebbe darmi una piccola, rapida informazione? »
Il domestico non lo ascolta. Corre nella sala successiva parlando fra sé e sé. « Il problema è questo: se davvero iniziare è assurdo, allora ha senso non iniziare affatto. Ergo: lascio le cose così come stanno. »
« Giusto! » esclama lo studente correndogli dietro. « Lasci stare. »
« Una soluzione plausibile! » Il vecchio domestico
ride con aria furbesca. « Ma ora rifletta un po', giovanotto: cos'è la vita umana? »
Lo studente lo guarda e sorride perplesso. « Be', a dire il vero, non vorrei prendere a questo riguardo una posizione troppo precisa... »
Il vecchio gli picchietta col dito sul petto, alitandogli in faccia. « Combattere una battaglia perduta, questa è la vita! » dice scandendo ogni parola. « E in che cosa consistono la grandezza, l'appello di natura morale, l'imperativo etico? Glielo dico io, giovanotto: anche se tutto è privo di senso, bisogna comunque intraprendere qualcosa! Perché? Perché l'uomo deve fare quello che è in suo potere di fare! »
« Bravo! » esclama lo studente, mentre cerca di evitare il suo alito.
« Lo riconosco apertamente », continua il domestico, « or ora sono riuscito a mettermi io stesso con le spalle al muro. Non c'è scampo! E ti pare poco? »
« Lei è davvero un pensatore rigoroso », osserva pronto lo studente.
Il vecchio tira un profondo sospiro e allarga le braccia. « Sono qui in qualità di custode e di uomo », grida attraverso la fuga di stanze, « ho contro di me tutta la supremazia senza speranza del caos e ho preso una decisione irrevocabile. »
A un tratto crolla, afferra il braccio dello studente evi si aggrappa. « Se qualcuno non mi strappa all'ultimo momento dall'abisso », sussurra spaventato, « comincerò immancabilmente a togliere polvere, con conseguenze, caro giovane, incalcolabili! »
Ma lo studente non è stato ad ascoltare e si divincola dal vecchio. Qualcosa ha catturato completamente la
sua attenzione. Al centro della seconda sala, visibili attraverso la porta aperta, delle persone stanno sedute attorno a un grande tavolo rotondo. Non si possono distinguere bene, perché la sala è immersa nella penombra, ma lo studente non dubita che siano gli eredi che stanno trattando.
« Per favore, mi dica », bisbiglia al vecchio, indicando in direzione del tavolo, « si sa già qualcosa di preciso? »
« Grazie », risponde il domestico, anche lui a bassa voce, « grazie per avermi distratto. Purtroppo non posso dirle altro che no, non si sa ancora niente. »
« Oh, comincio a essere stufo! » esclama lo studente, avviandosi deciso verso il tavolo. « Devo soltanto chiedere... »
Ma il vecchio lo afferra per la manica e tenta di trattenerlo. « Per amor del cielo, non disturbi i signori. Non adesso! Non è assolutamente possibile! »
Lo studente si arresta e, senza perdere d'occhio gli eredi, spiega a mezza voce: « Devo soltanto sapere se posso restare o se invece devo cercarmi un'altra sistemazione, cerchi di capire! Una cosa del genere richiede il suo tempo e in questo momento io non ho proprio tempo da perdere. Fra una settimana ho l'esame e, se domani o dopodomani decidono di buttarmi fuori di qua, sono davvero nei guai ».
« La capisco bene », dice il vecchio, carezzandogli una guancia. « Solo, abbia un po' di pazienza. Voi giovani siete sempre così impazienti. Se lei insiste, guarderò di informarmi io stesso per suo conto alla prossima occasione. »
« Questo me lo ha già promesso due settimane fa! »
« È vero; purtroppo i signori non si sono ancora accordati su chi fra loro diventerà il nuovo proprietario. »
« Va un po' per le lunghe, non le pare? »
« Dipende dai punti di vista. Per queste cose c'è bisogno di tempo. Ma di ora in ora si avvicinano sempre più all'accordo, mi creda! Stanno compiendo ogni sforzo. Ma è molto, molto difficile arrivare a una soluzione in queste particolari circostanze. »
« Mi pare comunque che se ne stiano abbastanza tranquilli. Non parlano neppure fra di loro! »
« Si, purtroppo sono giunti ancora una volta a un punto morto. Riflettono per vedere di trovare una nuova base d'intesa. Non li disturbi, altrimenti durerà ancora più a lungo! »
Ma lo studente si strappa con violenza dal domestico e si dirige deciso verso il tavolo attorno al quale siedono gli eredi. Avvicinandosi, nota che essi se ne stanno rigidi e immobili come mummie. Uno spesso strato di polvere ne copre le teste, le barbe, gli abiti, gli occhiali. Tra di loro pendono ragnatele che ondeggiano piano nella corrente d'aria. Senza parole, lo studente fissa il domestico e indica in quella direzione.
« Sì », mormora questi imbarazzato, « quasi come amache, vero? »
Lo studente guarda anche sotto il tavolo e le sedie. Dappertutto, in mezzo alla polvere, si vedono le impronte di minuscole zampette. Sicuramente isopodi o coleotteri.
« Ne vuole un sorso? » domanda il vecchio, porgendo la bottiglia allo studente. « Questo spettacolo fa venire sete, non trova? »
Lo studente annusa la bottiglia e si ritrae all'istante. « Dio mio, ma che cosa c'è dentro? »
« Aceto », spiega il vecchio, ritrovando tutto a un tratto il suo contegno solenne e dignitoso di sempre. « Aceto e fiele. Una mistura rinomata. Rende lucidi di mente. L'unico modo per recuperare il raziocinio in questa situazione che tanto turba la coscienza. Come vede, sono un bevitore alla rovescia. Ci si abitua a tutto. Anche lei si abituerà. »
« Non credo proprio », risponde lo studente. « Così come non riesco nemmeno ad abituarmi a questa maledetta incertezza, all'idea di non sapere che sarà di me e della stanza. »
« Oh », fa il vecchio con un sorriso triste, « questo è solo l'inizio. Però, a essere sincero, anch'io non credevo che le cose si sarebbero trascinate tanto per le lunghe. Avevo pensato che una volta aperto il testamento del defunto avremmo saputo subito che pesci pigliare. »
« E invece che cosa è successo? »
Il vecchio beve un sorso. « In realtà non è successo niente. » Tappa la bottiglia e la rimette in tasca.
Lo studente cammina lento attorno al tavolo e guarda una dopo l'altra le facce polverose degli eredi. Soffia su di una e solleva una nube.
Sospira e si siede sul sofà foderato di damasco che si sfascia di botto sotto il suo peso. Si rialza a fatica e si scuote la polvere di dosso.
« Se vogliono che resti ancora qualcosa », dice, « farebbero bene a non tirarla tanto per le lunghe. »
« Sono perfettamente d'accordo », risponde il domestico, scopettandolo con il piumino.
« Quanto crede che durerà ancora? »
« È difficile a dirsi, forse poco, o forse no. »
« Ma intanto posso contare sulla possibilità di tenere ancora per un pochino la mansarda, vero? »
« Io non ci farei troppo affidamento, giovanotto. » « Merda! » dice lo studente con voce sommessa.
« Che idiozia restare così per aria. »
Il vecchio ride tossendo di nuovo. « Siamo tutti in una situazione incerta, lei, gli eredi, i loro parenti, persino io. » Si porta la mano al collo come se fosse appeso a una corda. « E inoltre i piedi si ghiacciano facilmente. » Tossisce ancora.
« Gli eredi? » chiede lo studente. « Perché? »
« Perché i signori non sanno come comportarsi fra loro, con chi devono mantenersi in buoni rapporti e con chi no. Ognuno può diventare un giorno importante per l'altro e nessuno si può permettere di guastarsi del tutto con qualcuno. Perciò si odiano in silenzio e si squadrano con occhi che sembrano bocche di rivoltella. La cosa peggiore è però che ognuno di loro si è trascinato dietro una quantità enorme di parenti che si sono sistemati in tutti gli angoli della casa. Ma noi non siamo in grado di accogliere tanti ospiti, così si sono già costruiti capanne e bungalow nelle sale di sotto, distruggendo mobili antichi e pregiati e strappando le tavole del rivestimento. Ultimamente hanno perfino installato delle cucine sul parquet per cuocersi i pasti. I cavi elettrici della casa non ce la fanno a sopportare tutte le stufe, tutti i fornelli, le radio, i televisori e chissà che altro ancora. Prima o poi scoppierà un incendio pauroso. Io vado in giro a implorarli, ma loro mi rispondono: Perché proprio io? Nessuno vuole
sacrificarsi se prima non lo fanno gli altri. All'inizio tutto ciò era visto soltanto come una sistemazione provvisoria, ma nel frattempo i signori hanno messo radici nella provvisorietà. Ci sarebbe da piangere. »
Il vecchio tira fuori un fazzoletto tutto sporco e si soffia il naso.
« Io non mi sono accorto quasi di nulla », dice lo studente, turbato, « salvo che la corrente è mancata spesso. »
« E anch'io mi trovo per aria », continua il vecchio con voce lamentosa, « lei non può farsene neppure un'idea, caro giovanotto! Tutti i signori mi considerano il loro domestico personale: Faccia questo! Mi procuri quell'altro! Ma al più presto! E io non posso ribellarmi, perché ognuno potrebbe diventare un giorno il nuovo padrone. Non ce la faccio più a soddisfare tutte le loro pretese! Si figuri che si servono di me addirittura per spiarsi a vicenda. E io, io non posso guastarmi con nessuno. Proprio a me doveva capitare, che sono abituato a vivere con senno e ragionevolezza! È davvero l'inferno! »
Il vecchio si asciuga gli occhi col fazzoletto. « E cosa accadrà poi, quando la questione sarà risolta? Che ne sarà di me? Mi dica un po' lei! Conserverò il mio posto? Mi pagheranno almeno per il lavoro immane che ho fatto? Oppure, nonostante tutte le mie fatiche, mi getteranno sul lastrico, vecchio e malandato come sono? Questa spada di Damocle sospesa sulla mia testa, lei lo capirà bene, fiacca il mio zelo. E in questo modo sego io stesso il filo al quale è appesa la spada. Gli uomini sono crudeli! Mio caro giovane, lei ha davanti a sé una persona disperata! »
Il vecchio si appoggia singhiozzando al petto dello studente.
Questi lo conforta imbarazzato e mormora; In realtà io dovrei studiare... ma in questi ultimi tempi ho sgobbato tanto, giorno e notte, che forse un po' di movimento mi farà bene. Quindi, se posso darle una mano... »
Il vecchio si consola all'istante.
« Ma sicuro », dice, « il lavoro manuale fa molto bene alla salute, quasi quanto il sonno. Ecco, prenda il
piumino e cominci subito! Ma, per favore, stia attento a non rompere niente! »
Va alla porta, si volta di nuovo e aggiunge brusco: « Passo più tardi a controllare se hai lavorato bene, Guarda dunque di mettercela tutta, ragazzo, sennò ti faccio vedere chi sono io! Spicciati, che aspetti? »
Esce, mentre lo studente, stupito, lo segue con lo sguardo. Poi, con un lieve sorriso, scuote le spalle e comincia a spolverare. Si interrompe tossendo in mezzo a una nube di polvere, e sprofonda in riflessioni.
« Un momento », mormora fra sé, « com'era? Devo annotarlo... »
Si dirige verso il tavolo attorniato dagli eredi perfettamente immobili e si mette a scrivere col dito nella polvere.
« d sigma elevato al quadrato uguale a c elevato al quadrato dt elevato al quadrato... se si introduce l'immaginaria coordinata temporale radice di meno uno c t uguale a x quattro, allora la legge della costanza della velocità della luce è ds elevato al quadrato uguale a dx uno elevato al quadrato più dx due elevato al quadrato più dx tre elevato al quadrato più dx quattro elevato al quadrato uguale zero... »
Avvicina una sedia al grande tavolo, si siede fra due eredi, appoggia la testa a una mano e riprende i suoi calcoli.
« poiché questa formula esprime un contenuto reale, anche la formula ds deve avere un significato reale anche quando i punti adiacenti del continuo quadridimensionale di spazio-tempo sono posti in modo tale che ds sparisca... no, alt, non sparisce... non sparisce... non... »
Reclina pian piano la testa sul tavolo e, con la guancia sopra le formule scritte nella polvere, si addormenta tranquillo, respirando profondamente come un bambino.




LA cattedrale della stazione si ergeva su un grosso lastrone di pietra color ardesia che fluttuava nello spazio vuoto e crepuscolare.
A diversa distanza passavano altre isole di quel tipo, più grandi o più piccole, alcune tanto lontane da non poter vedere ciò che vi accadeva, altre abbastanza vicine da potersi scambiare dei cenni. Alcune erano dotate della stessa velocità e si mantenevano quindi a una distanza costante, altre, più o meno veloci, correvano avanti o restavano indietro fino a scomparire alla vista. Sembravano per lo più disabitate o comunque apparivano buie, soltanto poche erano illuminate come quella su cui si ergeva la cattedrale della stazione, un edificio babilonico di inaudite proporzioni, non ancora ultimato, come testimoniavano le molte impalcature. Dai muri traforati come filigrana filtrava una luce scintillante. Dall'interno giungeva una musica d'organo.
Rimbombò una voce da un altoparlante: « Attenzione, attenzione! I viaggiatori che aspettano la coincidenza! Il treno speciale proveniente da d sigma elevato al quadrato arriverà regolarmente all'ora t più dt al binario ct... »
Sui marciapiedi della stazione, grigie masse di gente ondeggiavano qua e là, si pigiavano in fiumi che scorrevano l'uno accanto all'altro, trascinavano carichi, gesticolavano, gridavano e ogni tanto le correnti si
scontravano mescolandosi. Gruppetti sparsi stavano accoccolati sul pavimento o su montagne di bagagli legati alla meno peggio, scatole, casse e pacchi. Erano tutti vestiti di luridi stracci, gentaglia, pezzenti, pieni di croste e di pidocchi, cisposi, abbrutiti. Ma le ceste, le valigie e i sacchi che avevano con sé traboccavano di biglietti di banca. Sui carrelli portabagagli, spinti a fatica in mezzo alla calca, erano ammassati mucchi di mazzette di banconote.
All'estremità di un marciapiede, là dove finiva la tettoia e una dozzina di binari si lanciavano nello spazio vuoto, un pompiere osservava con occhi sgomenti quell'andirivieni. Portava un'uniforme blu con lucidi bottoni d'ottone, l'elmetto col salvanuca di cuoio e, dentro il fodero, alla cintura, la scintillante scure nichelata. Baffi spessi e neri gli orlavano il labbro superiore.
Proprio lì vicino una giovane, gracile donna era alle prese con una grossa borsa da viaggio che trascinava a stento. Indossava una specie di cilicio, una tonaca nera e pesante, tutta logora. Il cappuccio incorniciava un volto magro e pallido d'asceta, dagli occhi ardenti.
Il pompiere si avvicinò alla giovane donna.
« Permette? » chiese, « posso esserle di aiuto? » Stupita, lei lasciò che l'uomo le togliesse la borsa di mano e se la caricasse sulle spalle. « Dove? »
« Sente l'organo? » disse lei. « Presto tocca a me. Devo andare nell'atrio. »
Egli fece strada scavalcando alcuni poveracci che dormivano a terra col capo appoggiato su mazzette di banconote.
« Che cos'è questa? » gridò voltandosi indietro, « voglio dire, come si chiama questa stazione? »
« Stazione intermedia », rispose lei.
« Ah! » fece, gettandole uno sguardo in tralice, nel dubbio di non avere capito bene in quel frastuono. « Anche per lei? lo sono qui infatti solo di passaggio, grazie a Dio! Devo soltanto prendere la coincidenza. »
« È quello che pensano tutti », replicò la donna, « lo pensavo anch'io. Ma la stazione intermedia è la stazione terminale... almeno finché non finisce l'incantesimo. E non finisce. Non finisce. »
Rimbombò l'altoparlante: « Tredicimila settecentoundici... tredicimila settecentodieci... »
Un gruppo di figure simili a tanti spaventapasseri s'infilò fra loro e li divise. Quando la donna riuscì a tornare da lui, gli disse in fretta: « Non arriveremo mai. Nessuno, qui. E lei lo sa bene quanto me, non è cosi? »
« Che cosa dovrei sapere? » domandò lui, mentre si caricava la pesante borsa da viaggio sull'altra spalla, « io non so proprio niente. »
« Che qui non ci sono treni che arrivano o partono. Che sono tutte menzogne! »
« Che assurdità! » ribatte lui, « io sono appena arrivato e non ho certo intenzione di rimanere. Che farei qui? »
La donna fece udire una breve risata priva di gioia. « Davvero? Si vedrà. Lei dove vuole andare? »
« A una festa », rispose incerto, « una parata o qualcosa del genere... devo ricevere una decorazione... credo. » Un po' stizzito concluse: « Scusi, ma questo non la riguarda affatto ».
Entrambi furono scaraventati di qua e di là dalla marmaglia e la donna si attaccò saldamente al suo braccio.
« Nessuno arriverà! » gli gridò nell'orecchio. « Nessuno! Nessuno! »
Dovettero scansare un carretto di ferro dalle ruote cigolanti che un mascalzone, un gigante con la testa calva coperta di pustole, stava spingendo contro di loro. Sopra il carretto c'era una piccola bara celeste mezzo scoperchiata, traboccante di banconote. Il pompiere la fissò, mentre si asciugava con la mano libera il sudore che all'improvviso gli bagnava la fronte. Poi proseguì in fretta, facendosi largo a sua volta di prepotenza attraverso un gruppo di straccioni.
Ora il pompiere e la giovane donna avevano quasi raggiunto il grande arco della porta che fungeva da ingresso all'atrio. La musica d'organo era lì tanto assordante che diventava difficile capirsi. Quando cessò per un attimo, egli disse: « Lo sa? Sento ticchettare la sua sveglia nella borsa ».
Lei si fece ancora un po' più pallida.
« Non è una sveglia », replicò con voce roca.
« Dodicimila novecentotre... » tuonò l'altoparlante, « dodicimila novecentodue... dodicimila novecentouno... »
Quando, apertisi un varco attraverso una fiumana di gente, giunsero nel grande atrio, egli posò a terra la borsa. Rimasero addossati a un pilastro dell'arco, pigiati l'uno contro l'altra dalla folla.
L'atrio era immenso e si perdeva verso l'alto nell'oscurità. Sul lato sinistro si trovava una sorta di abside; a destra, a mezza altezza, c'era un vano rientrante su cui, grande come una montagna, torreggiava l'organo. Nella parte superiore dell'abside, al posto del rosone, c'era un grosso orologio col quadrante illuminato
da tergo ma privo di lancette. Sotto, su un piano rialzato, si ergeva l'altare al cui centro stava il tabernacolo. Questo aveva la forma di un'imponente cassaforte, con cinque serrature a combinazione di numeri disposte come un pentagramma rovesciato sullo sportello. Non soltanto l'altare e il tabernacolo, ma persino ogni aggetto, ogni balaustrata e ogni spazio che solo lo consentisse erano ricoperti di candele dalle fiamme tremolanti. Ovunque la cera, colando, aveva formato cascate irrigidite, barbe di gocce e stalattiti. Centinaia di scale di diversa altezza erano appoggiate tutt'intorno alle pareti. Nella sala la ressa dei miserabili era ancor più tremenda che fuori, ai binari. Le masse creavano veri e propri vortici e fiumi che andavano a rompersi l'uno contro l'altro. L'aria era torrida come in un forno, sulla calca aleggiavano nuvole di fumo e di polvere, c'era puzza di sudore e di immondizia.
Davanti all'altare poveri diavoli vestiti di camiciotti color grigio-sporco lunghi fino alla caviglia saltellavano senza posa come per una danza rituale, figure grottesche con nasi a grappolo, gozzi, gobbe, ventri cascanti, nuche bitorzolute, bocche sdentate e arti deformi. Agitavano concitatamente ogni sorta di arnesi o facevano gesti con le dita sopra le teste della folla, quasi fossero agenti di borsa. Di tanto in tanto la cassaforte veniva aperta e ne usciva un carico di mazzette di banconote. Uno di quegli infelici prendeva una mazzetta e, tenendola sollevata solennemente con ambedue le mani, la mostrava alla folla. Questa cadeva in ginocchio, l'organo strepitava a più non posso e un coro di migliaia di voci gridava: « Miracolo e mistero! » Le mazzette erano distribuite fra i miserabili delle prime
file e la cassaforte veniva richiusa. Il rituale ricominciava subito da capo. I beneficiati si facevano strada attraverso la ressa per portare al sicuro il loro guadagno, mentre quelli che si accalcavano dietro ne prendevano il posto. Abili garzoni si affaccendavano senza posa su e giù per le scale, depositando qua e là, in alto, alle pareti, le mazzette di banconote.
Solo allora il pompiere si rese conto che tutti i muri, tutte le colonne e i pilastri, anche quello contro cui stava pigiato, erano fatti di mazzette di banconote accatastate l'una sull'altra. L'intera cattedrale era costruita con mattoni di cartamoneta e ancora si continuava a lavorarvi, perché a ogni apertura il tabernacolo ne vomitava in gran massa. Le migliaia e migliaia di fiammelle delle candele danzavano e ondeggiavano, mentre la cera colava e gocciolava.
« Santo cielo! » mormorò il pompiere, « è contro ogni disposizione di sicurezza! Questa è pura follia! »
Si tolse l'elmo e ne asciugò col fazzoletto il giro interno di cuoio. Si era sbottonato la giacca. L'organo taceva.
« Mi farebbe un favore? » gli chiese la giovane donna che lo aveva osservato in silenzio. « Io devo andare subito nel matroneo. Non starò via a lungo. Potrebbe nel frattempo badare alla mia borsa? »
Egli annuì distratto, senza riuscire a staccare gli occhi dalle file interminabili delle candele, e disse: « Non può andare liscia ».
Un tipo con l'aria da furfante e una cassetta appesa al collo gli si parò improvvisamente davanti. Portava in testa una bombetta e aveva le guance così incavate
che parevano quasi dei buchi. Nella cassetta c'erano alcuni mucchietti di buste chiuse.
« La fortuna la insegue, signor capitano! » disse il tipo con un sorriso losco. « Non la respinga! Non si lasci sfuggire questa occasione unica, non le capiterà mai più! Colga la possibilità che le viene offerta! »
« La fortuna? » domandò il pompiere, « cosa intende dire? »
Il tipo lo guardò con occhi di pesce, le sue mani corsero nervosamente sulle buste. « Non costa niente. È tutto gratis. Ne approfitti! »
« Gratis? » il pompiere scosse la testa. « Senta, temo di non essere abbastanza ricco da potermi permettere qualcosa che non costa niente. »
Il furfante ridacchiò. « Giusto, i misteri del vero profitto sembrano a volte paradossali. Ma si fidi di me, signore, e ne approfitti! Le assicuro che lei avrà presto tanto denaro da potersi permettere di avere accettato! »
« Che cos'ha lì? »
Il farabutto fece di nuovo una smorfia che pareva un sorriso. « Signore, le offro le ultime azioni della cattedrale della stazione. Se le prende - senza pagare nulla, come ho già detto - avrà anche lei la sua parte della Miracolosa Moltiplicazione del denaro. »
« No, grazie », rispose il pompiere, « non voglio averne alcuna parte. Sono solo di passaggio qui e desidero ripartire al più presto. »
« Questo lo pensavano tutti », disse il tipo, « ma poi hanno cambiato idea. Lei vede quanti sono a saper fare i propri interessi, e aumentano sempre di più. Tante persone intelligenti non possono certo sbagliare... oppure lei si considera tanto più intelligente di loro? »
« Inoltre », proseguì il pompiere imperturbabile, « non durerà comunque molto a lungo. Presto finirà male. »
« Si sbaglia! » gridò l'altro, « la Miracolosa Moltiplicazione del denaro continuerà in eterno. Non cesserà mai. E fintanto che non cesserà nessuno vorrà partire. E fintanto che nessuno vorrà partire i treni non funzioneranno. Tutto resterà così com'è ora. Ma non vuole anche soltanto un paio di azioni? Almeno due o tre? »
« No! » urlò il pompiere.
« Va bene, va bene! » Il furfante alzò le mani in un gesto conciliante. « Ma non venga poi a lamentarsi da me! io glielo avevo detto. »
Sollevò il cappello e scomparve fra la folla.
« Diecimila settecentonove... » tuonò l'altoparlante, « diecimila settecentootto... diecimila settecentosette... »
L'organo riattaccò a suonare, stavolta in sordina. La melodia sembrava un antico corale, ma si sentiva soltanto una voce di donna. Si librava calda e forte nell'immensa sala. Nessuno ci faceva caso, solo il pompiere alzò gli occhi stupito verso il matroneo dal quale veniva il canto. Riconobbe la giovane donna con la tonaca nera, che stava in piedi alla ringhiera e cantava.
« Un'artista! » sussurrò, « una vera artista! Non l'avrei mai pensato! »
Era così preso dalla bellezza della voce che all'inizio non prestò attenzione alle parole del canto. C'era in essa un particolare tremolio che lo toccava quasi fisicamente nel più profondo dell'animo. Soprattutto quando dai toni alti passava d'improvviso a quelli più bassi, un
piccolo calo isterico che lo colpiva proprio alla bocca dello stomaco. Egli ascoltava estasiato, e ora anche le parole si facevano strada nella sua coscienza:

Erranti nel tumulto del mondo
senza meta nel tempo noi siamo.
Solo per amor puro e profondo
qui e adesso noi arriviamo.
Anima mia, all'erta sta:
ora e qui è l'eternità.

Poi lei indietreggiò e scomparve alla vista. L'organo riprese a strepitare variando motivo. Dall'altra parte, all'altare, venne riaperto il tabernacolo e ne uscirono mucchi di banconote.
« Diecimila cinquecentodiciotto... » tuonò l'altoparlante, « diecimila cinquecentodiciassette... »
Una mendicante con una gerla piena di biglietti di banca, passando accanto al pompiere, gli pestò il piede con una delle grucce e lo destò dal suo rapimento. Egli si guardò intorno per cercare la borsa che la cantante gli aveva affidato e si accorse con sgomento che era sparita. Si fece largo attraverso la ressa della marmaglia, scrutò e perlustrò in giro, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte. Sicuramente gli era stata rubata mentre ascoltava la musica, o forse anche prima, quando si era lasciato coinvolgere nel diverbio con l'uomo dalla cassetta. Maledisse la propria disattenzione. In ogni caso doveva avvertire subito la giovane donna.
Si gettò in mezzo alla massa urlante della canaglia, fu preso in un vortice che lo trascinò e approdò infine, remigando e menando colpi all'impazzata, ai piedi della
scala che conduceva al matroneo. Quando provò a salire, fu aggredito da un paio di giovinastri dall'aria losca, i quali, prima che lui potesse rendersi conto di quanto accadeva, gli torsero le braccia dietro la schiena.
« Sei un azionista? » domandò uno di loro. Il pompiere scosse la testa.
« Allora che vai cercando qui? »
« Devo dire una cosa alla cantante. È urgente. Lasciatemi andare, per favore! »
I giovinastri si scambiarono un'occhiata, poi spinsero il pompiere su per le scale. Anche qui, come dappertutto, c'erano candele, persino sul corrimano e sui gradini.
Sopra, all'organo, un uomo imponente a torso nudo, bagnato di sudore, era seduto davanti alla tastiera. I capelli lunghi e grigi e la barba formavano un groviglio arruffato e untuoso, persino le spalle e la schiena erano coperte di ispidi peli. A cavalcioni sulle sue ginocchia, con le braccia allacciate alla sua nuca, era seduta la giovane donna. Aveva la nera tonaca sollevata fino ai fianchi, sotto era nuda. Il suo viso era inondato di sudore e di lacrime. Teneva gli occhi chiusi e la bocca aperta come in un grido silenzioso, mentre l'uomo, con ampi movimenti delle mani e delle gambe, maltrattava lo strumento. Il suono faceva vibrare l'intero matroneo.
I tipacci dettero un'altra spinta al pompiere mandandolo quasi a sbattere col viso contro i due. Ora egli sentì che l'uomo e la donna parlavano gridando fra di loro.
« È già buio? »
« Non ancora, caro. »
« Appena è buio, tagliamo la corda. »
« Si, caro. »
« Non ti preoccupare, piccola. Ci tireremo fuori di qua, te l'ho promesso. Mi sono sempre tirato fuori da ogni situazione, o, almeno, la maggior parte di me. Nel buio sono in vantaggio. »
« Non diventerà mai buio! » gridò lei, « non finirà mai! Noi non arriveremo mai! »
« Scusate! » urlò il pompiere, « io... non vorrei disturbare, mi dispiace. È solo per via della sua borsa. Purtroppo è stata rubata. »
« E allora? » rispose la giovane donna, senza aprire gli occhi. « Sarei contenta di essermene liberata. Per questo l'ho data in custodia a lei. Ma non servirà a niente. Torna sempre da me. Ho già tentato di tutto. »
L'uomo smise di suonare. Voltò lentamente la testa e chiese: « Con chi stai parlando, piccola? Chi c'è? »
« Non lo so », rispose lei, sempre a occhi chiusi. « Qualcuno. »
Il pompiere guardò il viso dell'organista e inorridì. Le cavità oculari erano ambedue vuote, l'osso nasale sfondato. La cicatrice di un'orrenda ferita tagliava trasversalmente il viso in due metà.
« Digli di sparire », fece l'uomo. « E subito. »
« Si, certo », balbettò il pompiere confuso. « Pensavo solo che... a causa della borsa... forse una denuncia... di sicuro ci sono molte cose dentro... voglio dire, cose di valore. »
La donna riprese a parlare a occhi chiusi. « Lei ha sentito un ticchettio, vero? »
« Sì », rispose lui. « La sveglia. »
Lei scosse lentamente la testa. « Una bomba. Ciò che
lei ha trascinato in giro per me era una bomba a orologeria. Non c'è altro nella borsa. »
Il pompiere deglutì un paio di volte prima di ritrovare la parola.
« Ma... ma una cosa del genere uno non se la porta appresso per ore e ore! »
« Per ore? » ripete lei, mentre il cieco rideva silenziosamente. « Lei è davvero un autentico pompiere! Eppure gliel'ho detto: torna sempre da me. Da anni, ormai! Posso provare di tutto. A volte ero così stanca che... »
« Ma per amor del cielo! » La voce del pompiere diede nel falsetto. « La bomba può esplodere da un momento all'altro! »
« Sicuro », esclamò la donna.
« E tutta questa gente qui! Bisogna disinnescarla subito! »
« Ci provi! » disse lei. « Per disinnescare la bomba è necessario aprire la borsa; ma se si apre la borsa, esplode. »
« Allora bisogna toglierla di torno! »
« La cerchi! » replicò la donna. « Vedrà, non serve a niente scervellarsi tanto. Possiamo solo aspettare che giunga il momento. »
Aprì finalmente gli occhi, che erano gonfi di pianto. « Del resto », aggiunse a bassa voce, « non era destinata qui, alla stazione intermedia. »
Prima che la donna finisse di parlare, l'uomo si lasciò cadere dalla panca assieme a lei ed entrambi si voltolarono qua e là sul pavimento. Lei gli allacciò con le gambe i fianchi e gridò con occhi stralunati: « Io
voglio arrivare! Non lo capisce, voglio finalmente arrivare! Non voglio altro, solo arrivare! »
Nella loro follia rovesciarono alcuni candelieri, le candele rotolarono sul pavimento di banconote già schizzato di cera che in alcuni punti iniziò a bruciare. Il pompiere si strappò la giacca di dosso e cercò con essa di soffocare le fiamme, ma in questo modo anche la giacca si impregnò di cera liquida e prese fuoco. Solo con gran fatica riuscì a spegnere l'incendio. Quando, con un sospiro di sollievo, si guardò attorno, si accorse di essere rimasto solo nel matroneo. Stizzito, osservò la sua giacca che ormai era rovinata, bruciacchiata in vari punti. « Veramente », brontolò, « io dovevo soltanto prendere la coincidenza. »
« Ottomila novecentoventisette... » rimbombò l'altoparlante, « ottomila novecentoventisei... ottomila novecentoventicinque... »
Dall'altra parte, all'altare, la Miracolosa Moltiplicazione del denaro era proseguita indisturbata. Nessuno fra la massa della marmaglia aveva prestato attenzione a quanto avveniva nel matroneo. Un vecchio sparuto stava ora sul pulpito a sinistra dell'altare. L'enorme naso adunco lo faceva sembrare un avvoltoio. Si era messo in capo una specie di mitra fatta di carta e predicava accompagnandosi con ampi gesti delle braccia.
« Mistero infinito... e beato chi ne ha parte! Il denaro è verità, l'unica verità, alla quale dobbiamo tutti prestare fede. E che la vostra fede sia cieca e incrollabile! È proprio la vostra fede a fare di esso quello che è! Perché anche la verità è una merce e sottostà all'eterna legge della domanda e dell'offerta. Per questo il nostro Dio è un Dio geloso che non tollera altro Dio
all'infuori di sé. E tuttavia si è consegnato nelle nostre mani facendosi merce, affinché noi potessimo possederlo e ricevere la sua benedizione... »
La voce del predicatore era alta e stridula e si distingueva appena in mezzo al baccano generale. Il pompiere avanzò a fatica attraverso la calca. Ovunque gli capitassero candele a portata di mano, lui le spegneva, attirandosi addosso sguardi stupiti, turbati o pieni di furore. Non se ne curò. Continuò nella sua opera pur sapendo che era inutile, perché subito, alle sue spalle, le candele venivano riaccese. Sempre più una sorda rabbia s'impadroniva di lui.
« Il denaro può tutto! » urlò il predicatore. « Unisce gli uomini fra loro attraverso il reciproco dare e avere, può tramutare tutto in tutto, lo spirito in materia e la materia in spirito, fa delle pietre pane e crea valori dal nulla, si rigenera in eterno, è onnipotente, è la forma che si è dato Dio per scendere fra noi, è Dio! Là dove tutti si arricchiscono in virtù di tutti, tutti saranno ricchi alla fine, e dove tutti diventano ricchi alle spese di tutti, nessuno pagherà le spese! Prodigio infinito! E quando voi domandate, cari fedeli, da dove venga tutta questa ricchezza, allora io vi dico: essa viene dal futuro profitto di se stessa! Il suo futuro guadagno è ciò di cui ora noi già godiamo. Quanto più denaro è qui, tanto più alto sarà il profitto futuro; quanto più alto sarà il profitto futuro, tanto più è il denaro attuale. Così noi stessi siamo nostri creditori e nostri debitori per l'eternità, e rimettiamo a noi i nostri debiti, amen! »
« Smettetela! » gridò il pompiere, arrampicandosi su per la scala del pulpito. « Basta! Fine! Smettetela subito! È una cosa del tutto insensata. Vi proibisco di
continuare! Tutti i presenti sono invitati a sgombrare immediatamente l'edificio. C'è pericolo che... »
Nell'immenso atrio scese a un tratto un silenzio di morte.
« Un miscredente! » strillò un farabutto vicino all'altare. « Come è arrivato fin qui? »
« Lei possiede delle azioni? » gli gridò il predicatore.
« Questo non ha alcuna importanza ora! » urlò il pompiere di rimando. « Sia ragionevole... nel suo interesse! »
« Un miscredente! » mugghiò la folla, « un blasfemo! Uccidetelo! »
Scoppiò un putiferio. Dei miserabili si arrampicarono zoppicando su per la scala del pulpito, mani afferrarono il pompiere, lo strozzarono, lo percossero, lo spinsero giù dalla balaustra; egli cadde battendo violentemente al suolo; colpi di bastone e di gruccia gli grandinarono addosso, piedi lo presero a calci e lo calpestarono, finché rimase completamente immobile.
« Seimila trecentoquattordici... » tuonò l'altoparlante, « seimila trecentotredici... seimila trecentododici... »
Passò del tempo prima che il pompiere riprendesse i sensi e potesse mettersi seduto. Aveva dolori alla testa, un occhio tutto gonfio e sanguinava dalla bocca e dal naso. Si accorse di aver perduto l'elmetto e di avere la giacca e i pantaloni laceri. Ora egli stesso sembrava uno di quei pezzenti che gli si accalcavano nuovamente attorno senza però curarsi più di lui. Tentò di alzarsi in piedi, ma ricadde subito carponi. Tutto prese a girargli intorno, stava male da morire. Vomitò.
Un po' più tardi riuscì a strisciare in mezzo alle
gambe di coloro che lo attorniavano e scoprì infine, accostato a una parete, un confessionale che la cera colatavi sopra aveva trasformato in una specie di grotta con stalattiti. Con gran fatica vi si trascinò dentro, chiuse la porta, si appoggiò a un angolo e svenne di nuovo.
Non sapeva da quanto tempo fosse seduto lì, quando fu svegliato da un lieve rumore proprio vicino al suo orecchio. Il chiasso e lo strepito fuori nell'atrio erano identici a prima, ma quel borbottio proveniva dalla piccola grata della parete che divideva in due parti il confessionale e pareva il singhiozzare disperato e sommesso di un bimbo. Il pompiere ne fu stupito perché non aveva notato bambini nella cattedrale. Si mise a guardare attraverso i buchi della grata ma non vide nulla. Sentì invece, fra i singhiozzi, delle parole appena sussurrate:
« Mio Dio, dove sei?.. E dov'è finito il mondo...? Non riesco a trovarlo... Non c'è più... io sono già morto... non sono mai venuto al mondo... »
« Chi sei? » chiese il pompiere. « Non volevo ascoltare, ma ero già qui. Scusami! Vorrei dirti soltanto che questa non è che una stazione intermedia, infatti c'è... Ehi, tu, mi senti? Non vuoi parlare con me? »
Ma dall'altra parte restò tutto in silenzio. Egli aprì la porta del confessionale per dare un'occhiata, ma non vide nessuno. Lì c'era soltanto la grossa, pesante borsa da viaggio.
L'unica cosa a essergli rimasta della sua attrezzatura era la scintillante scure che portava al fianco. La tolse dal fodero.
« Ora e qui! » disse ad alta voce. « Ora e qui! »
Con la parte affilata della scure ruppe il lucchetto
della borsa e l'aprì lentamente, con gran cautela. Era vuota.
Egli si rizzò in piedi. Un sudore freddo gli colava dalle tempie fin sopra le guance.
«Settecentosessantotto...» tuonò l'altoparlante, «settecentosessantasette. ..settecentosessantasei. ..»
E ora, dietro la voce impersonale che scandiva i numeri, si udiva sommesso, ma chiaro e inconfondibile, il ticchettio. Diventava sempre più forte e minaccioso.
Il pompiere riuscì a portarsi fuori dell'atrio. Un paio di volte venne risospinto indietro, ma dopo un po' poté raggiungere i marciapiedi. La voce contava ora ininterrottamente, il ticchettio si era fatto martellante.
« Centocinquantatre... centocinquantadue... centocinquantuno... centocinquanta... centoquarantanove... »
Quando infine fu di nuovo là dove i binari si lanciavano nello spazio vuoto, trovò a terra la tonaca indossata dalla giovane donna. La prese e andò a sedersi sul bordo estremo del marciapiede.
In lontananza vide le nuvole della sera trascinare altre isole attraverso lo spazio crepuscolare, alcune erano buie, alcune illuminate come quella su cui si ergeva la cattedrale della stazione. « Forse un treno è partito », disse il pompiere al vuoto, « non so dove voleva andare, ma forse nel frattempo è arrivata... »
E mentre le sue mani carezzavano la stoffa nera e pesante del logoro indumento, sentì che il ticchettio nell'altoparlante era diventato insopportabilmente forte e che la voce impersonale stava scandendo gli ultimi numeri:
« Sette... sei... cinque... quattro... tre... due... uno.. zero... »




UN pesante drappo nero, che ai lati e in alto si perde nell'oscurità, scende in lunghe pieghe verticali che di tanto in tanto, mosse da un'impercettibile corrente, ondeggiano pian piano avanti e indietro.
Gli avevano detto che quello era il sipario e che, appena avesse iniziato ad alzarsi, doveva cominciare a danzare. Gli era stato inoltre raccomandato di non irritarsi per alcun motivo perché a volte accadeva che da lì, in alto, la platea apparisse soltanto come un baratro vuoto e buio, mentre in altri momenti sembrava di gettare uno sguardo all'operoso andirivieni di un mercato o di una strada affollata, a un'aula o a un cimitero, si trattava però solo di un'illusione dei sensi; in breve, senza curarsi delle proprie impressioni o se qualcuno stesse a guardare o meno, all'alzarsi del sipario egli doveva cominciare a ballare il suo a solo.
Perciò se ne stava lì, la gamba portante e la flessa incrociate, la mano destra penzoloni, la sinistra appoggiata morbidamente sul fianco, e aspettava l'inizio. Di tanto in tanto, stanco, cambiava posizione trasformandosi nell'inverso della sua immagine, così come un'immagine è riflessa in uno specchio.
Ancora il sipario non si decideva ad aprirsi.
La poca luce proveniente dall'alto era concentrata su di lui, ma bastava appena perché potesse scorgersi i piedi. Il cerchio luminoso gli consentiva di distinguere
a stento il pesante drappo nero che gli stava davanti. Era l'unico punto di riferimento di cui disponeva per mantenere la giusta direzione, essendo il palcoscenico immerso nell'oscurità totale e vasto come una pianura.
Si chiese se ci sarebbe stato uno scenario e che cosa avrebbe potuto rappresentare. Per il suo numero non era molto importante, ma gli sarebbe piaciuto sapere su quale sfondo il pubblico lo avrebbe visto. Un salone? Un paesaggio? All'alzarsi del sipario sarebbe cambiata sicuramente anche l'illuminazione e questa domanda avrebbe avuto una risposta. Se ne stava lì e aspettava, la gamba portante e la flessa incrociate, la mano sinistra penzoloni e la destra appoggiata con noncuranza sul fianco. Di tanto in tanto, stanco, cambiava posizione trasformandosi di nuovo nell'inverso del riflesso della sua immagine.
Non doveva distrarsi perché il sipario poteva alzarsi in ogni momento. Allora avrebbe dovuto essere presente anima e corpo. Il suo numero si apriva con un violento colpo di timpano e uno sfrenato turbinio di salti. Se avesse sbagliato l'attacco, sarebbe stato tutto perduto, non avrebbe più ritrovato il tempo. Rivide col pensiero tutti i passi, piroette, entrechat, jeté e arabesque.
Era contento, tutto era ben chiaro nella sua mente. Di sicuro avrebbe fatto un buon lavoro. Sentiva già scrosciare gli applausi come il mugghio dorato del mare. Ripensò anche al modo in cui avrebbe ringraziato il pubblico, perché era importante. Chi riusciva a farlo bene poteva prolungare notevolmente gli applausi. E mentre pensava a questo, se ne stava lì e aspettava, la gamba portante e la flessa incrociate, la mano destra penzoloni e la sinistra mollemente appoggiata sul fianco.
Di tanto in tanto, sempre più stanco, cambiava posizione trasformandosi di nuovo nell'inverso del riflesso della sua immagine riflessa.
Il sipario non si alzava ed egli se ne chiedeva il motivo. Si erano forse scordati che lui era già sul palcoscenico, pronto a iniziare? Lo stavano cercando nel suo camerino, alla mensa del teatro o a casa, torcendosi le mani per la disperazione? Doveva forse manifestare la propria presenza nel buio del palcoscenico, chiamare, fare dei cenni? Oppure non lo cercavano affatto e lo spettacolo era stato rimandato per qualche motivo? Che avessero deciso di sospenderlo proprio all'ultimo momento senza avvertirlo? Magari se n'erano già andati tutti, senza pensare che lui stava aspettando di entrare in scena. Da quanto tempo era lì? Chi lo aveva indirizzato in quel posto? Chi gli aveva detto che quello era il sipario e che appena si fosse alzato doveva iniziare a danzare? Si mise a contare quante volte si fosse già trasformato nella propria immagine riflessa e nell'immagine riflessa della propria immagine riflessa, ma poi si impose di non farlo per non venire colto di sorpresa dall'improvviso alzarsi del sipario e per non ritrovarsi, confuso, non più compreso nella sua parte, a fissare smarrito il pubblico. No, doveva restare calmo e concentrato!
Ma il sipario non si muoveva.
A poco a poco la felice eccitazione dell'inizio si mutò in una profonda amarezza. Si sentiva bistrattato. Avrebbe voluto correre via dal palcoscenico per andare a protestare violentemente da qualche parte, gridare in faccia a qualcuno la propria delusione e la propria rabbia, fare una scenata. Ma non sapeva con sicurezza dove dirigersi.
Quel poco che riusciva a scorgere del drappo nero che aveva davanti costituiva la sua unica possibilità di orientarsi. Se avesse lasciato quel punto, avrebbe brancolato nel buio perdendo immancabilmente l'orientamento. E poteva benissimo darsi che proprio in quel momento si alzasse il sipario e risuonasse il colpo di timpano che segnava l'inizio. Ed egli si sarebbe ritrovato al posto sbagliato, le braccia tese in avanti come un cieco e magari con le spalle rivolte al pubblico! Impossibile! All'idea avvampò per la vergogna. No, no, doveva assolutamente restare lì dov'era, bene o male che fosse, e aspettare che qualcuno gli facesse un segno. Perciò stava lì, la gamba portante e la flessa incrociate, la mano sinistra penzoloni e la destra pesantemente appoggiata sul fianco. Di tanto in tanto, sfinito, cambiava posizione trasformandosi per l'ennesima volta nella propria immagine riflessa.
A un certo punto rinunciò a credere che il sipario si sarebbe mai alzato, pur sapendo nello stesso tempo di non poter lasciare il suo posto, perché non era del tutto da escludere la possibilità che invece, inaspettatamente, esso si aprisse. Da un pezzo aveva cessato di sperare o di provare rabbia. Non poteva far altro che restare lì dov'era, qualsiasi cosa accadesse o non accadesse. Non gli importava più niente della sua esibizione, che risultasse un successo o un fiasco clamoroso, o che addirittura non avesse luogo. E poiché gli era diventato indifferente, dimenticò, uno dopo l'altro, tutti i passi e i volteggi del numero. Aspettando, dimenticò persino che cosa aspettava. Ma rimase lì, la gamba portante e la flessa incrociate; di fronte a sé il pesante drappo nero che ai lati e in alto si perdeva nell'oscurità.




LA signora scostò la tendina nera del finestrino della carrozza e chiese:
« Non puoi andare più veloce? Lo sai che ci tengo ad arrivare in tempo alla festa! »
Da cassetta il cocchiere con una gamba sola si sporse verso di lei e rispose:
« Siamo incappati in un convoglio, Madame. Non so neppure io come. Mi ero forse un po' appisolato, quando a un tratto è apparsa tutta questa gente a chiuderci la strada ».
La signora si affacciò al finestrino. Effettivamente la strada maestra era occupata da un lungo corteo. C'erano vecchi e bambini, uomini e donne, tutti con fantastici, variopinti costumi da giocoliere, stranissimi cappelli in testa e grossi pacchi sulle spalle. Alcuni cavalcavano muli, altri grossi cani o struzzi. In mezzo a loro passavano con gran fracasso anche barocci stracarichi di ceste e valigie oppure carri coperti in cui sedevano intere famiglie.
« Chi siete? » domandò la signora a un giovane in costume da Arlecchino che camminava di lato alla carrozza. Teneva in spalla un bastone, l'altra estremità del quale era portata da una ragazza dagli occhi a mandorla in un costume cinese. Ogni sorta di suppellettili erano appese al bastone e una scimmietta infreddolita vi stava seduta sopra. « Siete gente del circo? »
« Noi non sappiamo chi siamo », rispose il giovane. « Ma non siamo un circo. »
« Da dove venite? » volle sapere la signora.
« Dalle montagne del cielo », rispose il giovane. « Ma ne è passato del tempo. »
« E che facevate là? »
« Io non ero ancora al mondo. Sono nato per strada. »
Un vecchio con un grosso liuto - o una tiorba? - s'intromise nel discorso.
« Rappresentavamo lo Spettacolo Ininterrotto, bella signora. Il ragazzo non può saperlo. Era uno spettacolo per il sole, la luna e le stelle. Ognuno di noi stava sulla cima di una montagna e ci gridavamo le parole. Lo spettacolo non aveva mai sosta perché manteneva unito il mondo. Ma ora anche fra noi i più l'hanno dimenticato. È passato troppo tempo. »
« Perché avete smesso di rappresentarlo? »
« È accaduta una grave disgrazia, bella signora. Un giorno ci accorgemmo che mancava una parola. Nessuno ce l'aveva rubata e neppure l'avevamo dimenticata. Semplicemente non c'era più. Ma senza quella parola non potevamo continuare a fare lo spettacolo perché niente più aveva senso. Era la parola che tiene unite tutte le cose fra loro. Comprende, bella signora? Da allora siamo in cammino per ritrovarla. »
« Che tiene unite tutte le cose fra loro? » chiese la signora stupita.
« Sì », fece il vecchio, assentendo con aria grave. « Anche lei avrà certamente notato che il mondo consiste ormai di frammenti che non hanno più niente a
che fare l'uno con l'altro. È così da quando abbiamo perduto quella parola. E la cosa peggiore è che i frammenti si disgregano sempre più, e sempre meno resta di ciò che è ancora unito. Se non riusciremo a trovare la parola che di nuovo unisca tutte le cose fra loro, un giorno il mondo si polverizzerà completamente. Per questo ci siamo messi in cammino alla sua ricerca. »
« Credete davvero di riuscire a trovarla, un giorno? » Il vecchio non rispose, ma affrettò il passo e superò la carrozza.
La ragazza dagli occhi a mandorla, che camminava ora di fianco al finestrino della signora, spiegò timida:
« Col nostro lungo cammino scriviamo la parola sulla superficie della terra. Per questo non ci fermiamo mal ».
« Ah », esclamò la donna. « Allora sapete sempre dove andare? »
« No, ci lasciamo guidare. »
« Da chi o da che cosa? »
« Dalla parola », rispose la ragazza, sorridendo come se volesse chiedere scusa.
Per lungo tempo la signora guardò di sottecchi la fanciulla, poi domandò piano:
« Posso venire con voi? »
La ragazza non rispose, sorrise e superò lentamente la carrozza, seguendo il giovane che la precedeva.
« Alt! » gridò la signora al cocchiere. Questi fermò i cavalli, si volse e chiese:
« Davvero vuole andare con quelli, Madame? »
La signora sedeva muta e dritta fra i cuscini, gli occhi fissi davanti a sé. A poco a poco il resto della carovana finì di sfilare accanto alla carrozza ferma. Quando
anche l'ultimo ritardatario fu passato, la signora scese e seguì con gli occhi il corteo finché esso disparve in lontananza. Prese a piovere un po'.
« Torniamo indietro! » gridò al cocchiere mentre rimontava in carrozza, « torniamo indietro. Ho cambiato idea. »
« Grazie al cielo! » esclamò l'uomo con una gamba sola. « Cominciavo a pensare che lei volesse andare davvero con quelli. »
« No », rispose la signora distrattamente. « Non potrei essere loro di alcun aiuto. Ma tu e io possiamo testimoniare che essi ci sono e che li abbiamo visti. »
Il cocchiere girò i cavalli.
« Posso farle una domanda, Madame? »
« Che cosa vuoi? »
« Lei crede, Madame, che prima o poi riusciranno a trovare quella parola? »
« Se la trovano », rispose la signora, « allora il mondo dovrà cambiare da un momento all'altro. Non credi? Chissà, forse un giorno saremo testimoni anche di questo. E ora va'! »




IL testimone afferma: si sarebbe trovato in un prato notturno, probabilmente una radura, dal momento che forse era circondata da alberi alti, ma a causa dell'oscurità circostante non avrebbe potuto stabilirlo con certezza.
Tutt'intorno allo spiazzo sarebbero stati disposti in circolo uomini vestiti di lunghi camicioni bianchi. Alcuni di loro con fiaccole, gli altri con falci, zappe e asce.
Dopo un lungo silenzio carico d'attesa una voce sonora avrebbe infine impartito l'ordine: « Quelli che portano i lumi, uccideteli! » Gli uomini armati si sarebbero scagliati, in silenzio, addosso ai portatori di fiaccole, che da parte loro non avrebbero fatto il benché minimo tentativo di fuggire o di difendersi, ma sarebbero rimasti fermi, anch'essi in silenzio.
Avrebbe avuto inizio una spaventosa carneficina, tuttavia non si sarebbe udito altro che, ovunque e continuo, il rumore tremendo e sordo provocato dalle asce e dalle zappe che penetravano nei corpi di quelli inermi.
A una a una le fiaccole si sarebbero spente nel sangue di coloro che le avevano portate e il buio si sarebbe fatto più fitto.
Poco dopo si sarebbe levato un forte vento a squarciare la nera coltre di nubi stesa a coprire il cielo sbiadito dell'alba. Il grande spiazzo sarebbe stato disseminato di cadaveri. La stessa voce sonora che aveva ordinato
il massacro dei portatori delle fiaccole avrebbe invitato ora gli assassini a immergere i loro abiti nel sangue degli uccisi.
L'invito sarebbe stato rivolto anche a lui stesso, il testimone, ma questi asserisce di non ricordare se lo avesse seguito o no.
Comunque rammenta di essersi trovato infine, completamente solo, (forse come l'ultimo?) in piedi, in mezzo a tutti quei morti. E afferma di aver sentito il proprio abito impregnarsi di sangue a partire dal basso e farsi sempre più pesante.
Poi, in mezzo al sibilare del vento, quasi si fosse trattato di raffiche, avrebbe inteso un'altra voce, terribilmente angustiata, gridare, lamentosa, qualcosa come « Merce, merce, merce! » ma egli non è sicuro che si sia trattato di tali parole o piuttosto di « Ecce, ecce, ecce! »
Dopo avrebbe levato gli occhi al cielo e scorto nell'oscurità, tesa obliquamente sopra l'intero spiazzo, una fune alla quale era appesa una figura nella posizione di un uomo crocifisso.
Il testimone aggiunge che non potrebbe dire con certezza se la figura fosse legata a un'unica corda o se si trattasse di due distinti pezzi di fune, legati rispettivamente al polso destro e sinistro della figura, così che essa era tirata come elemento di congiunzione. Per stabilirlo, assicura il testimone, faceva troppo buio.




L'ANGELO, di un pallore marmoreo, sedeva quale testimone fra il pubblico nell'aula del tribunale. Aveva preso posto nella prima fila a destra, sotto la grande vetrata. Le sue ali enormi sporgevano oltre lo schienale della sedia occupando i due posti alle sue spalle. Poiché superava di almeno due teste le altre persone del pubblico, impediva a molte di loro la vista, ma nessuno se ne lamentava. Nessuno pareva accorgersi di lui. Al contrario, una donna assai grassa, dal viso bruno color della terra, russando, gli si appoggiava continuamente addosso quasi fosse stato una colonna. Sebbene la disagevole posizione dovesse procurargli senza dubbio fastidio, il volto statuario e severo dell'angelo nulla lasciava trasparire. Se ne stava seduto dritto e fermo, in lui tutto pareva di candida pietra. Nel complesso dava l'impressione di un'enorme scultura funeraria. Solo i suoi occhi scuri come lo spazio interplanetario seguivano in tranquillo raccoglimento quanto accadeva.
L'aula in cui aveva luogo l'udienza era molto ampia. Le file delle sedie, disposte a semicerchio, s'innalzavano gradatamente verso l'alto, sfumando in una vaga semioscurità. Un sommesso mormorare, tossire e bisbigliare di più voci riempiva l'aria. Le file erano piene zeppe di gente i cui visi, tante e tante macchie bianche, ondeggiavano qua e là senza posa come un mare di canne sbattute dal vento.
Nella parte anteriore dell'aula, al posto del banco dei giudici, era stata eretta una rozza impalcatura di circa quattro metri di altezza. Una scala fatta di tavole inchiodate conduceva a una piattaforma sprovvista di parapetto, sulla quale si trovavano un tavolino e una sedia.
A destra e a sinistra dell'impalcatura, ma un po' spostate in avanti, si alzavano due torri sottili costruite con tavole e travi senza troppa cura, terminanti ambedue con un pulpito per gli oratori. Al suolo, fra le due torri, correva come elemento di unione, per così dire, una lunga, bassa panca di legno.
Tutto era pronto per l'udienza, ma ancora l'inizio si faceva attendere. Il pubblico non pareva curarsene, già, sembrava quasi che si interessasse appena a quanto sarebbe dovuto accadere là davanti. Ognuno era troppo preso a chiacchierare sottovoce col proprio vicino. Solo l'angelo fissava il suo smisurato sguardo, con la tenace vigilanza propria dei suoi simili, sul luogo dell'azione ancora deserto, come se già potesse vedere quello che sarebbe avvenuto.
Finalmente si aprì una piccola porta nella parete di fronte, subito a sinistra dell'impalcatura, e una dietro l'altra fecero il loro ingresso dieci, dodici persone, uomini e donne in camici verde-mela con le maniche corte e calotte dello stesso colore in testa. Alcuni avevano una mascherina bianca davanti alla bocca e al naso, tutti portavano guanti di gomma. Si disposero in fila davanti alla panca fra le due torri e poi, quando furono al completo, si sedettero contemporaneamente. Alcuni bisbigliarono qualcosa all'orecchio di quelli che sedevano loro accanto, che a loro volta trasmisero il messaggio agli altri, infine tutti volsero lo sguardo verso l'angelo. Questi
li fissava immobile, come da molto lontano, e uno dopo l'altro essi chinarono il capo.
D'un tratto si udì lo squillo assordante di un campanello elettrico, ma la massa della gente vi fece appena attenzione. Il borbottare, bisbigliare e tossicchiare del pubblico continuò come prima. Poi si spalancò nuovamente la porta e due persone con nere toghe svolazzanti irruppero nell'aula. La prima era una donna con corti capelli brizzolati e un leggero accenno di baffi, la seconda un uomo tarchiato col viso rosso e una lucida pelata. Fulminei, come se ne andasse di ogni secondo, si arrampicarono rispettivamente sulla torre destra e sinistra e presero posto sui pulpiti, dove cominciarono a sfogliare smaniosamente ogni sorta di scartoffie, gettandosi di tanto in tanto occhiate battagliere. A un certo punto la donna si mise a scrutare fra la massa del pubblico finché scorse l'angelo. Gli fece col capo un cenno rassicurante, alzò entrambe le mani e le chiuse a pugno a pollici alzati. L'angelo non diede segno di averla riconosciuta e compresa. L'uomo calvo notò il gesto della collega e cercò fra il pubblico la persona cui era rivolto. Quando vide l'angelo, aggrottò irritato le sopracciglia, scrollò la testa e riprese poi a rovistare fra le proprie carte.
Ancora una volta squillò l'orribile campanello. La porticina si aprì e una figura mostruosa entrò lentamente, a passettini bruschi, nell'aula. Era abbigliata in modo tale da poter passare attraverso la porta solo di fianco e anche così non senza difficoltà. Indossava una specie di chimono rosso-cinabro ornato in ogni sua parte di drappeggi inamidati. I piedi restavano nascosti, dato che l'indumento non solo arrivava fino a terra ma si
prolungava in uno strascico lungo ancora metri e metri. L'incredibile altezza della figura, come pure la sua andatura malferma facevano dedurre che essa calzava degli alti coturni. Il capo e il viso erano celati da uno strano aggeggio di vimini laccato di rosso e simile a un'arnia antica. Erano visibili soltanto le mani piccole e bianche, con le dita allargate, che sporgevano dall'ammasso di stoffa e mostravano unghie lunghe e aguzze.
Con dignità minacciosa la figura barcollò in avanti e girò su se stessa, come se cercasse qualcosa. Era chiaro che non vedeva niente. Alcune delle persone con i camici verde-mela balzarono in piedi, corsero verso di lei e l'accompagnarono riguardose fino all'impalcatura centrale. Anche le altre si erano alzate e persino la donna baffuta e l'uomo calvo dai loro pulpiti osservavano pieni di rispetto la figura che si stava ora arrampicando, con infinita lentezza, su per la scala di fortuna che conduceva alla piattaforma. Giuntavi, si sedette con molto sussiego dietro il tavolino, si tolse il cesto di vimini dalle spalle e lo posò a terra accanto a sé. Il viso che venne alla luce era bianco come la calce, la testa cinta da un'enorme chioma grigia. E proprio a causa della pomposa acconciatura il viso pareva stranamente piccolo, simile a quello di una bambola cinese. Fissava davanti a sé senza espressione.
Le persone che indossavano i camici verdi si sedettero di nuovo. La donna con la toga nera fece un piccolo inchino in direzione della figura sulla piattaforma e iniziò a parlare. La sua voce era profonda e un po' rauca, per questo difficile da distinguere in mezzo al borbottio generale del pubblico.
« Si tratta dell'istanza numero settantatre lineetta ottocentonove, cinque numero romano ipsilon novantuno. La persona per adesso ancora senza nome chiede l'autorizzazione a incarnarsi. Come risulta dai documenti allegati non esiste motivo di negarle questa autorizzazione. Chiedo quindi all'Alta Corte di emettere un verdetto favorevole. »
« Faccio le mie rimostranze », gridò l'uomo calvo dall'altro pulpito con una voce inaspettatamente alta e acuta, mentre sventolava un foglio, « per il fatto che la persona qui senza nome, stando alla perizia ufficiale, ha già dato inizio, senza essere autorizzata, alla sua incarnazione. Con ciò ha contravvenuto al paragrafo settecentododici comma tre del regolamento di ammissione. Il porre di fronte a un fatto compiuto ha lo scopo di influenzare la Corte e ricattare gli altri interessati. Ma l'Alta Corte non si lascerà condizionare e respingerà questa illecita istanza. »
« È senza dubbio vero », replicò la donna, « e del resto noi non lo abbiamo mai smentito, che siano già stati intrapresi i primi passi del processo d'incarnazione. Come abbiamo esposto dettagliatamente nella nostra argomentazione, il richiedente si è basato sul presupposto che l'Alta Corte avrebbe compreso l'assoluta necessità, per lui, di dare inizio all'incarnazione in un determinato momento. È evidente, infatti, che certe condizioni si presentano soltanto in un certo momento. Un anticipo o un ritardo dell'incarnazione creerebbe condizioni del tutto diverse, annullando o per lo meno mettendo in serio pericolo il senso stesso dell'incarnazione e danneggiando quindi, in maniera del tutto ingiustificata, il richiedente, ciò che contrasterebbe col
diritto di tutti all'uguaglianza. L'Alta Corte non può infine macchiarsi di una colpa che essa ha l'obbligo di perseguire.
Noi insistiamo quindi nella nostra richiesta e attendiamo un verdetto favorevole. »
« Assurdo! » la interruppe l'uomo calvo. « Un momento è buono come un altro! In caso contrario sarebbe, per così dire, ovvio favorire o danneggiare tutti coloro che fanno richiesta. Le condizioni di cui parla la mia gentile collega sono senza dubbio presenti, ma è impossibile riconoscere in anticipo se esse avranno un effetto positivo o negativo per chi deve incarnarsi. In altre parole: che il momento dell'inizio dell'incarnazione sia favorevole o meno per una persona si può appurare soltanto in seguito... spesso addirittura soltanto alla fine dell'incarnazione. Noi qui non intendiamo rendere omaggio ad alcun falso misticismo! Dove andremmo a finire se volessimo programmare, per così dire, cosmicamente l'incarnazione? È ridicolo! »
« È ridicolo », strillò la donna che cominciava a sua volta ad accalorarsi, « il suo modo di pensare meccanicistico e materialistico, caro collega! Ridicolo e - peggio ancora - cinico! Perché il suo principio del "puro caso" è contrario alla dignità umana! L'uomo non è un coniglio! La natura dell'uomo risiede nel suo destino! Essa è unica e dipende perciò da circostanze uniche! Per questo impedire un'incarnazione è altrettanto criminale quanto annullarne una già in atto. È un omicidio, caro collega! Da secoli il mio cliente ha preparato la sua incarnazione. Ha fatto incontrare i suoi bisnonni, i suoi nonni e infine i suoi genitori. Per questo è stato necessario un incredibile lavoro di precisione in tutti i particolari! Se il suo bisnonno non si fosse fatto
estrarre un dente in un determinato giorno, non avrebbe incontrato la donna adatta a lui, che, solo di passaggio, si era fermata dal medicastro del paese a comprare un cerotto per un calcagno escoriato. Se non si fossero incontrati, non si sarebbero sposati e non avrebbero avuto figli, figli tra i quali c'era una bambina che divenne la nonna del nostro cliente... o che doveva diventarlo. Si potrebbero enumerare migliaia, milioni, di simili particolari. E lei vorrebbe distruggere questa meravigliosa catena di nessi causali? Lei vorrebbe sbattere all'ultimo momento la porta in faccia al nostro cliente? Costringerlo a ricominciare da capo questo faticoso lavoro? Con quale diritto? E anche ammesso che egli ricominci tutto da capo, il risultato non può e non potrà mai essere quello attuale. Il mio cliente avrà forse qualcosa da dare al mondo, quello che può ora e solo nelle presenti circostanze. Pensi un po' ai grandi santi, ai geni, agli eroi della nostra storia! Che ne sarebbe stato del mondo, se si fosse negato anche soltanto a uno di loro il diritto di incarnarsi? Come potrebbe giustificarlo? »
« E chi le dice, gentile collega », urlò di rimando l'uomo calvo, rosso in viso, « che proprio il suo cliente non diventi uno dei più grandi malfattori di tutti i tempi, una maledizione per l'umanità? Non sarebbe meglio negargli il diritto di incarnarsi? Le sue sono soltanto supposizioni infondate! Quando e in quali circostanze una persona si incarna è dovuto al caso non meno della distribuzione delle carte in un gioco. Lei parla di responsabilità! Lei parla di dignità umana! Come se a noi non stesse molto più a cuore! Proprio quanto lei sostiene, gentile collega, ha come estrema
conseguenza l'assoluta mancanza di responsabilità, dal che rende impossibile prendere decisioni ponderate. Là dove tutto appare misteriosamente dotato di un senso, persino l'estrazione del dente del bisnonno più nulla di sensato, là tutto non può che essere equivalente. Lei sa e tutti noi lo sappiamo già da tempo ci sono troppe persone al mondo. Sarebbe davvero irresponsabile accogliere indiscriminatamente ogni richiesta di incarnazione. Se lo facessimo, otterremmo proprio il contrario di quanto lei ha postulato in maniera tanto suggestiva: la difesa della dignità umana! Noi siamo responsabili perché abbiamo i mezzi per intervenire. Non possiamo sottrarci a questa responsabilità con un paio di argomentazioni pie ma di ben poco conto! Inoltre, gentile collega, stando al regolamento che disciplina le incarnazioni, il suo cliente è ormai in soprannumero! Personalmente mi rincresce per la durezza cui ci costringe la necessità nei singoli casi, ma sono convinto che essa sia giusta. L'istanza deve essere respinta. »
A questo punto un nuovo squillo del campanello elettrico troncò la parola ai due oratori. Essi tacquero e si misero a frugare con volti arcigni fra le loro carte, lanciando verso il basso sguardi preoccupati alle persone con i camici verde-mela. Queste discutevano sottovoce l'uno con l'altro, annuivano, gesticolavano e scuotevano la testa. Alla fine scelsero uno di loro, un giovane che si alzò lentamente e se ne stette lì, a capo chino, le braccia penzoloni, come un condannato. Si tolse la mascherina e si poté vedere quanto pallido fosse il suo volto. A passi stanchi si diresse verso la porticina e sparì.
La grassona seduta accanto all'angelo si era svegliata per un momento e aveva seguito gli ultimi avvenimenti. Ora sospirò entusiasta:
« Ah... un giudizio divino! »
Poi, con un'espressione piena d'interesse sul viso, sprofondò nuovamente nel sonno.
L'angelo, che per tutto il tempo non si era mosso, alzò la testa e guardò verso la nicchia della finestra sotto cui stava seduto perché si sentiva gocciolare addosso qualcosa. In effetti c'era là un grosso recipiente di vetro che prima non aveva notato. Era pieno d'inchiostro. Forse lo squillo troppo forte del campanello lo aveva danneggiato, a ogni modo il contenuto colava fuori da un'incrinatura gocciolando sulle ali e sulla veste dell'angelo. Questi però non si mosse neppure ora, lasciò che il liquido blu-cupo lo imbrattasse correndo in lunghe strisce sopra di lui. Il suo sguardo scuro era di nuovo fisso sulla piccola porta.
Dopo qualche istante essa si apri e una giovane donna entrò nell'aula. Portava una lunga camicia bianca e reggeva prudentemente fra le mani una bacinella di porcellana coperta da un panno anch'esso bianco.
Arrivata di fronte all'impalcatura centrale, volse la schiena al pubblico, tese ben bene le spalle, guardò in alto verso quello vestito di rosso e, con uno strappo deciso, tolse il panno da sopra la bacinella. Essa era piena quasi fino all'orlo di sangue caldo, ancora fumante, in cui, appena distinguibili, galleggiavano degli organi.
In quello stesso istante quello vestito di rosso balzò dalla sedia, il suo viso di bambola si torse in un ghigno spaventoso di avidità o di rabbia, spinse da parte il
tavolino che rotolò schiantandosi rumorosamente giù per gli scalini, poi scese anch'egli a velocità incredibile e si fermò proprio davanti alla giovane che lo fissava paralizzata dal terrore. Quello vestito di rosso fece alcuni movimenti come di danza, quasi a ghermire l'aria, mentre il suo volto si alterava e assumeva un aspetto che non aveva più niente di umano. Poi si scatenò, infilò le mani nella bacinella come se cercasse qualcosa di preciso, pescò un organo, forse un minuscolo cuore, e se lo cacciò con avidità in bocca, divorandolo. Rovistò ancora nella bacinella e, così facendo, schizzò di sangue la donna che la reggeva. Subito gettò via quello che aveva in mano e, lo sguardo fisso, ansimando e gorgogliando, indicò con le dita grondanti di sangue le macchie rosse sulla camicia della donna. Strinse la destra a pugno e colpi la giovane alla tempia con tanto tremendo impeto che ella piombò morta a terra, senza neppure un gemito. La bacinella di porcellana andò in mille pezzi.
Di fronte a questa scena raccapricciante l'angelo era balzato in piedi e ora se ne stava lì, in tutta la sua grandezza. Quello vestito di rosso s'i voltò e guardò verso di lui digrignando i denti. Quando scorse le macchie blu sulla figura bianca come il marmo, si avvicinò, indicò con le dita lorde in direzione delle macchie, serrò di nuovo il pugno e lo alzò, pronto a colpire. Allora l'angelo spalancò la bocca e cacciò un urlo che risuonò come lo schianto al suolo di una grossa campana di bronzo. A quell'urlo fu come se il mondo si fermasse per un istante.
Quello vestito di rosso rimase come impietrito, poi si riscosse, fece alcuni passi barcollanti e, mentre il suo
viso riprendeva l'espressione da bambola e addirittura pareva preoccupato, si chinò e cominciò a strofinare le macchie scure mentre le sue labbra si muovevano tremanti e balbettavano quasi incomprensibilmente:
« Perdonami, ti prego... ero solo un po' stordito... mi dispiace... »
L'angelo stava ancora lì, immobile, e aveva chiuso gli occhi. Era come se una forte emozione percorresse il suo corpo, un singhiozzo muto e convulso.
Quando riaprì gli occhi, vide quello vestito di rosso accoccolato accanto al cadavere della giovane donna accarezzarle teneramente il volto. Attorno ai due c'erano ora cinque bambini, disposti in un ampio cerchio, con spade di legno che tenevano dritte davanti al viso, come in segno di saluto.
« Che bello! » mormorò la grassona dal viso bruno, color della terra, che stava seduta dietro l'angelo. « I bambini fanno la veglia funebre con le vittime e i colpevoli... »
E con un sospiro soddisfatto scivolò di nuovo nel sonno.
Il resto del pubblico parve avere appena notato quanto era avvenuto. Come prima esso offriva lo spettacolo di un grigio mare di canne mosse leggermente dal vento.




SCURO come torba è il viso della madre. Larga di fianchi, siede sopra il tavolo e mastica. Alla parete è accostato l'orologio a pendolo, un gigante che batte le ore senza posa, le ore del pentimento, le ore della preghiera, le ore del crepuscolo, le ore mattutine, il giorno fatto di ore.
E la notte.
La madre non lo guarda, il gigante. Guarda oltre di lui, fuori della finestra, e sputa a terra con sprezzo. Fuori la semente germina, fiorisce e appassisce.
Nel corridoio buio si muove un'ombra magra, suo marito.
« Devo preparare il caffè? » domanda, burbero.
La madre non ha udito. Russa. E mentre russa, partorisce tre figli. Il maschio è morto, le due bambine sono in vita.
L'uomo prende le bambine e le porta nella stanza dove già sono molti altri figli. Il maschietto lo adagia fuori fra il seminato. La madre si è svegliata e mastica di nuovo. L'uomo va nella stalla e si ubriaca. Le vacche masticano come la madre.
L'uomo macella una vacca. La madre la mangia e così lui e i figli. La semente germina. Tutti mangiano pane e dalle scodelle bevono a cucchiaiate il latte della madre e delle vacche.
L'uomo si sdraia sulla stufa e dorme. La madre
partorisce altri due figli. Le vacche masticano. Il padre macella la madre. La mangia tutta assieme ai figli e anche il cane ne riceve un pezzo. L'uomo si accorge del suo errore, va nella stalla e si ubriaca.
Mentre egli dorme, la figlia maggiore si arrampica sul tavolo. Un'ombra si muove nel corridoio, un estraneo. L'orologio a pendolo batte le ore del crepuscolo e altre ore ancora.
E la notte.
La figlia partorisce due bambini. Quando il padre torna e vede tutto, piange un poco. Più tardi si sdraia al sole e non si muove più.
L'estraneo lo seppellisce fra il seminato, che germina. La figlia mastica. L'estraneo va nella stalla e si ubriaca.




LENTO come un pianeta gira il grande tavolo rotondo dal piano robusto. Sopra vi è costruito un paesaggio con montagne e foreste, città e villaggi, fiumi e laghi. Proprio al centro, minuto e fragile come una figurina di porcellana, stai seduto tu, e giri assieme a tutto il resto.
Tu sei a conoscenza di questo movimento continuo ma i tuoi sensi non lo percepiscono. Il tavolo è al centro di una sala a cupola, e anch'essa gira col suo pavimento di pietra, la volta, i muri, lenta come un pianeta.
Lontano, nella penombra, scorgi alle pareti gli armadi e i cassoni, il grosso, vecchio orologio a pendolo che mostra il sole e la luna, nel mezzo le pareti dipinte di stelle, qua e là una cometa e, in alto sopra di te, nella cupola, la via lattea. Non una porta, non una finestra. Qui sei al sicuro, tutto ti è familiare, tutto è ben saldo al suo posto, puoi fidarti di tutto. Questo è il tuo mondo. Esso gira, e tu, al centro del centro, giri assieme a esso.
Ma un giorno accade che un terremoto sconvolga tutto. Il muro di pietra si squarcia, si apre una crepa che sempre più si allarga. Le stelle dipinte si allontanano le une dalle altre e tu getti uno sguardo fuori, a qualcosa di tanto estraneo ai tuoi occhi che essi si rifiutano di percepirlo, una lontananza in cui il tuo sguardo precipita, un'oscurità luminosa, una tempesta
immota, un lampo persistente. L'unica cosa su cui può fermarsi il tuo sguardo è una figura umana appoggiata di sbieco contro l'uragano silenzioso, nascosta da capo a piedi in un velo che sembra svolazzare e invece, come in un quadro, non si muove affatto. La figura velata sta lì, tranquilla, posata sul niente, perché sotto i suoi piedi c'è l'abisso. Il vento ha premuto il velo contro il suo viso, tu puoi presagirne la forma.
Ora ti accorgi che la bocca si muove dietro il velo e senti una voce profonda e dolce dire:
« Vieni fuori, piccolo fratello! »
« No! » gridi spaventato. « Va' via! Chi sei? lo non ti conosco. »
« Non puoi conoscermi », replica quello velato, « finché non vieni fuori. Vieni dunque! »
« Non voglio! » urli. « Perché dovrei? »
« È l'ora », dice lui.
« No », ribatti, « no, questo è il mio mondo. Sono sempre stato qui e qui voglio rimanere. Va' via! »
« Lascia perdere tutto », dice, « fallo di tua spontanea volontà, prima che tu vi sia costretto. Altrimenti sarà troppo tardi. »
« Ho paura! » gli gridi.
« Lascia perdere anche la paura! » risponde.
« Non posso », ribatti.
« Lascia perdere anche te stesso! » esclama lui. Ora sei certo che sia una voce malvagia quella che ti parla e sei ben deciso a non darle ascolto:
« Perché ti nascondi e non mostri il tuo viso? Io lo so perché: tu vuoi distruggermi. Vuoi attirarmi fuori, da te, per farmi cadere nel vuoto ».
Egli tace un momento, infine dice:
« Impara a cadere! »
Con un sospiro di sollievo, vedi la figura velata scomparire alla tua vista. Ma non è stata lei a muoversi. La sala a cupola continua a ruotare lentamente e con essa anche il grande tavolo rotondo al cui centro sei seduto tu, piccolo e fragile. Anche la fessura nel muro ruota, allontanandosi dalla figura là fuori.
Ma qualcosa è cambiato. La crepa non si richiude, e dietro le tue stelle dipinte, fuori del tuo mondo ben saldo di cui mai hai dubitato, resta presente quell'altra cosa che pone tutto in discussione. Tu non puoi impedirlo, ma neppure sei disposto ad ammetterlo. A lungo ti rimane la sensazione che ti sia stata inflitta una ferita che non potrà più guarire. Niente sarà più come una volta.
Poi la figura appoggiata di sbieco nella tempesta immota compare di nuovo ai tuoi occhi. Non si è allontanata. Ti ha aspettato.
« Vieni! » dice la voce dolce e profonda. « Impara a cadere! »
Tu rispondi: « È già un bel guaio che a uno capiti di precipitare nel vuoto. Ma che sia lui stesso a volerlo o che addirittura impari a farlo, questo è sacrilego! Tu sei un diavolo tentatore, io non ti seguirò. Va' via! »
« Tu cadrai! » esclama quello velato, « e se non avrai imparato a farlo, non ci riuscirai. Lascia dunque perdere tutto! Perché presto non ci sarà più niente a sostenerti. »
« Ti sei introdotto nel mio mondo », gli gridi. « Io non ti ho chiamato. Hai infranto quanto costituiva la mia difesa e la mia proprietà. Puoi distruggere quello
che mi sostiene, ma non puoi costringermi a obbedirti. »
« Io non ti obbligo », dice quello velato, « io ti prego, piccolo fratello. È l'ora. »
La figura tace e, mentre scompare di nuovo al tuo sguardo, solleva la mano e la tende verso di te, e ti sembra di aver scorto alla luce del lampo persistente il segno insanguinato lasciato da un chiodo nel carpo. Ma già i tuoi occhi si stavano volgendo altrove e hai continuato a girare sul tuo tavolo sotto la cupola.
Ti dici che tutto ciò è solo un abbaglio. Prima o poi la fessura nel muro si richiuderà, come se non fosse mai esistita. E si vedrà che in realtà non c'è mai stata, perché non può esserci, i muri sono antichissimi e indistruttibili. Quello che è sempre stato sempre sarà. Tutto il resto non è che illusione, sorta chissà come. Non ci si può fidare. E poi quell'orribile pretesa! Non racchiudeva persino una minaccia? E se tu avessi afferrato quella mano, chi ti assicura che essa ti avrebbe sorretto? Era tesa proprio per reggerti? O soltanto per strapparti dal tuo piccolo mondo sicuro e scaraventarti nell'abisso? No, meglio che tu non ti faccia più trovare da quello là fuori. Rannicchiati ben bene! Nasconditi da lui! Se non ti vede più, forse ti lascerà in pace e tutto tornerà come prima.
La sala a cupola gira lentamente e con essa il grande tavolo rotondo assieme alle città, ai villaggi, ai laghi e a te, seduto al centro. E per la terza volta ecco apparire la figura velata nell',immota tempesta, illuminata dal lampo persistente.
« Piccolo fratello », dice la voce, e ora risuona stanca, come se parlasse con dolore, « ascoltami e abbi
fiducia! Non puoi più restare lì dove sei. Vieni fuori! » « Ma se cado, mi prenderai, mi terrai? » chiedi.
Quello velato scuote lentamente la testa.
« Se avrai imparato a cadere, non cadrai. Non esistono un sotto e un sopra, dove dovresti dunque cadere? Gli astri si mantengono reciprocamente in equilibrio nelle loro orbite senza toccarsi, perché sono affini fra loro. Così dev'essere anche per noi. Qualcosa di me è in te. Noi ci terremo a vicenda e non ci sarà altro a tenerci. Siamo astri che orbitano, per questo lascia perdere tutto! Sii libero! »
« Come faccio a sapere che quanto dici è vero? » urli disperato.
« Da te stesso », risponde. « Perché io sono in te e tu in me. Anche le verità si sorreggono fra loro e non poggiano su niente. »
« No! » gridi, « è insopportabile! Non c'è dunque modo di salvarsi da te? Che ti importa di me? Perché non mi lasci rimanere in pace qui dove sono? Non voglio la tua libertà! »
« Tu sarai libero », dice, « o non sarai più. »
Poi odi qualcosa che sembra un sospiro. I muri tremano, si muovono, e lentamente la crepa si richiude, proprio come avevi desiderato. Potresti esserne contento, ma non dura molto.
Attorno a te sta avvenendo qualcosa che afferri solo a poco a poco. Il mondo, che una volta ti era così familiare, ora non lo è più. Ti si rivolta contro. Ombre calano dalla cupola, grigie, fameliche figure di nebbia, volti grandi e piccoli, che ora ci sono e ora non ci sono, un inquieto, guizzante brulicare di membra e di corpi che si dissolvono e si ricompongono sempre di nuovo.
Che cosa fanno? Chi sono? Da dove vengono? Salgono dai cassoni e dagli armadi, dall'orologio, dagli stessi muri, da tutto ciò in cui ti eri creduto sicuro e protetto. Tutto questo sta per finire, si annienta da solo.
E, mentre la sala a cupola ruota lentamente attorno a te, suo piccolo, fragile centro, non puoi impedire che accada ciò che accade. L'hai voluto tu stesso. Hanno però ancora paura di te, di colui che le ha generate, almeno così sembra. Si pigiano negli angoli più remoti e lungo le pareti. Si stringono ai muri di pietra, vanno su e giù, sulle pareti, lambendole, per così dire, con i loro corpi di nebbia, e le stelle dipinte impallidiscono. Là dove strisciano, tutto diventa indistinto, nebuloso come loro. Spogliano il tuo mondo della sua realtà, succhiano la sua sostanza vitale, lo riducono a una larva di mondo. Lo annientano, dato che non è mai esistito.
Eppure sembrano insaziabili, perché lentamente ti si fanno sempre più vicine. Soltanto il tavolo dal piano massiccio con il paesaggio gira e gira ancora, e tu, al suo centro, giri con esso. Comprendi che annienteranno anche te, dato che non sei mai esistito.
Ora avverti dei colpi di martello senza che però si oda alcun rumore. Che cosa fanno? Conficcano un tubo attraverso il piano rotondo, un lavoro faticoso, ma esse sono instancabili. E poi, quando il tubo spunta da entrambi i lati, comincia a uscirne qualcosa che scorre, scorre, ed esse lo leccano, avide come cani. Hai la sensazione che sia il tuo sangue a scorrere e senti il piano rotondo sotto di te farsi più irreale a ogni battito del cuore. Ora ti invade un terrore disperato.
« Fratello! » gridi con una vocina esile, appena
percettibile anche a te stesso. « Salvami! Insegnami a cadere! »
Ma il muro non si apre, perché non c'è più. E presto non ci sarà altro all'infuori dell'abisso. Tu cadrai, cadrai, senza avere imparato a farlo, e cercherai dentro di te ciò che ti rende affine al tuo fratello, come affini fra loro sono gli astri che si tengono vicendevolmente nelle loro orbite, perché non ci sarà altro a tenerti e a nient'altro potrai tenerti. Ma ci riuscirai? Ci riuscirai, dal momento che non hai imparato a farlo?
Ecco che tutto è scomparso.
È l'ora.
Adesso!




L'INTERNO di un volto, con gli occhi chiusi, e niente più.
Oscurità. Vuoto.
Tornare a casa.
Tornare a casa, dove?
Non lo so più.
Chi... io?
Sono malato di nostalgia.
Ricorda!
Là, da dove sono venuto un giorno. A casa.
Hai una tua patria? Sei suo figlio?
Chi è che domanda?
Chi è che risponde?
Ora gli occhi sono aperti, tuttavia non c'è altro che oscurità e vuoto.
È per ciò, dunque, pensa qualcuno, che ho fatto quest'interminabile viaggio, viaggio che mi è costato tutto quello che mi sono conquistato in lunghi anni, soffrendo e lottando. Tutto, eccetto gli stracci che ho indosso. Per questo mi sono trascinato per deserti e montagne, attraverso il gelo e la calura, e ho sopportato la fame, la sete e la febbre delle paludi. Per questo ho strisciato sotto il filo spinato e sono fuggito sui tetti come un evaso. Che cosa mi ero aspettato?
Di tornare a casa. E ora, invece, solo quest'oscurità e questo vuoto. Avrei dovuto saperlo che non si può
tornare indietro. Io non sono più quello di una volta, perciò niente è più come prima. Ora lo so.
Questo qualcuno lo sa adesso, ma ormai è troppo tardi, perché non può più andarsene. Non si muoverà più da lì. Resterà fermo in quel luogo in mezzo all'oscurità, come una pietra.
La sua mano tasta alla ricerca dell'orologio che da tempo non ha più. Ma per lo meno ora sente le proprie mani.
Questa notte, pensa, non può durare in eterno. Presto arriverà il mattino. Ammesso, naturalmente, che ci sia ancora un domani.
Il freddo aumenta. Gli penetra dentro, sempre più a fondo. Se lo sente nelle ossa. Non gli oppone resistenza. È consenziente. Gli si abbandona. Ma non si sdraierà a terra, rimane in piedi. Aspetta.
Eppure, pensa dopo lungo tempo, eppure si fa giorno. E, mentre lo pensa, capisce di dover essere lui stesso a creare il mondo intorno a sé, affinché esista.
In cielo, sopra il margine del bosco al di là del fiume, si forma una striscia chiara su cui si allunga una nube, greve e scura come inchiostro colato. Non un richiamo d'uccello, non un rumore neppure lontano. Un silenzio di morte. Il paesaggio è come pietrificato. Persino l'acqua del fiume è grigia e immobile come freddo piombo.
Dipende da lui, dunque, quello che sarà, quello che avverrà, ma non è che egli si renda già conto di quanto pure percepisce.
Seduta al margine del bosco vede la donna, grossa e grigia come una roccia. Lavora a maglia senza mai interrompersi e senza alzare gli occhi.
Il suo sguardo sgomento si sposta sull'arcata del ponte di pietra che sovrasta il fiume sempre completamente immobile. E ora è colto da timore, ha paura. Due uomini imbacuccati, uno alto e uno più basso, stanno sopra il ponte come se ci fossero sempre stati, con i loro lunghi mantelli grigiobruni, la testa e il viso avvolti in sciarpe, i fucili in spalla. Non sa chi siano, ma sa che aspettano soltanto che il suo tempo sia scaduto. Allora attraverseranno il ponte e bruceranno la sua casa.
La mia casa, pensa, è ora che finalmente la veda. La vede.
È lì, di fronte a lui, in aperta campagna, a pochi passi di distanza. Ma non la riconosce. È certo di non averla mai vista prima. Niente lo lega a quell'edificio, neppure il più fuggevole ricordo, la più vaga sensazione di essere di ritorno. Non la trova nè bella nè brutta, solo estranea. Somiglia a una grossa piccionaia. Per lui è inabitabile. Non lo riguarda affatto.
Cerca di cancellarla e di metterne un' altra al suo posto, ma essa rimane lì dov'è. Non riesce nemmeno a cambiarne qualcosa. Sente invece che è proprio a causa di questa casa che è chiamato a rendere conto. Si è caricato di una colpa, evidentemente di una colpa grave. Di questo non dubita, dato che sempre più ne avverte il peso. Che cosa ha fatto?
Ha rinnegato quella casa, la sua casa, l'ha piantata in asso. L'ha tradita, diventando altrove un grand'uomo, un temuto uccisore di messi celesti, un famoso cacciatore di angeli. Perché di questo tipo di preda lui era più esperto di chiunque altro. Quanti angeli ha abbattuto e sventrato, per venderne poi le penne scintillanti e le preziose pelli ai potenti del mondo
disincantato e alle loro belle, ancor più potenti, che ne hanno ornato i propri abiti da festa! Ha teso reti e messo trappole e i suoi proiettili hanno sempre colpito in modo da non danneggiare il prezioso piumaggio. Così è diventato ricco.
Ma poi è sopraggiunta la nostalgia ed egli si è lasciato tutto alle spalle per tornare a casa. E ora se ne sta lì, dove si sente uno straniero più che in qualsiasi terra straniera, e durante la sua lunga assenza i topi hanno preso possesso della sua casa, vi si sono annidati, diffondendosi come un'epidemia mortale. Questa è la sua colpa.
E ora ha tempo fino all'alba per ripulirla, per liberarla dal flagello dei ratti, altrimenti verrà bruciata e lui stesso sarà annientato.
Non mi faccio illusioni, pensa, non c'è speranza. Non sarei dovuto tornare.
Anche se riuscisse a penetrare all'interno della casa, come potrebbe uccidere centinaia, forse migliaia di ratti... fra l'altro a mani nude, visto che non ha potuto portare le proprie armi con sé. Ma anche solo entrare nella casa è impossibile. Ci sono si delle porte, anzi, in realtà, da terra fino al tetto la casa consiste soltanto in porte aperte... ma sono tutte troppo piccole per lui. Al massimo una marmotta potrebbe infilarsi dentro, o un ratto, per l'appunto, un uomo certamente no.
All'estero sono diventato grande, pensa, ora non ho più idea di come si faccia a ridiventare piccoli.
Osserva la casa. Ogni porticina ha una mensola, un'assicella o un posatoio davanti all'entrata. Ma niente si muove. Sembra deserta.
Egli non vede nè sente i ratti, ma sa che sono
dentro, che si sono nascosti e se ne stanno cheti cheti. Anch'essi aspettano. Aspettano che lui se ne rivada. Probabilmente non sanno che per loro è finita, in un modo o nell'altro. Ma anche per lui è finita, non c'è speranza.
Non c'è davvero rimedio? Nessun essere al mondo può venirgli in aiuto? Dentro di sé non troverà niente da poter creare per la propria salvezza? Creature del deserto dal deserto del suo cuore?
C'è un lupo, grigionero, forte e irruente. E una volpe graziosa e giocherellona. No, pensa lui, non li ho addomesticati. Mi hanno seguito di loro spontanea volontà. Un'amicizia davvero strana, quella che hanno stretto con me un giorno nel deserto. Ce n'è voluto del tempo perché i due si accettassero, ma alla fine hanno imparato a convivere in pace. Mi hanno accompagnato ovunque, persino nelle città, sulle navi, e anche in quest'ultimo viaggio, fra tutti quello più insensato. Non mi hanno mai abbandonato, persino stanotte mi sono rimasti fedelmente al fianco, immobili come animali araldici.
Ma già si pente di averli evocati. Che ne sarà di loro, pensa, quando verrà eseguita la mia condanna? Li rinchiuderanno in gabbia? Li metteranno in catene? O annienteranno anche loro? Ma loro non c'entrano con le mie brutture. Sono selvaggi, sì, ma innocenti. Devo cacciarli via finché c'è tempo. Perciò ora, subito. Posa le mani sul loro pelo, che è caldo. Si china e sussurra loro all'orecchio: State a sentire, miei valorosi, cari! Dobbiamo separarci. È meglio così. Dovete lasciarmi solo, ora. Non ho più bisogno di voi. Guardate di filarvela! Sparite!
Ma il lupo e la volpe non si muovono dai loro posti, proprio come se fossero statue. Egli è costretto a fare qualcosa che non ha mai fatto prima. Li prende a calci e a pugni. Essi tentano di sfuggire ai suoi colpi, ma non si allontanano.
Via! ansima lui, e stenta a reprimere un singhiozzo. Via! Levatevi di torno!
Essi si lamentano sommessamente a ogni calcio o pugno che li coglie, ma restano. Egli stringe i denti e prova, di nuovo. È meglio, pensa, che vivano il resto della loro vita senza avere più fiducia in niente, ma che siano vivi e liberi.
Finalmente sembrano aver capito e zoppicano via guaiolando. Ma non scappano, corrono verso la casa, il pelo ritto sulla schiena. Egli ode il lupo ringhiare furioso e i brevi latrati striduli della volpe. Cercano, un ingresso, ma nessuna porticina è grande abbastanza, neppure per la volpe. Come pazzo di rabbia il lupo raschia con entrambe le zampe attorno a una delle aperture più basse. Ci caccia dentro con tutte le forze la testa, restandoci imprigionato, senza poter andare nè avanti nè indietro. Lancia un ululato, un lungo grido rauco, punta le zampe e tira e spinge, i suoi unghioli raspano il suolo, il muro intorno all'apertura cede, alcuni pezzi si sgretolano e il lupo libera la testa. Subito la volpe schizza dentro silenziosa, veloce come un lampo.
Nell'improvviso silenzio che segue, il figlio di nessuno che è tornato a casa sente martellare il proprio cuore. Ancora non capisce che cosa stiano facendo i suoi animali, ma in lui sorge una folle speranza contro la quale non può lottare.
No, pensa, è impossibile. Anche se la volpe riesce a prendere un paio di ratti, a che servirà?
Il lupo gli è tornato accanto, si è sdraiato al suo fianco e si lecca le zampe insanguinate. Dalla casa si ode un ustolare disorientato. Il muso affilato della volpe appare per un istante dietro una delle porticine superiori, proprio sotto il tetto, e scompare di nuovo.
I due uomini imbacuccati sul ponte non si sono mossi. Il figlio di nessuno cerca con lo sguardo i loro volti, ma fra le sciarpe non c'è che buio. La grossa donna grigia come una pietra continua a lavorare a maglia. L'acqua del fiume è sempre immobile.
Che cosa è stato a lanciare un urlo d'agonia? Era la volpe? Un gemito infernale giunge ora dalla casa, poi uno stridio che sempre più si gonfia, un soffiare e un fischiare come del vento di tempesta, infine un urlio di più voci, che improvvisamente cessano. Dall'apertura che è stata forzata guizza fuori la volpe come una rossa fiamma, si precipita verso il suo padrone, fa una capriola e si lancia poi in aperta campagna, dove, come impazzita, corre scatenata di qua e di là.
Lentamente i due uomini imbacuccati si tolgono i fucili di spalla, li caricano e puntano con calma. Mirano alla volpe.
No! grida il figlio di nessuno, non a lei!
A braccia aperte corre nella linea di tiro e davanti alle bocche dei fucili. Incerti, i due uomini imbacuccati abbassano le armi. Egli si volta.
Ansimante e con la lingua penzoloni, la volpe giace a terra, proprio dietro di lui e lo guarda piegando di lato la testa. I suoi occhi verdi hanno quasi un'espressione
spavalda. Col muso gira un corpicino senza vita che tiene fra le zampe.
Il figlio di nessuno raccoglie la preda e la osserva. Una pellaccia nera, bagnata, irsuta, vuota e già fredda, quasi senza peso, eppure qualcosa di orribile, non perché è morto, ma perché ha vissuto, perché è stato possibile: un visetto triangolare, vecchissimo, carico anche adesso di un'incredibile malvagità, manine di uomo rattrappite con artigli lunghi e aguzzi. Se quello è un ratto, lui non ne ha mai visto uno prima di allora.
Regge la cosa ormai rigida sulle mani protese e si dirige verso i due uomini imbacuccati. Il lupo e la volpe lo seguono. Così sono in tre a fermarsi davanti al ponte.
Dopo un lungo silenzio i due uomini imbacuccati si rimettono i fucili in spalla e, dopo un altro lungo silenzio, si voltano e si allontanano a passi pesanti e malfermi.
Il figlio di nessuno li segue con gli occhi e ora, d'un tratto, tutta la speranza cui aveva rinunciato sale in lui, come un caldo fiume di lacrime. Sente calore levarsi dalle sue ossa, fluire nelle sue membra, nel petto, nella gola, negli occhi. Adesso sa che il suo ritorno è appena iniziato.
La grossa donna grigia come una pietra, seduta al margine del bosco, ha smesso di lavorare a maglia. Le sue mani posano immobili in grembo. Il viso, fino a quel momento scuro d'ombra, è ora illuminato dal riverbero dell'alba verso cui è volto. In placida attesa ella guarda il cielo che sempre più va rischiarandosi. Da quella parte si stacca dalla luce, ancora molto lontano e quasi solo da presagire ma già risplendente di tutti i colori del colibrì, il primo paio di ali in volo.




IL ponte, al quale lavoriamo già da molti secoli, non sarà mai ultimato. Come una mano tesa che nessuno afferra, spunta dalla ripida costa rocciosa al confine del nostro paese, sotto la quale si estende il nero abisso senza fondo. Il suo arco, slanciandosi verso l'alto, scompare lontano, da qualche parte in mezzo alla nebbia che sempre sale dal basso.
Una costruzione simile non può essere portata a termine se non si costruisce anche dal lato opposto. E finora non abbiamo mai avuto prova che anche dall'altra parte si lavori a un tale progetto. È probabile che di là non si siano neppure accorti dei nostri sforzi.
Molti di noi dubitano addirittura che esista davvero un'altra parte. Questa fazione nel corso degli ultimi due secoli ha fondato una chiesa propria che si discosta dalla vecchia dottrina ortodossa e i cui membri vengono chiamati col nome di Unilaterali. All'inizio si è trattato di un nomignolo affibbiato loro dagli ortodossi, poi essi stessi lo hanno adottato e da allora lo portano non senza un certo orgoglio. Le loro convinzioni non vietano del resto che essi partecipino col massimo impegno alla costruzione del ponte, così come prescrive la nostra etica. Perciò oggi non vengono neppure più perseguitati, come invece è accaduto a volte in un primo momento, ma godono degli stessi diritti degli altri, o quasi. Li si può riconoscere da un piccolo
taglio verticale che hanno sul lobo dell'orecchio sinistro, col quale professano la propria unilateralità. Gli altri invece, che formano la maggioranza ortodossa, si chiamano Dimezzati. Essi non dubitano dell'esistenza di un'altra parte, ma sanno che è irraggiungibile.
Sebbene il ponte non si sia mai proteso oltre la metà dalla nostra parte, vi regna un traffico molto intenso. A tutte le ore del giorno e della notte vi si possono vedere carri, persone a cavallo o a piedi, lettighe e facchini che circolano in ambedue le direzioni. Senza gli scambi commerciali con l'altra parte oggi non potremmo più esistere, perché tutti i medicinali e gran parte dei nostri generi alimentari provengono di là. Dal canto nostro noi li riforniamo di ogni sorta di recipienti di terracotta, laterizi, attrezzi metallici e cera fossile che estraiamo dalle nostre miniere.
Spesso è difficile far comprendere agli stranieri che questi fatti, che a loro sembrano un'evidente contraddizione, noi li accettiamo senza problemi e conviviamo con essi. La nostra religione ci vieta - e a questo riguardo non c'è alcuna differenza fra gli Unilaterali e i Dimezzati - di porre in dubbio che esista realmente solo il tratto di ponte da noi costruito. Fanatici ed eresiarchi, che di quando in quando hanno fatto la loro comparsa nel corso della nostra storia, sono stati condotti seduta stante fino al punto in cui termina il ponte e costretti a proseguire. Naturalmente sono precipitati nel vuoto.
Per chi non è nato e cresciuto nel nostro paese può essere difficile capire che il presupposto degli scambi fra noi e l'altra parte consiste nella nostra più assoluta certezza circa la loro impossibilità. Se mettessimo
seriamente in discussione tale fondamento della nostra dottrina, allora - e di questo siamo più che certi, tutti i nostri libri sacri lo attestano - il tratto di ponte che abbiamo costruito crollerebbe all'istante e noi saremmo perduti. I viaggiatori farebbero bene quindi a tenere a freno la lingua e a non sforzarsi troppo ostinatamente di scoprire il mistero della nostra fede. Altrimenti corrono il rischio di rimanere vittime anch'essi della sorte toccata agli eretici del nostro popolo. Sperimenterebbero sulla loro pelle che il nostro ponte non è ultimato e che fra noi e l'altra sponda si stende ancora l'abisso.
Durante la celebrazione di un matrimonio - e non sono pochi - tra una figlia o un figlio del nostro paese e un figlio o una figlia originari dell'altra parte, questi ultimi confessano solennemente di non esistere. La differenza fra le nostre due confessioni consiste soltanto in questo, che la formula presso gli Unilaterali suona così: « Io non provengo da nessun luogo, perché il luogo della mia provenienza non esiste. Per questo io non sono nessuno, e così ti prendo in sposo (sposa) »; mentre presso i Dimezzati la formula dice: « Di là, da dove provengo, non è possibile che io provenga, per questo io non sono qui, e così ti prendo in sposo (sposa) ». Con questa cerimonia la persona in questione acquista la piena cittadinanza nel nostro paese e da allora viene considerata un individuo reale con tutti i doveri e i diritti di un coniuge.




È UNA stanza e contemporaneamente un deserto. Le nude pareti si innalzano lontane e nebulose all'orizzonte. Tutt'intorno null'altro che sabbia, duna dopo duna, sempre di seguito, in ogni direzione. Su in alto, allo zenit, è appeso un sole incandescente, oppure è una lampada con un paralume di latta smaltato di azzurro? La luce violenta fa strage di tutti i colori, risparmia soltanto superfici bianche e ombre nere: lo scheletro della luce, accecante, insopportabile, micidiale, lo splendore malvagio di un cannello cosmico per saldatura autogena.
La stanza ha due porte, gigantesche, incassate nell'azzurro infocato del cielo, una a nord e una a sud, sopra il tremolante orizzonte.
Dalla porta settentrionale una traccia tortuosa di piccoli crateri di sabbia conduce fino in mezzo al deserto. Qui cammina un uomo, piccolo come un formichino. A ogni passo affonda fin oltre le caviglie, barcolla, agita le braccia.
Questi è lo sposo.
Il suo viso è bruciato dal sole, la pelle screpolata e piena di bolle, le labbra sono bianche per la saliva secca. I capelli scoloriti sono duri come paglia. Con sorda pazienza si riaggiusta continuamente gli occhiali che gli scivolano dal naso sudato. Nella mano sinistra sventola un cappello a cilindro tutto ammaccato. Il
tight che indossa doveva essergli andato giusto un tempo, ma ora gli è troppo largo, le falde gli arrivano fino ai calcagni. La stoffa è logora e rovinata in più punti. La camicia gli esce dai pantaloni diventati anch'essi troppo larghi ed egli è costretto a tirarseli su ogni tre passi. A un piede porta una scarpa di vernice con la suola che si stacca, l'altro piede se lo è fasciato con un fazzoletto sporco, per proteggerlo almeno un po' dalla sabbia rovente.
Circa venti metri davanti a lui cammina un altro uomo, un impiegato forse: vestito in modo impeccabile, abito scuro, cappello scuro, una cartella in una mano e nell'altra un ombrello ben chiuso. Ha il viso un po' pallido e completamente senza tratti, cancellato si potrebbe dire.
La distanza fra i due uomini aumenta pian piano, ma con ritmo costante. Lo sposo cerca di sbrigarsi, respira con affanno, cade, si rialza, vacilla ancora, cade di nuovo.
« Senta, per piacere! » strilla, e la sua voce risuona acuta e affaticata come quella di una vecchina. « Aspetti! Vorrei domandarle una cosa. »
L'uomo senza volto ha certamente udito le sue grida ma prosegue ancora per un buon tratto prima di fermarsi e volgersi con un sospiro, quasi si trattasse del piagnucolio di un bimbo maleducato che per la centesima volta tenta di trattenerlo con un pretesto qualsiasi. Appoggiatosi con fare indolente al suo ombrello, osserva lo sposo che con gran fatica si arrampica a quattro zampe sulla duna dove egli si trova.
« Per favore, si sbrighi! » dice freddamente. « Che cosa c'è ancora? »
« Mi dica », ansima lo sposo, ed è evidente che riflette un poco su quello che in realtà vuole chiedere, « mi dica, per favore, è ancora molto lontano? »
Mentre parla le sue labbra gonfie fanno le fila come formaggio.
« Solo un paio di passi ancora », risponde l'altro, corretto come prima, « fino a quella porta laggiù. »
E con l'ombrello indica in direzione della porta a sud. Sta per incamminarsi di nuovo ma lo sposo lo trattiene.
« Mi scusi », butta fuori con un certo sforzo, « ma dove - è che in questo momento mi sfugge - dove stiamo andando? »
« Dalla sua sposa, caro signore », spiega l'altro, e si capisce che questa risposta ha dovuto già darla più volte. Scandisce ogni sillaba e parla forte, come se si rivolgesse a uno scemo o a uno un po' duro d'orecchi. « La sto portando nella stanza della sua sposa. »
Lo sposo lo fissa per un attimo a bocca aperta, poi si batte la mano sulla fronte e sbotta in una breve risata, come per chiedere scusa. Tenta un sorrisetto, mentre dice: « Quando saremo da lei, andrà tutto bene, vero? Non troverà niente da ridire sul mio conto, solo perché non sono più vestito tanto bene come prima? In fondo è per causa sua, se ne renderà conto? Quello che ho sofferto la convincerà del mio amore per lei? Mi crederà, di questo sono sicuro. Mi accoglierà a braccia aperte ».
« Quando saremo da lei », conferma l'altro con indifferenza.
« Certo, certo », mormora lo sposo, « presto, molto presto. Per questo ho scelto la via diretta, dalla porta
là dietro all'altra là davanti. La via diretta è la più breve, non è così? Questo lo sa anche un bambino. »
« No », esclama l'altro con viso impenetrabile, « non nella stanza di mezzogiorno. Gliel'ho detto fin dall'inizio, ma lei non ha voluto credermi. Ogni via traversa sarebbe stata più breve. Lei non è stato nemmeno ad ascoltarmi. Ed ora è troppo tardi. Ci siamo già spinti troppo oltre. »
Lo sposo si passa sulle labbra screpolate la lingua asciutta come un pezzo di miccia. « Allora potrò fare di lei tutto ciò che vorrò », bisbiglia. « Lei dovrà accettare tutto senza obiezioni di sorta. Non per niente è la mia sposa. Ma non lo farò. Non le farò nulla di male, capisce che cosa intendo? Lei è infatti molto giovane e bella. Del tutto innocente, sa? In ogni caso sarò tenero con lei, dolce e pieno di tatto. L'aver scelto la via diretta non significa che io voglia aggredirla. Le lascerò tempo. »
Il suo accompagnatore tace e guarda senza interesse verso l'orizzonte.
Lo sposo fissa per un momento l'alluce che gli spunta dalla scarpa di vernice, poi chiede, d'un tratto diffidente: « Ma è davvero giovane e bella, la mia sposa? Voglio dire... lo è ancora, no? La prego, mi dica apertamente la sua opinione! »
« Io non ho alcuna opinione in proposito », ribatte l'uomo senza volto.
Lo sposo si strofina la fronte. « Si, si, lo so. Solo che... ne è già passato di tempo. Ricordo appena il suo aspetto. Per essere sincero, è una persona che non conosco più. Una ragazza qualsiasi, estranea. Come si chiamava? Dio mio, è già da tanto che siamo in cammino. »
« Siamo usciti da quella porta », dice la voce fredda,
« e andiamo verso l'altra laggiù. Questo è tutto. »
« Io non capisco », confessa lo sposo, « non capisco come possa essere tanto lontana. »
« Lei non capisce », ripete l'altro, mentre fa per rimettersi in cammino, « ma la sua sposa aspetta. Venga! »
Lo sposo lo trattiene ancora una volta per la manica.« Lei come fa a saperlo? Forse non mi aspetta più già da un bel pezzo. Oppure non mi ha mai aspettato. Chissà che cosa può essere successo nel frattempo. Così mi sarei sobbarcato inutilmente a tutto, rendendomi ridicolo. »
« Questo », risponde la voce secca, « lo saprà quando avrà varcato quella porta là davanti. »
« La porta là davanti! », sussurra lo sposo, « è irraggiungibile, resta sempre di fronte a noi, sempre alla stessa distanza... È una fata morgana, non una porta! »
« Sciocchezze! » esclama l'altro senza un sorriso, « una fata morgana appare e scompare. Ma quella porta è stata lì fin dall'inizio e c'è rimasta, sempre uguale. »
Lo sposo annuisce. « Si, uguale - da allora, da quando mi sono messo in cammino - quando ancora ero giovane. »
« Perciò non può essere una fata morgana », replica l'accompagnatore col tono di chi vuole troncare il discorso, e si rimette in marcia.
Per lungo tempo i due uomini procedono l'uno accanto all'altro, ma a poco a poco si ricrea una certa distanza fra loro, che aumenta sempre più. Di nuovo lo sposo si mette a strillare e di nuovo l'uomo impeccabilmente vestito si ferma solo dopo un po' e lo aspetta,
appoggiato al suo ombrello. Lo sposo si scioglie a vista d'occhio, gli abiti gli pendono a brandelli dal corpo, pare persino diventato ancora più piccolo e vecchio.
« Allora », butta fuori trafelato, mentre col cilindro di cui è rimasta ormai soltanto la tesa fa un gesto scomposto per indicare la porta settentrionale, « allora ero ancora forte, se lo rammenta? Allora ero io quello che andava avanti, ricorda? »
« Qualche volta », rettifica l'altro, « molto di rado. » Lo sposo scrolla ostinato la testa. « No, no. Lei poteva appena frenarmi. Aveva il suo bel da fare a tenermi dietro. Allora ero più giovane di lei, caro mio. Molto più giovane e molto più forte. Ero un giovanotto prestante. »
« Io », ribatte l'accompagnatore, « ho sempre la stessa età. »
Lo sposo si toglie con la mano la sabbia dal viso grinzoso. « Mi ricordo », sussurra, « che quando uscimmo dalla porta c'era una donnina vecchissima accovacciata a terra, piccola piccola, come rinsecchita dal sole. Indosso non aveva che pochi brandelli di stoffa ridotti a una ragnatela, forse quanto era rimasto del suo velo di sposa. Povera, vecchia strega! I suoi seni vizzi, scarniti e vuoti come pieghe della pelle mi fecero ribrezzo. Ma lo sguardo con cui mi fissava! Mi è tornato spesso alla mente. Aveva gli occhi infossati, quasi ciechi. E mi tendeva la mano in cui stringeva un paio di steli secchi di rosa. Il suo sguardo mi ricordava qualcosa... o qualcuno. Ora non rammento più. So soltanto che provai vergogna per lei, perché era così vecchia e brutta. Mi tolsi il garofano rosso dall'occhiello e glielo gettai. Lei lo prese e rise con la sua bocca sdentata. Credo
che fosse contenta del mio regalo. Sì, allora ero davvero un bel pezzo di giovanotto, forte come un toro. Pensavo: solo qualche passo e sarò da lei, dalla mia sposa. Avevo fretta. Per questo scelsi la via diretta per andare da lei. »
« Forza, cammini! » esclama l'accompagnatore, ora quasi un po' spazientito.
Ma lo sposo ha ancora qualcosa da aggiungere, sebbene parlare in modo comprensibile gli costi fatica. « Non pensa anche lei », gracchia, « che sarebbe meglio aspettare fino a sera? Col fresco potremmo proseguire più facilmente. »
« La prego », ribatte l'uomo senza volto, « si riprenda! Lei fa una gran confusione. Noi ci troviamo nella stanza di mezzogiorno. Qui non esiste la sera. Lo vede anche lei, qui non gettiamo praticamente alcuna ombra. La luce è allo zenit, immutata e immutabile. »
Lo sposo annuisce triste, lascia cadere le braccia e dice: « Io non ce la faccio più ».
L'accompagnatore rovista indifferente fra la sabbia con l'ombrello. « Questo l'ha già ripetuto cento volte. Devo fare appello di nuovo al suo senso di responsabilità? La stanno aspettando. La sua sposa conta ogni minuto. Freme dal desiderio di vederla, come solo le giovani possono fremere. Ciò non significa niente per lei? »
« Ma certo, certo! » si affretta ad assicurare lo sposo. Di nuovo camminano in silenzio per un lungo tratto, per ore o anni, sotto la luce splendente.
D'improvviso lo sposo si getta a terra, si rotola sulla schiena e grida al cielo, con le labbra incrostate: « Perché? Ma perché? Perché il cammino è tanto lungo?
Non arriverò mai. Mai, mai vedrò la mia sposa e potrò abbracciarla. Perché non ho potuto dirle semplicemente che la desidero, che la voglio, che ardo dal desiderio di sentire la sua pelle, il suo corpo? » Un attacco di tosse lo scuote, non riesce a proseguire.
L'accompagnatore attende imperturbabile che gli passi, quindi dice: « Tutto ciò, lei l'ha fatto. Ha detto queste cose e ora sta tutto scritto, parola per parola, nei documenti ». Batte leggermente con l'ombrello sulla cartella di cuoio.
Per un po' lo sposo muove le labbra, senza parlare.
« Ma perché », balbetta alla fine, « perché allora mi trovo qui e non da lei? Perché non faccio che avvicinarmi, senza però mai raggiungerla? Perché? Perché? »
« Perché l'ha voluto lei », dice l'altro abbassando lo sguardo verso di lui. « Le è stato detto e ridetto che la via diretta è quella più lunga. Lei però non è stato neppure ad ascoltare. Almeno mi ascolta adesso? »
« Sì », gracchia lo sposo. Fissa a lungo il suo accompagnatore, poi comincia a ridere. Pare quasi un lungo stridio. L'altro aspetta immobile. Finalmente l'uomo deglutisce e sussurra: « Dunque la matematica mi ha tratto in inganno? »
« No », risponde l'accompagnatore, « in matematica è giusto. »
Lo sposo lascia ricadere la testa all'indietro sulla sabbia e fissa il sole. Gli occhi gli fanno male, Come se fossero trafitti da ferro rovente, ma non lacrimano. Non ha più lacrime. Si fa scorrere sabbia fra le dita e mormora: « Allora è così. Io mi arrendo. Sciopero. Non ho più voglia. Sciopero ».
« Coraggio! » dice l'accompagnatore, ma lo dice senza
premura. « Guardi, là è la porta, sono solo un paio di passi. »
L'uomo continua a farsi scorrere la sabbia fra le dita. L'accompagnatore lo tira su e lo regge tenendolo a braccia distese, tanto è diventato leggero. Le sue gambe penzolano in aria come quelle di un pupazzo.
« Non ci vedo più », mormora, « non ho più occhi. » « E la sua sposa? » domanda l'altro.
« Non so più niente. Non capisco più niente. Non voglio più niente. Non ho una sposa. Non ne ho mai avuta una, e mai ho desiderato di averne. Non ho mai amato. Non sono mai esistito. Per favore, mi lasci in pace. »
Ma l'accompagnatore non desiste. « Lei non ha il diritto di rinunciare alla sua esistenza. Lei pensa soltanto a se stesso. Ma lei si è assunto una responsabilità, e un uomo di carattere come lei non può gettarsela così, semplicemente, dietro le spalle. »
« Carattere... » sussurra lo sposo, sempre con le gambe penzoloni, « mi chiedo perché non si assuma lei il mio compito. La ragazza ne sarebbe contenta. Lei è ancora giovane... in ogni caso più giovane di me. »
L'accompagnatore lo molla. Egli cade sulla sabbia come un fagotto di stracci. Strizzando gli occhi, cerca di vedere l'uomo senza volto che lo sovrasta in tutta la sua altezza.
« I nostri doveri », sente dire dalla voce piatta, « non sono gli stessi. »
Lo sposo giocherella ancora con la sabbia. « Doveri... » sussurra ridacchiando un poco, « doveri... »
Ora per la prima volta l'altro perde quasi il controllo
« Lei si comporta come se ne andasse della sua vita. »
« È così infatti », risponde lo sposo annuendo con tristezza « Ne va della mia vita, retroattivamente, capisce?
Io sono vecchio, ma non ho vissuto. Mi hanno annullato. Mi hanno defraudato della mia vita, non so chi. E ora non la voglio più. Non voglio averne mai avuta una. Lei non può farci niente. »
« Invece sì », esclama l'altro.. « La porterò io per questi ultimi due passi. »
Lo sposo ridacchia. « Gli ultimi due passi... non ce la farà! »
« Permette? » dice l'altro e, senza attendere risposta solleva lo sposo e lo prende in braccio. Questi cinge con un braccino magro la spalla dell'accompagnatore e appoggia la tentennante testolina di vecchio al collo di lui. Così percorrono ancora un lungo tratto. Sebbene lo sposo non pesi ormai quasi più niente, chi lo porta infine non ce la fa più e lo lascia scivolare a terra.
« Gli ultimi due passi... » bela lo sposo trionfante, « lo vede, lo vede? »
L'uomo senza volto non risponde. Aggancia il manico dell'ombrello al collo del tight, anzi, a ciò che ne è rimasto, e si trascina dietro lo sposo.
Di nuovo trascorre un tempo infinito.
Lo sposo sente che l'altro lo ha mollato e cerca di liberarsi del mucchietto di stracci che ha indosso.
« Eccoci arrivati », sente dire dalla voce impassibile, « glielo avevo detto che mancavano solo un paio di passi. »
Con un ultimo sforzo lo sposo si solleva a sedere e spalanca gli occhi. La luce gli penetra dentro come
metallo fuso ed egli caccia un urlo, che però nemmeno lui stesso ode.
La porta ondeggia davanti al suo sguardo morente. È aperta. Dietro di essa l'azzurro del cielo è di una gradazione più scura di quello, un po' fosco, che la circonda. Sulla soglia c'è una ragazza slanciata, dalle lunghe gambe, con indosso soltanto un vaporoso velo da sposa che le scende dalla testa e le avvolge il corpo, trasparente come una leggera nebbiolina. Il viso è quasi nascosto in questa nebbia, ma tanto più chiaramente si distinguono le membra lunghe e sottili, le cosce, il seno minuto, l'addome piatto e l'ombra scura del ventre. In mano ha un mazzo di rose.
« Finalmente! » grida, « quasi morivo per il desiderio. Ma dov'è? Dov'è lui? »
L'accompagnatore si volge verso lo sposo, ma questi solleva una mano con gran fatica e, implorante, si porta un ditino ossuto alla bocca infossata e senza denti.
L'accompagnatore scuote impercettibilmente le spalle e si volta verso la sposa. « Il suo sposo l'aspetta dietro la porta settentrionale. Se vuole, la conduco io da lui per la via diretta. »
« Andiamo! » grida lei, « facciamo alla svelta. Solo un paio di passi e sarò da lui. »
Sta per correre via, ma si arresta vedendo che lo sposo le tende la mano. Confusa, l'osserva per un istante, poi gli getta una delle rose del mazzo che tiene in mano.
Lo sposo leva lo sguardo sull'accompagnatore che a braccia incrociate ha assistito alla scena e ora dice piano: « Per lo meno vi siete incontrati. L'avete già fatto più volte e lo farete sempre di nuovo. Questo non capita a tutti ».
Quindi segue la ragazza che a lunghi balzi s'inoltra nel deserto, in direzione dell'altra porta che si leva, enorme, sull'orizzonte settentrionale. Le due figure si fanno sempre più piccole in mezzo alle dune e presto di loro non resta che una traccia tortuosa di minuscoli crateri di sabbia.
Lo sposo la segue con gli occhi lattiginosi, mentre con le dita palpa il boccio della rosa.
« Com'è bella! » sussurra, « mio Dio, com'è bella! » E, lasciandosi ricadere sulla sabbia, mormora ancora: « Mi troverà laggiù, dietro quella porta? »




FIAMME danzanti erano gli invitati alle nozze e festeggiavano la più splendida delle feste nel castello di cera colorata. Le trasparenti pareti variopinte, le torri, i portali e le finestre risplendevano fino in lontananza nella campagna notturna.
C'erano gonfie fiamme dorate che si muovevano con molto sussiego, e sottili lingue d'argento che guizzavano svelte l'una nell'altra; c'erano anche minuscole fiammelle che saltellavano un po' ovunque, e grandi fuochi quieti, quasi immobili al loro posto, alcuni di un bianco splendente, altri color arancione-scuro o rosso-porpora. Ce n'erano anche altri che bruciavano con lunghi sventolanti cappucci di fumo, e qua e là si vedevano dignitosi ceri come del resto s'incontrano in ogni festività di una certa importanza. In breve, molte migliaia erano gli invitati alle nozze e io ero fra loro.
Tutti alimentavamo la nostra ardente esistenza con la cera variopinta del castello, la consumavamo, l'adoperavamo senza preoccupazioni ne riguardi di sorta, mentre celebravamo la festa. Dapprima si sciolse naturalmente l'enorme tetto fatto di verdi tegole di cera, che gocciolò attraverso i travetti e le robuste, nere colonne di candele del solaio e corse in densi rivoli per le stanze e i saloni del piano superiore. Poi fu la volta dei pavimenti marmorizzati che si riversarono in cascate multicolori, formando stalattiti e stalagmiti, grotte
e ciuffi, lungo le gallerie e gli ampi scaloni. Quanto più l'edificio si fondeva, tanto più selvaggia e sfrenata si faceva la danza degli invitati. Travolti dall'ebbrezza della gioia, divampavano in incendi di entusiasmo, turbinavano in girotondi ubriachi di felicità. Ora si prendevano tutti per mano e correvano velocissimi, formando lunghe catene per i saloni e i corridoi, ora si lanciavano in vortici, poi si dondolavano ancora e scivolavano qua e là a coppie, guizzanti l'una nell'altra, in solenni tanghi e sarabande.
Sciogliendosi in spirali grumose, pendagli e bizzarre caverne, il castello si dissolse a poco a poco, consumato nel sontuoso banchetto di gala. E quanto più le pareti egli architravi, le scale e i colonnati di cera si trasformavano in luce e in fuoco, tanto più si riduceva il numero delle fiamme restanti. Una dopo l'altra si spensero, ubriache, sazie, esauste. Quando infine giunse l'alba, soltanto pochi ballerini vacillavano ancora su un lago di rigida cera multicolore. Ma anche questi ultimi instancabili si accasciarono a poco a poco, girarono ancora una volta su se stessi e cessarono poi di esistere. La lieve brezza mattutina soffiò via ancora un piccolo, bianco pennacchio di fumo sopra l'ampia superficie piana. Quindi la cerimonia nuziale finì.
C'ero anch'io. E potete credermi: fu, per Dio, una festa davvero grandiosa!




SULL'AMPIA superficie grigia del cielo scivolava un pattinatore, a testa in giù, con una svolazzante sciarpa di lana al collo. Poteva farlo, dato che il cielo era gelato.
Con i nasi gocciolanti e le bocche spalancate, una folla di gente stava a guardare da terra, indicava verso di lui e di tanto in tanto lo applaudiva, quando gli era riuscito un balzo particolarmente difficile (all'ingiù, si capisce).
Egli sfrecciò descrivendo grandi archi e volte, sempre le stesse figure, finché la traccia lasciata dalla sua corsa si fu incisa nel cielo. Si vide allora che si trattava di lettere, forse un messaggio importante. Poi egli scivolò via, scomparendo lontano oltre l'orizzonte.
La folla restò a fissare verso l'alto, ma nessuno conosceva quell'alfabeto, nessuno era in grado di decifrare la scritta. Lentamente la traccia si dissolse e il cielo tornò a essere soltanto un'ampia superficie grigia.
La gente andò a casa e presto dimenticò l'accaduto. In fondo in fondo ognuno ha i propri problemi, e poi: chissà se il messaggio era davvero così importante.




QUESTO signore è fatto solo di lettere. Di moltissime lettere, s'intende, di un numero astronomico di lettere, ma per l'appunto solo di lettere.
Ecco la sua amica. Lei è fatta, come ben si vede, di carne e ossa. E che carne e che ossa! È un piacere anche starla soltanto a guardare... per non parlare poi di toccarla!
I due vanno insieme alla fiera. Sulle barchette a dondolo e sulla ruota gigante procede ancora tutto per il meglio. Ma poi arrivano a un tiro a segno; certo, un tiro a segno assai singolare.
PROVA TE STESSO! c'è scritto sopra a grandi lettere. E più in basso si possono leggere le regole. Sono soltanto tre:
1. OGNI TIRO È UN COLPO ANDATO A SEGNO.
2. OGNI TIRO ANDATO A SEGNO DÀ DIRITTO A UN TIRO GRATUITO.
3. IL PRIMO TIRO È GRATUITO.
L'uomo, con un braccio attorno ai fianchi dell'amica, studia attentamente la scritta. Vorrebbe proseguire in fretta, ma lei insiste perché approfitti dell'offerta vantaggiosa. Vuole vedere quello che lui è capace di fare.
Ma il signore non vuole.
« Perché no, caro? Che male c'è? »
C'è che bisogna sparare a un bersaglio molto insolito, cioè a se stessi, vale a dire alla propria immagine
riflessa in uno specchio metallico. E l'uomo fatto di lettere non si sente abbastanza reale da distinguere in maniera così arrischiata fra sé e la propria immagine riflessa.
« O spari », gli dice infine l'amica furibonda, « oppure ti pianto! »
Egli scuote la testa. Allora lei se ne va assieme a un altro, un macellaio, che di carne e di ossa se ne intende.
Il signore rimane lì e la segue con gli occhi. Quando lei infine scompare in mezzo alla ressa, egli si disfa a poco a poco in un mucchietto di piccolissime maiuscole e minuscole, che la gente poi calpesta.
Tanto valeva che avesse sparato, no?




IN realtà si trattava solo delle pecore, però anche noi uomini dovevamo tenerci nascosti, dal momento che chiunque avesse disubbidito alla disposizione tassativa di consegnare tutte le sue pecore metteva a repentaglio la vita. Bastava anche soltanto sapere dove si trovavano delle pecore; non occorreva presentare denuncia.
Il motivo per cui veniva pretesa con sistemi tanto rigorosi la consegna degli animali non ci era affatto chiaro, visto che non sembrava che tutte le pecore requisite fossero subito macellate. Non sussisteva un tale bisogno di carne, tanto meno di carne di pecora. Al massimo veniva macellata subito la metà degli animali consegnati; ciò che accadeva dell'altra metà, se venisse rinchiusa in un primo momento in grandi stalle-deposito o portata fuori del paese, questo nessuno di noi lo sapeva. E poiché non riuscivamo ad afferrare il senso di tutta la faccenda, in quei primi giorni almeno, cominciammo a fare, per quanto concerneva i particolari, le più strane congetture.
In ogni caso eravamo tutti ben contenti di aver trovato per i nostri animali quel capannone vuoto. Hanna, mia moglie, era del parere che dovesse trattarsi di un ex megaparcheggio o qualcosa del genere. Io, invece, mi ero impuntato a sostenere che non potesse essere altro che un mercato coperto. In fondo non c'era modo di dimostrare nè l'una nè l'altra ipotesi. I bassi recinti che correvano tutt'intorno alle pareti e nei quali
avevamo spinto le pecore non avvaloravano nessuna delle due.
Si dice che in tali situazioni nulla sia più difficile dell'attesa. Io non posso confermare questa esperienza. Noi eravamo di buon umore, quasi allegri. Ce ne stavamo sparsi qua e là in gruppetti più o meno numerosi a chiacchierare animatamente fra noi. Alcuni, da soli o a coppie, passeggiavano su e giù per il capannone. Fra il brusio generale risuonavano di continuo delle risa. Si, davvero, ridevamo, trovavamo comico il fatto che le squadre dei macellai dai grembiuli insanguinati, che perquisivano l'intera città alla ricerca di pecore tenute nascoste, entrassero e uscissero persino dalla casa accanto senza che passasse loro per la testa di cercare nel nostro capannone. Alcuni di noi si permettevano addirittura osservazioni ironiche sull'olfatto evidentemente atrofizzato di quei tipi.
Alla fine eravamo così sicuri del fatto nostro che lasciammo uscire le pecore dai recinti. Gli animali stavano in mezzo a noi, perplessi e leggermente turbati e si lasciavano osservare. Di tanto in tanto uno belava. Questo ci impensierì un poco. E quando subito dopo vedemmo che proprio dalla casa accanto, dove i macellai entravano e uscivano in continuazione, un piccolo gregge di forse una decina di pecore veniva condotto fuori e caricato su un camion in attesa, il nostro buon umore sparì in un batter d'occhio. In fretta spingemmo le nostre protette di nuovo dentro i recinti e ne chiudemmo ben bene le porte. Fuori il camion effettuò una lunga manovra di conversione facendo un gran fracasso e finalmente si allontanò.
Non era trascorsa più di mezz'ora che lo stesso
autoveicolo tornò, fermandosi proprio di fronte al nostro capannone. La porta fu spalancata e noi vedemmo alcuni macellai saltare giù dal retro del camion coperto. Al grido di « oh-issa! » tirarono fuori dal piano di carico enormi pezzi di carne sanguinolenta, tanto grossi che ciascuno di essi doveva venire portato in spalla da due o anche tre uomini insieme. Non so di che animali si trattasse, forse elefanti o mammut, pecore certamente no.
Comunque lo spettacolo ci fece rabbrividire, tanto più quando vedemmo che i macellai si accingevano a portare i loro fardelli sanguinolenti proprio dentro il nostro capannone. Il loro regolare « oh-issa » si era trasformato presto in una specie di monotona cantilena, due strofe ripetute continuamente, al cui ritmo essi si muovevano:

Prendi la vittima! Immola la vittima!
Chi non sacrifica, diventa vittima...
Noi tutti ci unimmo a poco a poco alla cantilena, nell'assurda speranza di convincere così i macellai della nostra innocenza e assoluta tranquillità d'animo riguardo l'osservanza della disposizione generale. Intanto ognuno di noi tremava al pensiero che qualcuna delle pecore nascoste nei recinti si mettesse a belare. Cantammo sempre più forte per coprire un eventuale belato rivelatore da parte dei nostri animali, ma per fortuna essi rimasero stranamente in silenzio, proprio come se avessero capito la pericolosità della situazione, ciò che naturalmente non poteva essere vero.
Il corteo dei macellai carichi di carne - nel frattempo
erano diventati molti di più di quelli che potevano essere arrivati col camion - avanzava lentamente, a passo di processione, proprio verso il punto in cui mi trovavo assieme ad Hanna, mia moglie. La tirai da parte e, mentre mi voltavo a metà, scorsi sulla parete alle nostre spalle, in mezzo a due recinti, una porta che era aperta e pareva condurre giù in una cantina. I macellai vi si diressero e, uno dietro l'altro, scomparvero di sotto con i loro carichi.
Mi colpì il fatto che nessuno ne tornasse. Il corteo aveva tutta l'aria di muoversi soltanto in una direzione, dal camion davanti al capannone verso la porta della cantina. Ciò mi affascinò al punto che per un bel pezzo non potei staccare lo sguardo dalle persone che mi sfilavano dinanzi. Mi dissi che senza dubbio dovevano uscire di nuovo alla luce del sole passando per un'altra porta, ma appena mi sforzai d'imprimermi nella mente il viso di una di loro per riconoscerla al successivo passaggio, la mia miopia mi diede purtroppo del filo da torcere e i contorni del viso sfumarono, sebbene avessi gli occhiali e strizzassi gli occhi. Non riuscivo a capirne il motivo. D'un tratto mi era venuta, così si dice da noi, una « vista da pecora », perché, com'è risaputo, le pecore, soprattutto se impaurite, vedono male o anche doppio.
In preda a un'insopportabile tensione, mi volsi verso Hanna nella speranza di leggere sul suo volto qualcosa che servisse a calmarmi o rallegrarmi. Ma nel frattempo lei se n'era andata, non aveva retto più a lungo la vista dei macellai.
Mi imposi di mostrarmi tranquillo e gironzolai in mezzo alla nostra gente, cantando a voce alta la canzone
dei macellai. Il capannone aveva una sorta di navata laterale, e là vidi finalmente, per un attimo, scintillare i quadri marrone e bianchi del vestito di Hanna. Mi affrettai a raggiungerla e notai che stava parlando con la mia anziana madre che le sedeva di fronte su un seggiolino pieghevole.
« Sei qui! » esclamai un po' affannato.
Lei sollevò appena gli occhi, mi fece un cenno col capo sorridendo, si curvò di nuovo su mia madre e continuò a parlare con lei a mezza voce.
Detti un'occhiata alle mie spalle. I macellai continuavano a entrare in fila ininterrotta e continuavano a cantare la loro canzone e a trascinare i loro orribili carichi. E laggiù, alla porta dove poco prima ero stato assieme a lei, vidi Hanna: era ancora là! Certo, mi volgeva le spalle, ma io la riconobbi dai grossi quadri marrone e bianchi del suo abito, dallo splendore rossastro dei suoi capelli, dalla figura, dai movimenti. A braccia aperte e sollevate, come se ballasse, schioccava le dita e si dondolava leggermente al ritmo della cantilena.
Mi girai di scatto. Anche davanti a me trovai Hanna, sempre china a conversare con mia madre.
L'afferrai forte per il braccio.
« Mi fai male! » esclamò. « Che c'è? »
Per l'eccitazione non riuscii a parlare. Col braccio teso le indicai l'Hanna dall'altra parte. Ma lei, che io serravo al polso, non parve comprendere quello che mi turbava. Mi guardò e scosse un po' irritata la testa, il suo viso mi apparve come una macchia bianca.
« Sì, davvero! » sentii dire mia madre. Dunque anche lei vedeva ciò che vedevo io.
E poi accadde quanto avevo temuto più di ogni altra
cosa: quell'altra Hanna si voltò e si diresse in fretta verso di noi, come se mi avesse cercato. Quando vide accanto a me la sua sosia che tenevo ancora stretta per il braccio, si fermò, tese le mani e gridò ridendo: « Jaina, tu? »
Le due si strinsero le mani come vecchie amiche che si incontrino di nuovo dopo lungo tempo, ed era come se ognuna di loro guardasse in uno specchio: due macchie bianche perfettamente uguali!
Volevo gridare: No, no, quella non è Jaina! Sei tu!... Invece le ginocchia mi tradirono, caddi a quattro zampe e belai... belai!
Le due donne si fissarono incerte, già un po' in dubbio. Le loro mani si staccarono.
I macellai avevano interrotto il loro canto e li vidi, curvi sotto i loro enormi carichi di carne, sbirciare a fronte bassa verso di noi.




MARITO e moglie vogliono visitare un'esposizione. Si sono fatti tutti belli, il loro morale è alto e sono pieni di aspettative.
Davanti all'ingresso del grande edificio senza finestre dove ha luogo l'esposizione c'è un giardinetto pubblico, un prato calpestato e disseminato di escrementi di cane, rettangolare, circondato da esili alberelli. Disposti su due file che conducono all'ingresso, si trovano alcuni cubi di cemento all'incirca delle dimensioni di una piccola edicola. Ognuno di questi cubi ha sulla facciata anteriore uno sportellino scorrevole, sopra il quale c'è scritto: BIGLIETTI.
La donna si siede su una panchina mentre l'uomo va al cubo più vicino e guarda attraverso lo sportello. Dentro è seduto un tizio incredibilmente grasso, con la testa calva e le bretelle, che dorme a bocca aperta. L'uomo bussa al vetro dapprima con cautela poi sempre più forte. Il grassone si sveglia, si asciuga la saliva dal mento e apre lo sportellino.
L'uomo deve chinarsi per farsi capire.
« Per favore, due adulti. Quanto costa? »
Il grassone guarda pensoso davanti a sé. Annuisce un paio di volte, richiude lo sportellino e si riaddormenta.
L'uomo aspetta un po' ma, visto che il grassone non si sveglia, fa cenno alla moglie di non spazientirsi e si dirige al successivo cubo di cemento.
Al suo interno vede una donna che dorme su una sedia. È così straordinariamente grassa da riempire quasi tutto il piccolo spazio. L'uomo si chiede come possa fare a entrare e uscire dalla porta, e si accorge allora che il cubo di cemento non ha affatto porte. Il piccolo sportellino scorrevole sembra essere l'unica apertura.
Egli bussa. Dopo un momento la donna si sveglia e apre.
« Due adulti, per favore », dice lui. « Quant'è? » « Sì », risponde lei, pigra.
L'uomo aspetta.
La donna chiude lo sportellino e si riaddormenta.
Egli non è disposto a scoraggiarsi tanto facilmente. Nel cubo successivo è seduto un giovane altrettanto grasso; nel quarto una vecchia non meno voluminosa in sottoveste e con una retina sopra le rade ciocche di capelli. Entrambi si svegliano solo dopo che lui ha bussato ripetutamente, aprono i loro sportellini, ascoltano la domanda, annuiscono, chiudono i finestrini e si riaddormentano.
Pieno di pazienza, l'uomo va da un cubo all'altro. Tranne che per l'enorme mole, quei tipi dietro gli sportelli non si somigliano affatto fra loro.
Dietro l'ultimo sportellino è seduta una bambina forse fra i sei e gli otto anni. In rapporto all'età e all'altezza è quasi ancora più grassa di tutti gli altri ospiti dei cubi. Il suo viso gonfio è di un pallore pastoso, fra i capelli sbiaditi porta un fiocco rosa.
l'uomo sta per bussare come a tutti i precedenti sportelli, quando lo sguardo gli cade su un foglio incollato sul vetro dall'interno.


NON DIRE COSA VUOI!
CHIEDI COSA MI MANCA!
L'uomo chiama con un cenno la moglie e insieme studiano l'avviso scritto con lapis copiativo dall'inesperta mano di un bambino.
La donna sospira.
« Oggi le cose non sono davvero così semplici. »
« No, davvero no », dice lui. « Forse è per questo che ci sono così pochi visitatori. A parte noi, non ho visto nessuno da quando siamo qui. »
Bussa, la bimba pallida e grassa si sveglia e apre lo sportellino scorrevole.
« Non ci sono porte », chiede l'uomo, « attraverso cui potete entrare e uscire? »
« No », risponde la bimba, e arrossisce un poco, come se avesse confessato qualcosa di cui vergognarsi.
Ora la donna s'intromette nel discorso:
« Allora hanno costruito il cubo intorno a voi? O come avete fatto a entrarci? »
La bambina grassa annuisce con aria triste.
« Ce lo hanno costruito intorno, ma non hanno calcolato che saremmo cresciuti. Infatti noi siamo una famiglia, anche se forse non sembra. »
« Ma allora non potete neppure parlare tra voi? » osserva la donna, compassionevole.
« Questo non è il peggio », risponde la bambina. « Tanto non faremmo che litigare. La cosa peggiore è che non possiamo mai andare all'esposizione, sebbene siamo quelli che vendono i biglietti d'ingresso. Senza di noi nessuno potrebbe entrare. »
« È così importante per te? » vuole sapere la donna.
« Voglio dire, tu sei ancora piccola... insomma, giovane. Credi che saresti in grado di capire tutto? »
« Capire... » la bimba fa spallucce. « Vorrei semplicemente sapere cosa c'è da vedere lì dentro. »
« Possiamo raccontartelo noi », propone la donna,
« quando usciamo. »
La bambina la guarda piena di gratitudine.
« Ma per farlo », interloquisce l'uomo, « dobbiamo prima entrare. Abbiamo bisogno di due biglietti, vero? »
« Sì », dice la bambina grassa, e di nuovo sembra già molto assonnata. Perciò l'uomo si affretta ad aggiungere:
« Che cosa faresti, se potessi muoverti liberamente? »
« Andrei dentro, per scoprire perché dobbiamo starcene chiusi qui. »
« Ma se tu potessi muoverti liberamente, non saresti più chiusa qui dentro e non avresti perciò motivo di andarci. »
La bimba grassa guarda l'uomo, sorpresa.
« È vero! » mormora. « Allora posso benissimo rimanere qui. Non ci avevo mai pensato. »
« Vedi? » esclama la donna con un sorriso cordiale. « Due biglietti, per favore! »
« E un catalogo! » aggiunge in fretta l'uomo.
« Due adulti... un catalogo », ripete la bambina grassa con tono professionale. « Ecco qua. »
Spinge i due biglietti e il catalogo fuori dello sportello, lo richiude senza aver preso denaro e si riaddormenta con un'espressione soddisfatta in viso.
L'uomo e la donna si guardano, tirano
contemporaneamente un sospiro di sollievo ed entrano nell'edificio senza finestre. Sopra la grande porta è scritto a grossi caratteri il titolo dell'esposizione: OGGETTI.
Nella prima sala si trovano davanti una pecora che se ne sta in un angolo col capo e le orecchie ciondoloni.
Egli controlla sul catalogo e trova il titolo Pecora. Lo legge a mezza voce.
« Sembra quasi vera, non ti pare? » chiede la donna,
inquieta.
La pecora bela piano, con tono afflitto. Lei si aggrappa al braccio del marito e sussurra:
« Andiamocene subito! »
Nella stanza seguente vedono uno spolverino dentro una vetrina; L'uomo consulta di nuovo il catalogo e trova il titolo Spolverino. E di nuovo lo legge a mezza voce.
La donna gira intorno alla vetrina e osserva il pezzo d'esposizione da ogni lato.
« Giusto! » esclama infine, annuendo con convinzione.
La stanza attigua è piena fino alle caviglie di sabbia del deserto. E naturalmente il titolo dell'opera è Sabbia del deserto.
L'attraversano con una certa fatica.
Il pezzo seguente è una fiaccola accesa, dal titolo Fiaccola accesa, piantata ritta dentro uno scaffale insieme con accette e scuri. Poi è la volta di una lunghissima rete dal titolo Rete, tesa obliquamente attraverso l'intera sala. Nella stanza successiva c'è un orologio a pendolo dal titolo Orologio a pendolo.
Qui l'uomo e la donna incontrano un altro visitatore. Si tratta di un collega del marito che li saluta
cordialmente. Ha con sé un gambero vivo che regge sotto il braccio sinistro come se fosse un oggetto poco maneggevole.
Dapprima parlano del più e del meno, poi il collega domanda di punto in bianco: « Vi piace l'esposizione? »
L'uomo e la donna si scambiano un'occhiata incerta e mormorano qualcosa come « un giudizio non ancora definitivo » e « appena appena arrivati ».
Il collega li interrompe.
« Allora mi dispiace », dice schiettamente ad alta voce, « mi dispiace davvero, ma devo confessare che questo tipo di arte a me non dice proprio niente. Trovo che è una pretesa! »
« Arte? » domanda l'uomo al colmo dello stupore. « Ah, questa è una mostra d'arte? »
Il collega lo fissa altrettanto perplesso.
« Perché, non lo è? Allora sono venuto alla mostra sbagliata! Ma che cos'è, dunque, questa? »
Si crea una breve pausa penosa, poi, tanto per dire qualcosa, il marito s'informa sul gambero, chiedendo se il collega abbia intenzione di cucinarselo.
« No, no! » risponde questi, quasi indignato. « La bestiola è venuta da me un paio di giorni fa, ma non posso lasciarla a casa perché mia moglie ha minacciato di buttarla dalla finestra appena la trova sola. Sostiene che questa innocente creaturina danneggia i mobili imbottiti. Naturalmente è una calunnia infondata con cui cerca soltanto di guastarmi la festa. Lei conosce mia moglie! In ogni caso sono costretto a portarmi sempre dietro l'animale anche se questa, a lungo andare, non è certo una soluzione. »
L'uomo e la donna assicurano al collega il loro rincrescimento per i fastidi subiti ed esprimono la loro speranza che tutto possa presto volgere al meglio. Poi lo salutano e riprendono la loro visita attraverso la mostra.
Esaminano accuratamente una grossa piccionaia di legno dal titolo Piccionaia. Si soffermano a lungo anche davanti a un fascio di candelotti di dinamite avvolti in una carta untuosa e tenuti insieme da nastro adesivo. Alcuni fili elettrici di diverso colore collegano il fascio a una sveglia ticchettante. Secondo il catalogo il titolo dell'opera è Bomba a orologeria.
« Carina », dice la donna un po' titubante. Il marito le fa « pss! » e si volta verso un paio di altri visitatori che stanno per l'appunto entrando nella sala, perché ha la sensazione che tale giudizio sia in qualche modo inopportuno.
Nella stanza successiva è dipinta sulla parete a grandi lettere rosse la parola VERDE. Stranamente questa volta il titolo non è Verde, come l'uomo aveva supposto, ma Lettere.
« Originale », mormora, e lei fa un cenno di assenso,aggiungendo:
« Ma azzeccato, no? »
Poi arrivano in una stanza dove c'è un odore nauseante la cui origine è in un grosso recipiente pieno di occhi di pesce. Il titolo è, come prevedibile, Occhi di pesce.
La donna non riesce a sopportare il tanfo, e così proseguono rapidi.
In mezzo alla sala seguente, sopra una pedana di legno, è posato un barattolo di latta. Si tratta di un
comunissimo barattolo di latta, cilindrico, chiuso da ogni lato, dal titolo Barattolo di latta.
Fermo lì di fronte, come in contemplazione, c'è un bambino piccolo tutto solo.
« Ehi, piccino! » fa la donna in tono materno, « i tuoi genitori ti hanno perso? »
Si china su di lui e si spaventa vedendo che il piccolo ha una lunga barba nera. Dopo qualche spiegazione viene fuori che si tratta di un critico famoso.
« Questo », afferma il critico, indicando con un minuscolo ditino il barattolo, « è un capolavoro! »
L'uomo non vuole lasciarsi sfuggire l'occasione di erudirsi e domanda:
« In base a quali criteri lei giudica un'opera? »
« Prima di tutto », spiega il piccoletto barbuto, « mi chiedo che cosa abbia voluto comunicare l'artista. Poi valuto se i mezzi che ha impiegato a tal fine sono adeguati o meno. Questo barattolo chiuso da ogni lato esprime l'assoluta impossibilità di qualsiasi tipo di comunicazione. Niente dall'interno può passare all'esterno, niente dall'esterno può raggiungere l'interno. L'artista ci comunica in maniera molto suggestiva che non esiste alcuna possibilità di comunicare. E il modo in cui ce lo comunica è del tutto convincente. »
« Non c'è forse una qualche contraddizione in tutto questo? » si azzarda a obiettare l'uomo con gran cautela.
« Certo! » risponde il piccoletto stizzito, « altrimenti non sarebbe un'opera d'arte! »
« Ma allora questa è davvero una mostra d'arte! » esclama la donna.
Il critico leva, irritato, gli occhi su di lei, ma subito
dopo si calma e replica: « Ciò è del tutto irrilevante ». L'uomo e la donna ringraziano per le preziose informazioni e proseguono in fretta. Nella sala successiva trovano una stampella dal titolo Stampella e un uovo accanto a una foglia appassita dal titolo Uovo e foglia, ma non riescono ad applicare a questi oggetti quanto hanno appena appreso dal critico. Anche un cannocchiale di pesante ottone, dal titolo Cannocchiale, non svela loro il proprio significato.
Un po' avviliti, passano davanti agli altri pezzi d'esposizione senza grande interesse. Si fermano ancora una volta di fronte a una frusta con la cordicella avvolta attorno al corto manico. Il titolo è Frusta da circo. Ma anche in questo caso non riescono a scoprire il significato recondito.
« Vieni! » esclama l'uomo. « Ho l'impressione che da qualche parte sia scoppiato un incendio. »
In effetti la stanza in cui si trovano si è riempita di fumo in brevissimo tempo. In quell'istante dalle nuvole grigie escono a passo spedito due medici con camice bianco e mascherina sterile alla bocca e al naso. Trasportano su una barella un pompiere la cui uniforme fumiga. Ha la gamba sinistra strappata all'altezza del ginocchio, il moncone è avvolto in bende macchiate di sangue.
L'uomo e la donna si premono fazzoletti sulla bocca a mo' di protezione e corrono verso l'uscita. La raggiungono con nasi fuligginosi e occhi arrossati. I loro abiti sono pieni di buchi e i capelli bruciacchiati..
Davanti al cubo di cemento in cui è la bambina grassa si fermano per tirare il fiato. La bambina apre lo
sportellino e l'uomo s'informa su che cosa sia realmente accaduto.
« È esplosa una bomba », risponde la bimba. « Non avete udito lo scoppio? »
« Per la verità non ci siamo accorti di nulla », dice l'uomo.
« È strano », aggiunge la donna, « c'è di nuovo un'altra guerra? »
Non ancora », spiega la bambina con aria un po' saputella « Per il momento è stato solo un attentato al Primo Ministro del Ndongu. »
« Ah », fa l'uomo, mentre si asciuga col fazzoletto sporco gli occhi lacrimosi. « Non sapevo che fosse qui »
« Infatti non è qui », risponde la bimba grassa, « grazie al cielo! Adesso si trova a un congresso a Karan-el-Zur. »
»
« Ah », esclama la donna. « Allora non è accaduto nient'altro di grave. »
« No, per fortuna no », replica la bambina. « Salvo che un postino è stato scagliato in aria. Ma naturalmente si è trattato solo di uno sbaglio. »
« Era un pompiere », rettifica l'uomo.
« No, un postino », insiste la bimba. « Ma la colpa è sua. Avrebbe dovuto essere in giro a recapitare lettere e non a bighellonare lì dentro. Perciò alla sua morte non viene dato alcun valore. »
Con queste parole la bimba grassa richiude lo sportellino scorrevole e si riaddormenta.
« Non ho ben capito perché avremmo dovuto riferirle quello che c'era da vedere », dice la donna un po' risentita. « Sa già tutto meglio di noi. »
Passano di fronte all'edificio senza finestre dal cui ingresso esce ancora fumo. I due medici stanno accostati al muro, lo percuotono leggermente e auscultano con i loro stetoscopi.
« Straordinario! » esclama uno di loro togliendosi gli auricolari. « L'esplosione dilaga all'interno del muro, pian piano, ma irrefrenabile, a quanto sembra. »
L'altro scuote la testa e mormora:
« Un effetto collaterale del tutto imprevedibile ». L'uomo e la donna si dirigono verso casa profondamente assorti nei loro pensieri. Dopo un po' egli dice: « Era un pompiere. Ne sono assolutamente sicuro ».
Lei fa un cenno di assenso, ed egli prosegue: « Perché oggi ci rendono tutto così difficile? »
La donna lo prende a braccetto, intreccia le dita fuligginose a quelle di lui e dice, assalita da un'improvvisa e inspiegabile tristezza:
« Forse non intendevano prendersela con noi. Di sicuro non erano mossi da cattive intenzioni. Però hai ragione tu, non dovrebbero fare queste storie ».




INDICE
cap.1 Scusa, non posso parlare più forte pag. 9
cap.2 Sotto l'esperta guida del padre e maestro pag. 14
cap.3 La cameretta nella mansarda è celeste pag. 20
cap.4 La cattedrale della stazione si ergeva su un grosso lastrone pag. 33
cap.5 Un pesante drappo nero pag. 50
cap.6 La signora scostò la tendina nera del finestrino della carrozza pag. 54
cap.7 Il testimone afferma: si sarebbe trovato in un prato notturno pag. 59
cap.8 L'angelo, di un pallore marmoreo, sedeva quale testimone fra il pubblico pag. 62
cap.9 Scuro come torba è il viso della madre pag. 73
cap.10Lento come un pianeta gira il grande tavolo rotondo pag. 75
cap.11L'interno di un volto, con gli occhi chiusi, e niente più pag. 83
cap.12Il ponte, al quale lavoriamo già da molti secoli pag. 92
cap.13È una stanza e contemporaneamente un deserto pag. 95
cap.14Fiamme danzanti erano gli invitati alle nozze pag. 108
cap.15Sull'ampia superficie grigia del cielo scivolava un pattinatore pag. 111
cap.16Questo signore è fatto solo di lettere pag. 113
cap.17In realtà si trattava solo delle pecore pag. 115
cap.18Marito e moglie vogliono visitare un'esposizione pag. 122
cap.19Al giovane medico era stato consentito pag. 133
cap.20Dopo la chiusura dell'ufficio pag. 141
cap.21Il palazzo del bordello sulla montagna risplendeva quella nottepag. 152
cap.22Il giramondo decise di porre fine alla sua passeggiata pag. 164
cap.23Quella sera il vecchio navigante non ce la fece più a sopportare il vento ininterrotto pag. 174
cap.24Sotto un cielo nero si estende un paese inabitabile pag. 179
cap.25Mano nella mano, due scendono lungo una strada pag. 186
cap.26Nell'aula pioveva ininterrottamente pag. 203
cap.27Nel corridoio degli attori trovammo alcune centinaia di persone in attesa pag. 215
cap.28Il fuoco fu aperto di nuovo pag. 221
cap.29Il circo brucia pag. 234
cap.30Una sera d'inverno pag. 255





INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
(EDGAR ENDE, 1901-1965)
Il toro e il grappolo d'uva (litografia, 1953)
Un angelo e l'uomo con le ali (disegno a china)
Dialogo in profondità (litografia, 1953)
Testa di Giano (litografia, 1953)
L'uomo-pianta (disegno a china e gessetto, 1947)
La liberazione (litografia, 1960)
Amore armato (litografia, 1960)
Il bagno materno (litografia, 1953)
Il carro-gabbia (litografia, 1960)
La verticale ben radicata (litografia, 1953)
Nudi davanti al negozio di frutta (litografia, 1953)
Il demone del bosco (litografia, 1960)
Orfico proliferare (litografia, 1960)
Il viso-foglia (litografia, 1953)
Peccatrice (litografia, 1953)
Il tempo malato (litografia, 1960)
Lazzaro aspetta (litografia, 1960)
Il re mendicante (acquaforte, 1936)






OPERE:

Der Spiegel im Spiegel. Ein Labyrinth

Der Wunschpunsch
Die unendliche Geschichte
Momo
Jim Knopf und Lukas der Lokomotivführer
Jim Knopf und die Wilde 13
Das Schnurpsenbuch
Die Geschichte von der Schüssel und vom Löffel
Lenchens Geheimnis
Der lange Weg nach Santa Cruz
Tranquilla Trampeltreu
Das Traumfresserchen
Der Lindwurm und der Schmetterling
Filemon Faltenreich
Norbert Nackendick
Ophelias Schattentheater
Die Schattennähmaschine
Das Gefängnis der Freiheit
Der Rattenfänger
Das Gauklermärchen
Der Goggolori
Trödelmarkt der Träume
Die Jagd nach dem Schlarg
Der Spielverderber
Phantasie/Kultur/Politik
Die Archaologie der Dunkelheit